Crisi della virilità e "questione omosessuale" nell'Italia degli anni '50 e '60

4 aprile 2004

Saggio di Dario Pietrosino

Fra i vari dibattiti politici e culturali che attraversano l’Italia del secondo dopoguerra ve n’è uno, particolare per i suoi aspetti, ma alquanto ignorato, che muoverà i suoi primi passi con la repubblica, per evolversi, man mano, nel corso degli anni cinquanta e sessanta - e nel Sessantotto in particolare - e prendere poi definitivamente piede negli anni successivi: stiamo parlando del dibattito sul tema dell’omosessualità.
Giovanni Dall’Orto, in un suo libro di interviste sul rapporto tra omosessualità e cultura, sottolinea quanto sia difficile la creazione di questo binomio in Italia:
Non c’è nella letteratura italiana il corrispondente di un Gide. Salvo poche, troppo poche eccezioni, gli intellettuali italiani che sono omosessuali si limitano a spargere cortine fumogene sull’argomento, o al massimo a sfruttare un certo dire-e-non-dire per stuzzicare le curiosità morbose del pubblico. Per il resto riempiono il cassetto di inediti, destinati a rimanere nascosti (nascostissimi!) per decenni, a volte secoli. Da Leopardi a Settembrini, da Saba a Pasolini la letteratura italiana (e non solo quella) ne è piena [1].
letterati indicati da Dall’Orto non sono citati a caso. Proprio in occasione del bicentenario leopardiano è stata intrapresa una rilettura in chiave di genere della vita e dell’opera del poeta di Recanati, a partire dal rapporto con l’amico Ranieri, e dal rapporto con le donne, fino a giungere a una nuova analisi del pessimismo leopardiano [2].
Anche su Luigi Settembrini vi è qualcosa da sottolineare. Il patriota del Risorgimento aveva scritto un romanzo, I neoplatonici, ambientato nella Grecia antica, che parla degli amori di due ragazzi. Il libro attenderà più di cento anni, prima di essere pubblicato da Rizzoli nel 1977 [3]. Lo stesso si può dire per Ernesto, il romanzo postumo di Umberto Saba [4], spesso associato, per il suo contenuto, a Gli occhiali d’oro di Bassani. Per quanto riguarda Pier Paolo Pasolini, invece, basterà ricordare che Amado mio, l’opera giovanile a sfondo autobiografico dove l’autore parla dei suoi amori omosessuali, è stata pubblicata soltanto nel 1982 [5].
E’ possibile ampliare il discorso fatto da Giovanni Dall’Orto, con ovvi distinguo, a tutto il discorso sulla morale sessuale in Italia. Come è stato evidenziato da Wanrooij, la “crisi della virilità” è un tema che accompagna la cultura italiana dalla seconda metà dell’ottocento in avanti [6].
Nel contesto della trasformazione dei modelli di riferimento dell’identità maschile, quello che è veramente oggetto di dibattito è la trasgressione di questi modelli, per lo più tendenti ai valori del matrimonio e della procreazione, nonché ad una definizione di virilità che varia a seconda degli ambiti culturali di provenienza. All’interno delle varie forme di trasgressione della norma sessuale, quella che desta particolarmente scalpore, per i suoi aspetti di estremizzazione, è il fenomeno dell’omosessualità, o dei comportamenti che conducono alla creazione di uno stereotipo. Il dibattito sulla “questione omosessuale” si presenta quindi, al pari di dibattiti analoghi, come quello sull’educazione dei fanciulli, sulla condizione femminile, sulla prostituzione, o sulla sessualità nelle carceri, simile a una lente d’ingrandimento per poter meglio studiare l’evoluzione del dibattito sulla questione sessuale in Italia, dove il termine “questione sessuale” è mutuato dalla ricerca scientifica di fine ottocento.
Se comunque è vero che la prima associazione di omosessuali dichiarati nasce in Italia nel 1971, bisogna anche considerare che essa nasce all’indomani di un movimento di opinione che, a partire dagli anni cinquanta, ha condotto il dibattito sull’omosessualità tra Europa e Stati Uniti. Sebbene l’Italia non avesse in quegli anni una associazione che rappresentasse gli omosessuali, è possibile però notare la presenza di uno sparuto gruppo che partecipava alle esperienze all’estero, specie quelle francesi [7].
L’attività culturale e politica compiuta dalle associazioni degli anni cinquanta e sessanta viene comunemente riconosciuta come propria di una fase del movimento omosessuale, e viene definita movimento omofilo [8]. Essa sarà la base dalla quale partirà la contestazione dei gruppi gay e lesbici dopo il 1968.
