Parker Tyler

«Transvestism inheres in the fundamental act of the penis's penetration of the vagina, which becomes something "worn" by the penis, a temporary dress» [1]. Questo genere di amenità Parker Tyler non le usava solo per animare le serate tra amici, ma le scriveva nei suoi più ambiziosi lavori di critica cinematografica, che tra una notazione camp e l'altra offrono intuizioni acute, intelligenti e meditate, osservazioni critiche competenti e spesso ardite, ma mai banalmente soggettivistiche. È piuttosto significativo il fatto che un esponente tra i più influenti della critica cinematografica statunitense degli ultimi quarant'anni, Andrew Sarris, lo riconosca come il suo maestro.

"Lo splendido poeta Parker Tyler"

Poeta anzitutto, e poi critico cinematografico, Harrison Parker Tyler nasce il 6 marzo del 1904 a New Orleans. Folgorato dalla visione sullo schermo dell'attore Carlyle Blackwell, il dodicenne Tyler si innamora del cinema e allo stesso tempo prende coscienza della propria omosessualità, che confida subito ai genitori. È da questa duplice epifania adolescenziale che discende l'interesse di Tyler nei confronti del cinema hollywoodiano come fabbrica di miti e come veicolo di tensioni erotiche, cui dedicherà buona parte del suo lavoro di critico.

L'infatuazione per Blackwell (che non conoscerà mai, ma cui dedicherà numerose composizioni) influenza profondamente anche il suo modo di atteggiarsi, truccarsi, pettinarsi; segna insomma il personaggio dandy che Tyler inventa per sé (autodefinendosi "The Beautiful Poet Parker Tyler") e che lo rende famoso nel Greenwich Village quando, negli anni '20, si trasferisce a New York ed entra in contatto con la sottocultura gay, frequentando parimenti gli ambienti dei surrealisti. Ammiratore di Henry James, Proust, Wilde, Ezra Pound e Mallarmé, tra gli altri, nel giro di poco tempo Tyler si fa un nome come poeta, pubblicando e leggendo le sue composizioni nei club del Greenwich Village.


Nel 1928 avvia una profonda amicizia con lo scrittore (e poi fotografo e regista) Charles Henri Ford (1913-2002). Cultore del surrealismo, Ford ha solo sedici anni quando fonda la rivista Blues (sottotitolata prima A Magazine of New Rhythms e poi A Bisexual Bimonthly), su cui esordisce, tra l'altro, Paul Bowles e sulla quale Tyler, che ha già all'attivo circa trecento poesie, pubblica alcune sue composizioni. Nel '30 Ford si trasferisce a New York, attirato dai ritratti della vita bohemien che lo squattrinato Tyler gli invia nelle sue lettere [2]. Fallito subito il tentativo di una relazione, i due non si negano nulla dell'intensa vita del Greenwich Village: Tyler trova infatti nel giovane Ford, ben consapevole della propria bellezza e particolarmente disinvolto dal punto di vista sessuale, il compagno ideale per sperimentare tutte le possibilità offerte dalla metropoli.

Quando se ne torna a casa, nel Mississippi, Ford concepisce l'idea di fissare i ricordi della sua esperienza newyorkese in un romanzo, scritto poi a quattro mani con Tyler a partire dalla loro corrispondenza di alcuni anni prima. Ne esce The Young and Evil, un romanzo autobiografico esplicito e disinibito che Ford riesce a pubblicare solo a Parigi nel '33, dove nel frattempo si era trasferito godendo della protezione di Gertrude Stein e Djuna Barnes (che del romanzo scrisse: «solo un genio, o il signor Ford e il signor Tyler, avrebbe potuto scriverlo»). Giudicato osceno, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna il romanzo viene bandito e bruciato, quanto basta a farne un ricercatissimo libro di culto. Godrà di un'ampia distribuzione solo con la ristampa del 1960 (nel '61 Longanesi ne pubblica una traduzione italiana intitolata Poveri perversi).

Ford e Tyler collaborano ancora fondando e dirigendo insieme nel 1940 la rivista View, dedicata a letteratura e arte, per la quale Tyler cura anche l'innovativa grafica (prima di darsi alla poesia, Tyler era passato attraverso recitazione, danza e disegno). Tra il '40 e il '47 View ospita scritti di Breton, Sartre, Genet, Borges, Camus e Henry Miller e contribuisce in misura determinante a disseminare negli Stati Uniti il verbo surrealista consacrando numeri monografici a Ernst, Tanguy, Duchamp e Pavel Tchelitchew.

A quest'ultimo, un pittore russo che nel '33, a Parigi, aveva conquistato il volubile Ford (i due fecero poi coppia fissa per ventiquattro anni, fino alla morte di Tchelitchew avvenuta nel 1957), Tyler dedicherà anni dopo un'impegnativa biografia (The Divine Comedy of Pavel Tchelitchew: A Biography, 1967).

