Susan Sontag

6 febbraio 2005

Susan Sontag nasce a New York nel 1933. Il padre muore quando lei ha solo cinque anni, la madre, un'insegnante alcolizzata, è invece spesso assente, almeno finché non si risposa, nel 1945, con Nathan Sontag.

La vita e la carriera della Sontag bruciano le tappe: ha solo quindici anni quando entra a Berkley; diciassette quando si sposa con Philip Rieff, docente di sociologia conosciuto dieci giorni prima; diciotto quando si laurea in filosofia all'Università di Chicago; diciannove quando diventa madre.

Nel 1953 pubblica il suo primo romanzo, Il benefattore, mentre alla fine degli anni '50 risalgono gli studi a Harvard e poi a Oxford e a Parigi, dove Susan ha anche la sua prima relazione lesbica, con l'amica Harrieth Sohmers. Tornata negli Stati Uniti senza aver concluso gli studi europei, la Sontag divorzia e si trasferisce col figlio a New York dove inizia una nuova relazione con Maria Irene Formes, durata fino al 1963, mentre in Roger Straus (quello dell'editore Farras, Straus e Giroux, che pubblicherà i suoi libri) trova un agente ideale, capace di promuovere a livello internazionale i suoi scritti e di costruire e curare con grande abilità la sua immagine pubblica.

Negli anni '60 insegna filosofia e religione al City College of New York, alla Columbia University e alla Rutgers University, e scrive per il New York Times, la Partisan Review, The Nation e la New York Review of Books.


Una saggista "guerriera"


È alla pubblicazione, nel 1964, delle "Note su 'camp'" che Susan Sontag deve l'inizio della sua celebrità. La sua posizione di maître à penser non farà che consolidarsi negli anni a venire, a cominciare dalla pubblicazione della sua prima raccolta di saggi, Contro l'interpretazione, nel 1966. Ripensando, trent'anni dopo, a questa prima pubblicazione, la Sontag si descrive come «una guerriera nuova di zecca in un'antichissima battaglia: contro il filisteismo, contro la superficialità e l'indifferenza etica ed estetica». Contro l'interpretazione sfidava «le gerarchie (alto/basso) e le polarità (forma/contenuto, intelletto/sentimento)» che a suo dire «inibivano la giusta comprensione delle opere». Il partito preso era quello di «abbracciare la causa di opere nuove, specialmente di opere che erano state disdegnate o ignorate o fraintese», affiancando l'amore per i classici a quello per le produzioni contemporanee. Ecco allora inevitabile l'amore per il cinema, «perché c'erano più film nuovi che nuovi romanzi da amare» [1].

Nel saggio introduttivo della raccolta, una sorta di manifesto del suo modo di intendere il lavoro critico, ma in fondo anche l'impegno sociale, la Sontag sostiene che l'atto interpretativo, nato per riattualizzare testi del passato (in primis mitologici e quindi religiosi) non più accettabili sul loro piano letterale ma comunque ritenuti fondamentali, è divenuto poi un atto di tradimento del testo che con la pretesa di fare emergere un significato nascosto supposto autentico finisce col distruggere l'opera stessa. Massimo emblema dell'interpretazione e del suo potenziale deleterio sono, per l'autrice, le teorie di «Marx e Freud, che sono di fatto elaborati sistemi di teorie ermeneutiche [...] empie ed aggressive». Così, l'interpretazione nei giorni nostri finisce con l'essere spesso un atto conservatore che soffoca il potenziale eversivo e caotico dell'arte e la rende innocua, addomesticata. L'arte cercherebbe di sottrarsi all'interpretabilità rifugiandosi nell'astrazione o viceversa evidenziando il proprio contenuto in tutta la sua banalità, in modo da non poter essere equivocato, come nel caso della Pop Art. Il cinema, in particolare, riuscirebbe con facilità in questo intento. Viceversa, il critico dovrebbe «mostrare come mai [l'arte] è quello che è, o anche che è quello che è, e non che cosa significa», quindi dovrebbe dedicarsi più allo studio delle forme e dello stile che dei contenuti e dei significati, stando bene attento a non compromettere il rapporto esperienziale che il pubblico deve poter avere davanti all'opera.