Per chi desidera studiare il dibattito culturale e politico sull’omosessualità nell’Italia del dopoguerra, non sono disponibili lavori che permettano di orientarsi. Altrettanto difficile è rintracciare, nella stampa italiana, fino al 1971, una rivista o una rubrica, un qualche filo insomma, che permetta di ricongiungere i fatti avvenuti. A questo scopo giunge però utilissima una rivista francese, Arcadie, voce del movimento omofilo francese. Essa si occupava esclusivamente di omosessualità e veniva venduta regolarmente in Italia. Sulle sue pagine, a partire dall’aprile 1959, ha inizio una rubrica, Nouvelles d’Italie, a firma di Maurizio Bellotti. La rubrica comparirà, seppur irregolarmente, fino alla chiusura della rivista, avvenuta nel 1982. In ogni caso la rivista francese, diretta da André Baudry e da lui fondata nel 1954, aveva riservato sempre un occhio di riguardo nei confronti dell’Italia, informando regolarmente i suoi lettori sui fatti di cronaca della penisola.
Sia per la più facile comprensione del francese piuttosto che dell’inglese, e sia per la maggiore vicinanza della Francia rispetto agli Stati Uniti, Arcadie farà, nella cultura italiana, la parte del leone rispetto ad associazioni come la Mattachine Society statunitense. Di essa, nonostante avesse un programma simile a quello di Arcadie, giungeranno in Italia solo echi lontani, e se ne saprà qualcosa di più preciso solo col nascere del movimento omosessuale in Italia, quando la funzione esercitata da essa era ormai venuta meno. Simile sorte toccherà a Die Kreis - Le cercle, la rivista del movimento omofilo svizzero.
Chiunque apra un rotocalco italiano di fine anni cinquanta trova davanti a sé un panorama quanto meno desolante. Impera la censura, sia nelle illustrazioni che nelle menti dei giornalisti; il sesso è un argomento tabù, le foto femminili sono alquanto castigate. Di erotismo maschile, per carità, nemmeno a parlarne: giusto in quegli anni vi era chi aveva tentato di parlare pacatamente di omosessualità e aveva pagato a caro prezzo il suo coraggio.
I casi si contano sulle dita di una mano, ma possono dirsi comunque esemplari. Ettore Mariotti, docente dell’università di Napoli e collaboratore di Arcadie, alla quale invia saggi sul tema della neofilia (leggi pederastia), pubblica nel 1952 uno studio universitario in cui parla favorevolmente dell’omosessualità; deve perciò subire un processo per oltraggio al pudore, nel quale verrà comunque assolto [9]. L’anno dopo è il turno di Gino Olivari: egli subisce un processo per aver scritto un articolo in cui prende le parti di una coppia di omosessuali: questi avevano scelto il suicidio per sfuggire allo scandalo provocato dalla loro relazione. L’Unità, cosa sorprendente per quegli anni, si esprimerà positivamente nei confronti di Olivari [10].
Se da un lato questi sono gli anni più oscuri per quel che riguarda il dibattito sulla morale sessuale nell’Italia del dopoguerra (e non solo per quello), è anche vero che, proprio in questi anni, si fanno spazio una serie di riviste, pubblicate da editori coraggiosi, che tentano di portare nel Bel Paese, come già era avvenuto in gran parte d’Europa, il dibattito sulle cose del sesso.
All’indomani della guerra ricompare in Italia una collana di volumetti che tratta, tra le altre cose, anche di studi sull’omosessualità. E’ la Biblioteca dei curiosi; l'editore è ancora Tinto, quello stesso che pubblicava la medesima collana tra il 1926 e il 1934 [11].