"Il grande critico cinematografico Parker Tyler"

Sulle pagine di View Tyler inizia la sua attività di critico cinematografico, attività pionieristica dal momento che fu tra i primi, insieme a James Agee, a dedicare un lavoro di critica accurato e regolare al cinema popolare hollywoodiano. La prospettiva di Tyler è decisamente peculiare: rifiuta infatti di considerare il cinema di Hollywood (dove si era trasferito per qualche anno) come un semplice intrattenimento e vi vede piuttosto il luogo di elaborazione di nuovi miti che rispecchiano tratti e rituali della società e in cui si depositano contenuti e significati profondi (specie sessuali). Compito del critico (qualcosa di diverso dal semplice recensore) è quello di decodificare questi aspetti profondi e nascosti del cinema (Tyler fu sempre affascinato dalle teorie freudiane, così come dalle ricerche sul mito di James Frazer).

Per Tyler i film non sono prodotti da museo, ma parte integrante di un "tutto" insieme alle altre forme d'arte e alla vita stessa. Presentando The Three Faces of the Film: The Art, the Dream, the Cult (1960), una raccolta di suoi articoli, come «un testamento della mia convinzione per cui la critica [...] dovrebbe essere un'occupazione creativa, non solo una "professione utile"», scriverà:


un film (qualsiasi altra cosa possa essere) è essenzialmente il gettone di un flusso di coscienza che si immerge indocile nell'inconscio tanto quanto si connette con la vita incessante della mente e del corpo nella misura in cui questa vita è parte dell'esperienza quotidiana e gode delle altre arti. [3]


Sono convinzioni che accompagneranno tutta l'attività critica di Tyler, che prenderà infatti le distanze dalla critica autorialista dei Cahiers du Cinéma.

Da questo momento in poi Tyler porta avanti parallelamente l'attività di poeta (il suo componimento più importante, The Granite Butterfly, è del '45) e quella di critico. Scrive tra l'altro per riviste prestigiose quali Partisan Review e Sight and Sound e pubblica varie antologie dei suoi scritti, tra cui The Hollywood Allucination (1944), Magic and Myth of the Movies (1947) e Sex Psyche Etcetera in the Film (1969).


La prima di queste raccolte affascina il giovane studente Charles Boultenhouse (1926-1994) [4], che a sua volta affascina Tyler. Questi ha quarantuno anni, Boultenhouse diciannove: rimarranno insieme per trent'anni, fino alla morte di Tyler [5]. Il loro appartamento newyorkese diviene negli anni '50 una sorta di laboratorio permanente dell'underground, frequentato da numerosi artisti. In questi anni l'interesse di Tyler si va infatti spostando dal cinema hollywoodiano a quello sperimentale e in breve egli diviene uno dei protagonisti dell'underground, pur sempre a livello critico, e perciò meno celebre e mai ricordato. Amico, tra gli altri, di Maya Deren, Jonas Mekas, Stan Brakhage [6] e Gregory Markopoulos, studia e promuove gli autori underground dalle pagine di Film Culture e stendendo i programmi di sala del newyorkese Cinema 16 (dove esordiva gran parte della produzione underground). Molti di questi autori devono l'avvio della loro carriera proprio agli aiuti e all'entusiastica promozione di Tyler (che è anche uno dei primi a notare Warhol, negli anni '50, anche se non sarà mai troppo convinto dai suoi lavori), che talora compare anche nei loro film (lo si può vedere in At Land, del 1944, della Deren, e in Galaxie, del 1966, di Markopoulos).


Tyler prende però progressivamente le distanze dall'underground fino a separarsene definitivamente lasciando la redazione di Film Culture nel 1963, in polemica con Mekas. Nel 1969 pubblica il primo libro dedicato al movimento, Underground Film: A Critical History (scritto con uno stile piuttosto sobrio: i toni camp delle sue analisi dell'immaginario hollywoodiano gli devono essere parsi meno adatti al trattamento di un cinema dalle evidenti aspirazioni artistiche). Nell'introdurlo sostiene che uno dei compiti del cinema, svolto abbondantemente dall'avanguardia, è quello di farsi voyeur per rompere i tabù della società. Tuttavia Tyler, al contrario di Mekas, rimane un convinto esteta e ritiene che non si debba giustificare qualsiasi tipo di produzione. L'underground, scriveva nel 1966, gli sembrava ormai diventato «come una minigonna: è nuova e mostra cose. Ma alcune ginocchia sono bellissime, altre no». Tyler è convinto che il critico debba mantenere le proprie responsabilità, ma non fa mai mancare il proprio appoggio di principio in difesa della libertà creativa di questi artisti: nello stesso 1969 difende ad esempio Blue Movie di Warhol al processo che gli era stato intentato per oscenità.


