Una "Saffo giardiniera": Angela Veronese, (1778 - sec. XIX)

4 novembre 2004, Babilonia con il titolo "Una "Saffo giardiniera": Angela Veronese, (1778 - sec. XIX)"

"Vengo solamente per farmi sentire
quale ineducata figlia del bosco"
La futura Aglaja Anassilide - tale fu il suo nome "pastorale" in ossequio alle convenzioni della poesia arcadica all'interno della quale si situerà la maggioranza delle sue opere - nasce a Biadene, all'epoca una “villa” (sobborgo) di Treviso il 20 dicembre 1778 da Pietro Rinaldo, giardiniere, e Lucia (figlia di un fabbro). Tale connubio farà dire ad Angela di essere in qualche modo il risultato dell'unione di Flora e Vulcano.
Sebbene io non possa, ovviamente e per carenza di documentazione attendibile, sostenere che Angela Veronese fosse lesbica, alcuni "tratti di famiglia" nella sua produzione mi inducono a credere che come minimo (e non è poco, se pensiamo all’ambiente ed all’epoca in cui scrisse) questa donna abbia nutrito una stima ed un affetto sconfinati per il proprio sesso.
Preoccupata che di lei si dicesse il vero, ad un'edizione dei suoi versi anteporrà Le notizie della sua vita scritte da lei medesima, che terminano appunto con un appello alla verità, la quale dovrebbe essere:

"l'animatrice di ogni scrittore. (...)

Ti ammirai in altrui e ti difesi in me stessa (...) offri un asilo sicuro alle notizie sulla vita di Aglaja Anassilide".

Che la giovane poetessa sentisse il bisogno, a neppure trent’anni, di mettersi al riparo dalla diffamazione è un ulteriore segnale della sua posizione trasgressiva nella società in cui visse.



Fra i primi ricordi Angela colloca lo stampatore Bassanini di Venezia, che possedeva una casa di campagna vicina a quella in cui il padre di lei prestava servizio, e che era uso regalare libri alla famiglia.

Quando Angela ha tre anni, i Veronese si trasferiscono a S. Bona (altra villa di Treviso), al servizio di Casa Zenobio, i cui signori seguiranno a Venezia tre anni dopo.

La figura paterna è vista come mite e generosa, amante della natura e degli animali (Angela ricorda ad esempio che cane e gatta domestici li hanno seguiti in tutti i loro spostamenti; la micia morirà serenamente di vecchiaia in Venezia e, sepolta in giardino, sul suo tumulo verrà piantato un roseto che darà le rose della gatta); più severe, ma ugualmente amabili le figure della madre e della nonna, che appaiono maggiormente preoccupate, però, dall'ardimento e dal precoce ingegno della bambina.

Il padre asseconda il desiderio di sapere di Angela, anche perché ella è l'unica figlia sopravvissuta ai molti nati (solo quando la fanciulla conterà tredici anni, una sorellina riuscirà a sopravvivere).

A Venezia Angela si ammala di vaiolo; ricorda di esser stata cieca per sei giorni e di aver molto sofferto per la perdita dei capelli che erano di color "castagno oscuro", "folti e inanellati".

A tal proposito, accondiscendente ai pregiudizi del probabile lettore maschio della sua autobiografia aggiunge: "Conobbi allora d'essere vera femmina, poiché l'ambizione cominciava a prender possesso delle mie idee" (ove, per "ambizione", noi useremmo oggi "vanità").
Si vedrà in seguito, esaminando le sue liriche e le sue azioni, che in realtà la vanità e l'ambizione di Angela erano più alte e diversamente orientate...
A Venezia si tenta di farle frequentare una scuola femminile, dalla quale viene espulsa per vivacità, senza che questo turbi granché il parentado.
Seguendo i conti Zenobio, i Veronese tornano a S. Bona; del periodo Angela ricorda che suo padre aveva stretto amicizia con due poeti trevigiani, il Marchese Montanaro Bomben e Giovanni Pozzobon, autore di lunari detti "El Schieson Trevisan", dal quale la bambina sentirà per la prima volta parlare di astronomia, appassionandosi all'aspetto "lirico" di tale materia (le stelle come sogno).
A nove anni, incoraggiata dal padre, raccoglie la "sfida" del proprio padrone, il conte Alvise Zenobio, a tirare al bersaglio con la pistola. Ne guadagnerà uno zecchino e l'avversione per le armi da fuoco, di cui odia soprattutto il rumore.
Apprende, all'epoca, delle opere di Shakespeare da uno dei camerieri inglesi del conte suddetto, opere che infiammano la sua fantasia, riempiendola di regine e veleni.

All'età di undici anni impara a scrivere, vincendo l'ostilità materna a tal progetto (per una fanciulla leggere era commendevole, ma scrivere no...) da un falegname prima e da un coetaneo, figlio del fattore della villa, poi.