Nel successivo Stili di volontà radicale, e in particolare in "L'estetica del silenzio", la Sontag radicalizza alcune di queste riflessioni e si sofferma sulla tendenza, propria dell'arte contemporanea, a rifuggire il contatto con il pubblico e a rinunciare alla sua funzione comunicativa. Scelta utopica però, visto che «la storia dell'arte è una successione di trasgressioni di successo».

Come evidenziano, tra gli altri, i saggi delle due raccolte dedicati alla fantascienza, al camp, alla pornografia, Susan Sontag si è occupata spesso di forme narrative che non era affatto comune prendere sul serio all'epoca, e con i suoi contributi è ancora utile confrontarsi oggi, ricchi come sono di intuizioni felici e talora innovative. Lo stile di scrittura di questi testi mostra inoltre una propensione per la sintesi aforistica (che si fa forma mentis proprio nel suo testo più celebre, "Note su 'camp'") che li rende più memorabili e divulgativi, e allo stesso tempo anche più stimolanti e provocatori.

Ma i saggi della Sontag sono spesso anche polemici, radicali, controcorrente, persino aggressivi. Uno dei più noti è "Fascino fascista", incluso nella raccolta Sotto il segno di Saturno (1980), nel quale l'autrice mette tutta se stessa per opporsi alla riabilitazione in corso di Leni Riefhenstal, regista di film di propaganda nazista che per tutta la sua lunghissima vita (è morta nel 2003 a centouno anni) ha tentato di negare ogni rapporto consapevole con il Terzo Reich. Il saggio smonta una per una le pretese autopromozionali (spesso molto ingenue) della Riefhenstal facendo anche osservazioni interessanti sull'estetica fascista e sul riciclo di un certo immaginario nazifascista in corso in quegli anni, ad esempio nell'ambito della sottocultura sadomasochista gay.


Nel 1977 raccoglie in volume i saggi dedicati a un'altra sua grande passione e pubblica Sulla fotografia, frutto di cinque anni di riflessioni di carattere estetico e sociologico sull'immagine, i suoi significati e le conseguenze che la sua invasione dello spazio contemporaneo ha sul nostro rapporto con il mondo e sulla nostra capacità di interpretare i fatti e di distinguere tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Riflessioni riprese in Davanti al dolore degli altri (2003), dedicato alle fotografie di guerra, alle immagini che riprendono il dolore e la morte.


Quando, alla fine degli anni '70, Susan Sontag si ammala di cancro, scrive in fretta (visto il pessimismo dei medici) uno dei suo saggi più importanti, Malattia come metafora (1978), in cui annota una serie di riflessioni sulla storia culturale della malattia. Attraverso un accostamento tra le metafore utilizzate per descrivere la tubercolosi in epoca romantica e il cancro in quella odierna, basandosi anche sulla propria esperienza di malata, la Sontag cerca di smontare tutto quell'apparato di "interpretazioni", di stereotipi e di significati morali aggiunti che si sono depositati su certe malattie divenute metafore gravide di (pre)giudizi sociali, i quali finiscono col pesare sul malato quanto se non più della malattia stessa, compromettendone con sensi di colpa artefatti le possibilità di guarigione. Il malato è infatti spinto a vivere la malattia come una colpa, una conseguenza dei suoi errori, una punizione e un castigo persino, e quindi a tenerla nascosta, a vergognarsene, a non affrontarla con la necessaria determinazione.

Superata la malattia, la Sontag è tornata sull'argomento, "aggiornandolo", con L'Aids e le sue metafore (1988).