Nel frattempo Tyler è oggetto della satira di Gore Vidal, che lo prende di mira nel romanzo Myra Breckinridge (1968). La protagonista, il critico cinematografico transessuale Myra, è infatti pensata anche come parodia di Tyler, che cita spesso mettendone in burla l'atteggiamento camp. Il personaggio concepito da Vidal dispiace a Tyler e dà inizio a un'antipatia mai sanata tra i due, sulla quale gli interessati hanno dato versioni contrastanti e probabilmente parimenti inattendibili. Ma il romanzo finisce col richiamare l'attenzione su Tyler e porta alla ripubblicazione di svariate sue opere, al punto che Vidal dichiarerà poi: «feci per Parker Tyler ciò che Edward Albee fece per Virginia Woolf».

"Un'autorità sull'Assoluto"

Dopo aver curato alcuni volumi d'arte, nel 1972 Tyler dà alle stampe i suoi due lavori più ambiziosi, The Shadow of an Airplane Climbs the Empire State Building: A World Theory of Film, una sorta di testamento teorico della sua carriera, e Screening the Sexes: Homosexuality in the Movies, il primo libro dedicato all'omosessualità nel cinema e il capolavoro camp (inizia con un capitolo su Mae West nel quale tra l'altro vendica l'offesa di Myra Breckinridge) di un Tyler tornato al suo personalissimo stile poetico, difficile, immaginoso, ma anche ricco di acuto humour. Nella postfazione della riedizione del 1993, Boultenhouse ricorda con affetto come fosse


una sua caratteristica essere divertente e brillante senza per questo allontanarsi dalla ricerca della verità o - come diceva lui - dell'Assoluto. Era solito dire che non era un'autorità su nulla, tranne che sull'Assoluto, il suo ideale sacro. Di certo il senso dell'Assoluto lo accompagnava ogni mattina quando andava dalla sua macchina da scrivere. Il battere ritmico dei tasti era spesso contrappuntato dalle sue risate, che erano pure un aspetto del suo Assoluto. [7]


Il fatto che quest'opera, scritta oltre dieci anni prima del più celebre Lo schermo velato di Vito Russo, non sia frutto di un atteggiamento militante politicamente strutturato non significa che non sia animata da un'ambizione forse anche più grande, e in un certo senso in linea con altre riflessioni del tempo.

In virtù della stretta relazione che ha sempre individuato tra cinema e società, lungi dal proporre un testo di "semplice" critica cinematografica, Tyler amplia il suo sguardo fino a includere osservazioni più generali sulla sessualità e il modo in cui è concepita e vincolata dalla società odierna. Tyler si dice infatti convinto, e lo pone come premessa e scopo testamentario del volume, che il sesso debba essere liberato dalle convenzioni sociali basate sulla semplicistica dualità di genere e che il cinema non dovrebbe pertanto rappresentarlo così come lo intende la società, ma per ciò che è davvero:


Il vero film d'arte non può mai essere un insieme di buone o cattive o semplici illustrazioni del sesso così come lo intende l'Establishment: deve invece rappresentare le forme di sesso sacre per ciò che sono e sono sempre state; strumenti per la totale invenzione della libido. [8]


Sono le parole che chiudono il libro, nella cui introduzione Tyler sostiene di vedere la sessualità socialmente regolata (specie in funzione della procreazione) come «un'idea limitata del sesso. Il mio scopo è quello di liberare quest'idea dai suoi limiti». Gli organi sessuali, continua Tyler, ci dicono il minimo, non il massimo sul sesso, e si lancia poi in una sua tipica similitudine paragonandoli a degli strumenti musicali: di per sé non significano nulla, ciò che conta è come e cosa si suona e gli omosessuali «rappresentano la libera libido. E la libera libido - c'è poco da sbagliarsi - rappresenta la maggioranza degli uomini, non una minoranza» [9].


Screening the Sexes viene accolto da ottime critiche, ma rimane l'ultima fatica di Tyler: solo due anni dopo muore infatti di cancro. Dopo Stonewall, l'universo omosessuale stava cambiando radicalmente e le fatiche di Tyler avrebbero dovuto aspettare qualche anno prima di essere riscoperte (riscoperta ancora insufficiente, per altro, specie fuori dagli Stati Uniti, dove sia la sua attività di critico che quella di scrittore sono state dimenticate). Le differenze di stile, di atteggiamento (e in fondo anche di acume) tra la sua opera e quella di Russo basterebbero a testimoniare i mutamenti radicali che la sottocultura omosessuale stava subendo in quegli anni. Tyler rimane un esponente tra i più brillanti di un universo, quello pre-Stonewall, che andava estinguendosi. La sua scomparsa ha lasciato un vuoto notevole perché, se molti hanno attinto ai suoi lavori pionieristici, nessuno sembra averne raccolto dichiaratamente l'eredità.

Tyler ha lasciato un grande vuoto anche nella vita di Boultenhouse. Quando morirà, vent'anni dopo, uscito a fatica da alcolismo e drepressione, i suoi pensieri saranno ancora tutti per lui: stava infatti lavorando al progetto, rimasto tale, di una biografia del suo amato "splendido poeta" e "grande critico cinematografico" Parker Tyler [10].
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