A tale fanciullo chiede in dono le Opere di Metastasio e ricorda di averlo fatto con tale ardore da rendere impossibile all'altro un diniego.
Due anni dopo, quando il padre è passato al servizio di Donna Alba Zenobio (sorella del conte Alvise e maritata Albrizzi), Angela scrive i primi versi:

Già sorta era la rosea
diva, che il ciel colora,
che gli astri rende pallidi,
che l'orizzonte indora...

nonché un sonetto per il conte Alessandro Pepoli (paragonato ad Apollo su aureo cocchio) che lei vede passare, appunto, in carrozza scoperta sul Terraglio.

Angela briga per far giungere il sonetto al destinatario, rivelando qui la sua vera ambizione di donna di lettere, e sebbene il sonetto rischi (per incuria dell'intermediario) di finire ad accendere una pipa, Francesco Bragadin, nobiluomo presente al tentato scempio, lo previene e consegna i versi al Pepoli.

Quest'ultimo risponde in rima ad Angela, che pur ricordando ancora la propria stupefatta gratitudine di fanciulla per il gesto, non si esime (da donna fatta) dal fornirci un quadro piuttosto schietto del rimatore, che è sì poeta sia tragico che comico, cavallerizzo, maestro di scherma ecc., ma anche "amante di lussi e donne" al punto che quando muore, nel fior degli anni, viene "compianto (...) principalmente dai suoi creditori".
Successivamente, Angela ha la ventura di incontrare Isabella Teotochi (che stava per sposare un Albrizzi) alla quale dona un fiore e un epigramma in lode della bellezza di lei.

Ginevra Canonici Facchini, nel Prospetto biografico delle donne italiane rinomate in letteratura, dal sec. decimoquarto sino ai giorni nostri, edito nel 1824, lodò la "gentilezza d'immagini e sceltezza di stile" della poetessa, auspicando che un mecenate la innalzasse al posto che, secondo Ginevra, ella meritava. Né mancò di sottolineare la presunta umiltà di Angela che "paga di se stessa nulla chiede, e trae gli onorati suoi giorni nella ristrettezza e nella oscurità senza lagnarsi delle ingiurie della fortuna nemica".

Eppure, Aglaja Anassilide tentò invece con tenacia di farsi conoscere ed apprezzare, scrivendo incessantemente sonetti e composizioni sui fatti più banali accaduti a coloro i quali i versi erano indirizzati (e molto spesso si trattava di personaggi "potenti" di cui Angela cercava l'approvazione ed il favore: curiosamente, quasi tutti questi personaggi erano donne!).

La poetessa celebra un "bagno minerale" della tal nobildonna, auspica guarigione dalle febbri per la tal altra, compone financo sul "gatto d'Angola" che una terza regge in grembo (e dice di non essere l’unica a desiderare di prendere il posto del gatto...); versifica lauree, matrimoni, insediamento del nuovo parroco e così via, tanto che Giuseppe Vedova, nel volume "Prose e poesie scelte di donne italiane del secolo 19°", edito nel 1837, riporta testualmente un giudizio dell'"Antologia" di Firenze, ove si nota come la delicatezza delle sue rime "sarebbe più cara se meno mitologiche fossero le immagini, e più degni della poesia gli argomenti".
Angela conobbe anche Ugo Foscolo, presentatole dalla contessa Spineda (il padre aveva di nuovo cambiato padroni, trovando lavoro nella villa malinconica - così la poetessa la ricorda - di Breda, ove resteranno dieci anni).
Quest’ultima sarà legata da grande affetto alla fanciulla, ed Angela la riconoscerà come propria protettrice e mecenate.
Al Foscolo la giovane riconosce i tratti del genio, ma non manca di ricordare che egli le si avvicinò "più che non permetteva la decenza della vita civile".
Poiché la contessa Spineda chiama Angela "la mia Saffo giardiniera", Foscolo le chiede che ne pensi della poetessa di Lesbo, ed Angela risponde citando la leggenda del suicidio di quest'ultima (che dobbiamo alla fantasia della commedia attica di Menandro, databile circa settecento anni dopo il periodo in cui la poetessa visse, ma che godette gran fortuna negli ambienti letterari poiché, rendendo Saffo soggetta all'amore di un uomo che la respingeva e per il quale ella finiva per uccidersi, "purgava" questa donna il cui unico torto era quello di essere stata brava e famosa, dello sfacciato amore per il proprio sesso. Va qui ricordato che a causa di ciò la sua opera venne piamente distrutta nei cristianissimi secoli successivi).
Angela dice ingenuamente al Foscolo che Saffo doveva essere stata ben poco avvenente per essere respinta da Faone in modo tanto risoluto ed egli reagisce con veemenza al preconcetto assimilato dalla ragazza, spiegando come bella ed amabile fosse Saffo in realtà, ma non aggiungendo altro (a una donna non si danno spiegazioni, a una giovane meno ancora, esse possono e debbono solo ammirare e, qualora creino, restar molto umili).
Risale a questo periodo (supponiamo Angela ancora adolescente, ma dopo essersi puntigliosamente datata sino ai 13 anni, ella non ci dà altre informazioni cronologiche) la prima "corrispondenza pastorale" in versi, con il dottor Ghirlanda di Onigo (nell'Arcadia, Angela lo chiama Lisandro). Altri saranno il giovane Abate Viviani (Dafni), la predetta Teotochi Albrizzi (Eurilla), Angela Paganelli Fapanno (Fillide).
Il già citato Vedova, nel presentare l'opera della poetessa, ricorda oltre alle approvazioni mietute presso uomini d'ingegno e ai premi dei prìncipi, che i versi furono inseriti nel Parnaso Anacreontico e musicati da Perrucchini; né manca di sottolineare la generosità con cui "la buona Aglaja profonde ad ogni persona e ad ogni cosa le sue lodi con generosità veramente modesta".