Un'ultima raccolta di saggi, Where the Stress Falls (2001), torna sui suoi amori di sempre, e in particolare letteratura, cinema e fotografia. Nell'ultima parte del volume sono raccolti alcuni saggi che costituiscono una sorta di bilancio della propria carriera in prima persona, con particolare attenzione al suo lavoro di scrittura e alle implicazioni del suo ruolo di intellettuale nella società contemporanea, che l'ha vista spesso impegnata in prima linea contro ogni forma di militarismo e di imperialismo, sempre pronta a denunciare le mistificazioni propagandistiche del potere intese a nascondere le vere ragioni di scelte politiche, invasioni militari, ecc. Non usò mai mezzi termini («la razza bianca è un cancro per l'umanità», dichiarò all'epoca della guerra del Vietnam) né il suo impegno venne meno con il riflusso degli anni '70. Durante la guerra nella ex-Jugoslavia fu spesso a Sarajevo, dove mise in scena anche un celebre adattamento di Aspettando Godot, e pochi giorni dopo l'11 settembre attaccò il governo Bush e la sua politica estera.


Un'osservatrice professionista


La carriera di saggista e di opinionista della Sontag, che si descriveva come un'intellettuale «della specie secolare, cosmopolita e anti-tribale» [2] , è stata brillante e piuttosto rapida, ma non tutto fu così semplice nella sua vita. Dovette ad esempio faticare parecchio per mantenere la custodia del figlio, rivendicata dal padre. Quando, alla fine degli anni '70, si ammalò di cancro, non aveva l'assicurazione medica e fu solo grazie alla generosità di amici e colleghi che poté far fronte ai debiti. Inoltre, fino al successo del romanzo storico L'amante del vulcano (1992), la sua carriera letteraria (che include anche lavori teatrali) fu piuttosto deludente: i suoi primi due tentativi, Il benefattore e Il kit della morte (1967), così come il più recente In America (2000), non vennero accolti molto bene (Gore Vidal scrisse in una recensione del '67 che «sfortunatamente, l'intelligenza della signora Sontag è ancora superiore al suo talento»), né furono oggetto di grande interesse i suoi due film girati in Svezia, Duet for Cannibals (1969) e Brother Carl (1971).


Susan Sontag custodì gelosamente la sua vita privata. Gli ultimi vent'anni circa li passò facendo coppia con la celebre fotografa Annie Leibovitz, ma non fece mai della sua omosessualità un fatto pubblico, attirandosi non poche critiche per questo, e per altri aspetti difficili del suo carattere (è rimasto piuttosto celebre lo scontro a distanza tra lei e Camille Paglia).

Inoltre, benché fosse nota e ammirata anche per la sua bellezza, secondo parecchie testimonianze Susan Sontag non faceva una grande impressione di persona, nemmeno ai convegni e agli incontri pubblici (quando si presentava), e ne era consapevole. Edmund White ricorda che una volta gli disse: «Sai, i miei saggi sono molo più intelligenti di me [3] . Sai perché? Perché li riscrivo così tante volte, e lentamente, lentamente li spingo su per la collina dal mio livello di intelligenza media fino a un livello di grande intelligenza».


Se quella della Sontag fosse stata davvero un'intelligenza media, saremmo messi un po' meglio. Susan Sontag ha vissuto la sua vita tenendo gli occhi bene aperti sul mondo, cercando di capire cosa gli accadeva intorno e rifiutando, coerentemente alle sue idee di sempre, che altri interpretassero i fatti al posto suo. In un saggio dedicato a Mapplethorpe, si definì «un'osservatrice professionista» [4]. Mi pare un modello da tenere bene a mente, in tempi in cui i più chiedono oracoli a Oriana Fallaci e riescono a non rabbrividire davanti ai suoi deliri.


Susan Sontag è morta di leucemia il 28 dicembre 2004, aveva settantuno anni. La sua "intelligenza media" ci mancherà.

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