Particolarmente vero è questo quando Aglaja canta le donne celebrandone la bellezza e l'onore (alle sue edizioni, spesso antepone un detto del Cigno Ferrarese, ovvero l'Ariosto: "Le donne son venute in eccellenza in ciascun'arte ov'hanno posto cura") e testimoniando un sincero amore per il proprio sesso; all'egregia dama Margherita Contessa de Belgrado, ella offre una rosa non ancora colta, e che rifiuta di farsi spiccare in quanto destinata appunto "alla più bella", e conclude rivolgendosi al bocciolo che immagina ormai in seno alla dama:

"Va', di tua sorte altero
s'aggradirà, lo spero
la donatrice e il don";

altrove, si rivolge a Barbara (che ribadisce tale di nome ma non di fatto) la quale, in grazia delle virtù possedute, è fonte di "delizia" per la poetessa e nel chiedere perdono alla citata "Fillide" per il ritardo con cui le spedisce i propri versi, chiede alla bellezza dell'amica, per la quale immagina l'invidia di dee, di trovare in se' ragione di misericordia (Cerca nei tuoi occhi la ragione del mio smarrimento, afferma più o meno il verso finale del sonetto).

Smarrito, purtroppo, è un poemetto in cui Aglaja faceva primeggiare la bellezza delle donne di Treviso fra le ninfe d'Ausonia.
L'ironia, di cui pure Angela è ben provvista, non colpisce che uomini: quando, ad esempio, il poeta Zacchiroli le recita il proprio poema "Giuda all'albero", la giovane non manca di notare che la fisionomia di lui è ben adatta alla parte...
Anche il più famoso dei suoi epigrammi, subito tradotto dagli estimatori della poetessa in tedesco e in latino, brilla per malizia tutta femminile:
"Citerea gridava: aita,
perché Amor l'avea ferita;
Imeneo che il grido udì
pronto accorse e Amor svanì".

Ovvero: Venere, la donna, è innamorata; si sposa ed ecco l'amore sparire d'incanto...



A poco più di vent'anni, Angela Veronese comincia ad essere conosciuta, i suoi versi viaggiano fra una cerchia d'eruditi, né la poetessa manca d'inviarli a sempre nuovi soggetti che potrebbero accrescere la sua fama.

Di propria iniziativa, manda un sonetto alla Principessa Augusta Amalia di Baviera e poiché esso viene respinto (non è abbastanza "pastorale"), Angela nel giro di due giorni ne ha pronto un secondo perfettamente "arcadico" e che viene infine ben accolto.
Cesaratti, letterato trevigiano, la introduce alla conoscenza dell'abate Barbieri di cui si chiacchiera come donnaiolo, ma che Aglaja trova semplicemente "gentile con le donne" e "diffidente con gli uomini".
Altri amici letterati saranno Paganin Cesa, Francesconi, la Renier-Michel, Muzzarelli e Carrer, grazie al quale le sue opere vennero stampate in Italia, a Parigi e a Mosca.
Ha circa venticinque anni quando conosce un giovane mantovano che "rispetta la poesia" e piace molto, più che a lei stessa che comunque lo stima, a suo padre. È quest'ultimo a proporglielo come marito (che Angela accetterà) con parole del tutto sagge, conoscendo inclinazioni e carattere della figlia: "diventando sua moglie, tu potrai leggere e scrivere a tuo piacere".

Il che, nel mentre i versi sottoriportati coniugano umiltà di fronte alla grande (Saffo) e riconoscimento del proprio valore, era il fine ultimo della vita di Angela:

Sognai sul far dell'alba
d'essere un dì volata
all'isola beata
sacra alla Dea d'amor.

Mirai d'un mirto all'ombra
la stessa Citerea:
che a lato il figlio avea
con l'arco feritor.

Al sacro mirto appesa
vidi una cetra bella
ed in ascrea favella
vi si leggea così:

io fui di Saffo un giorno;
or me non brami invano;
stendere osai la mano
ma il sogno disparì.


Ad un antico platano

Cetra, t'appendo, addio.
Ignota al biondo Dio
I giorni miei vivrò!

Fra cento pastorelle
Per te mi ornai di fiori;
E m'invidiò Licori,
Filen m'accarezzò.

Or t'abbandono; e l'aura
Passando a te d'appresso
Ne desti un suon dimesso
Appena noto al cor.

Un suon che lento e placido
Lusinghi l'alma mia,
Un suon che dolce sia,
Ma che non sia d'Amor [1]

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