Alcuni anni dopo compaiono Scienza e vita sessuale, poi Scienza e sessualità (1950-1953) e Sesso e libertà (1953). Scienza e sessualità unisce articoli scientifici ad articoli di umanità varia, ma sempre incentrati sulle cose del sesso; ne è un esempio il trafiletto dedicato  alla nascita di un figlio nero da genitori bianchi, fatto di cronaca che potrebbe candidarsi quale ispiratore della Tammurriata nera [12]. Ma Scienza e sessualità si occupa anche di politica, come dimostra l’attacco sferrato a Indro Montanelli, che sulle pagine del Corriere della Sera aveva denigrato i comunisti e la sessualità. Montanelli si era espresso come segue:
Improvvisamente vergognosi di non averlo considerato come tale, gl’Italiani hanno dunque scoperto il problema del sesso e ci si sono buttati dentro a capofitto, come i negri, quando la scoprono, si buttano a capofitto dentro l’acquavite. [13]

Sesso e libertà nasce nel 1953 da una costola di Scienza e sessualità: si fonda sui principi di un manifesto per la libertà sessuale proposto da un legislatore, René Guyon [14], per la Dichiarazione dei Diritti Umani dell'ONU nel 1948. Uno stralcio del manifesto viene citato, a mo’ di aforisma, nel primo numero della rivista:
Sta ai pro-sessuali di dire agli intolleranti e ai proibizionisti: Voi non avete il diritto di denunciare, come un male sociale da essere soppresso dalla legge, idee ed azioni sessuali che non vadano d’accordo col vostro creterio personale. Voi non avete il diritto di pretendere che la vostra moralità sia la sola generalmente accettata. Voi non avete il diritto di stabilire organizzazioni internazionali e procedure per combattere esopprimere nel mondo le concezioni sessuali che voi disapprovate. Voi non avete il diritto di sostituire attivo antagonismo ed ostracismo alla neutralità che lo Stato deve a tutte le concezioni filosofiche ed etiche. [15]
Se in Scienza e sessualità, orientata all'eclettismo, compaiono pressoché contemporaneamente articoli di Cesare Musatti, Agostino Gemelli e Nicola Pende, in Sesso e libertà si propongono referendum fra i lettori su temi come "Siete favorevoli al divorzio?", oppure articoli sulla parità della donna, contro il gallismo degli italiani, a favore degli omosessuali (maschi) e delle lesbiche, nonché inviti ad instaurare rapporti di amicizia tra lettori, su esempio di quanto compiuto all'estero. Nel n° 10 di dicembre finalmente pubblicano le lettere: le prime cominciano dicendo "Lettore desidera corrispondere con lettore", "Lettore desidera corrispondere con lettrice", e così via. Le ultime due, nel caso qualcuno avesse dubbi sulla natura di questi annunci: "Vedova di guerra [...] corrisponderebbe a scopo amicizia con Italiano, di età da 45 a 50 anni"; "Giovane lettore meridionale residente a Milano privo conoscenze corrisponderebbe con meridionale sui 30 anni residente a Milano, purché persona seria e colta, scopo amicizia". Per chi nutrisse ancora dei dubbi, segue un ex libris: l'incisione di due cuoricini sovrapposti [16].        Uscito questo numero, la questura fa chiudere la casa editrice con tutte le riviste da essa pubblicate. Il direttore di Sesso e libertà, Bernardino Del Boca di Villaregia [17] sostiene che l’iniziativa fosse voluta da Gemelli [18].
Sesso e libertà aveva dunque vissuto un anno da leone. E, come è facile immaginare, doveva aver suscitato qualche clamore. Nel 1953 un numero del Borghese mette il tema omosessuali in copertina; in quegli stessi anni Curzio Malaparte comincia a scrivere Mamma marcia, che nella sua seconda parte è un trattato sull’omosessualità, intitolato, appunto, “Sesso e libertà”; come pure il 1953 è l’anno nel quale la rivista Ulisse pubblica un numero monografico sul tema “L’omosessualità e la società moderna” [19].
Purtroppo, a dispetto dell’interesse suscitato dalla questione, i tempi non sono dei migliori: l’editore De Carlo, che pubblicava sia romanzi erotici che studi sulla sessualità, era stato costretto a chiudere, sommerso da una valanga di denuncie, e l’editore della rivista Scienza e sessualità, fin quando anch’egli non aveva chiuso, aveva dovuto fronteggiare le ronde che Agostino Gemelli mandava in giro per le edicole [20]. In fondo, sono sempre gli anni in cui Scalfaro schiaffeggia una donna, accusata di portare una scollatura troppo ampia; sono gli anni della Rai di Bernabei, in cui non si nominano le gambe dei tavoli per evitare allusioni a ben altre gambe e si censura la parola cazzotto perchè evoca termini osceni [21].
Sono questi anche gli anni dello scandalo dei “balletti verdi”. Nella primavera del 1960, a Brescia, si scopre un giro di feste private alle quali esponenti della buona società si recano con lo scopo di intrattenersi con prostituti. Lo scandalo, finito in pasto alla stampa, porta ad una indagine della magistratura, col risultato che la vicenda viene infine insabbiata [22]. Tuttavia questo scandalo non giunge isolato. Già nel corso del 1959 era stato depositato alla Camera dei Deputati un “Rapporto sulla prostituzione”, nel quale si sottolineava come, in coincidenza con la abolizione delle case chiuse, il numero degli invertiti fosse in aumento. Maurizio Bellotti, riportando la notizia su Arcadie, commenta sarcastico: “I padri italiani non dormono più” [23]. All’inizio del 1960, inoltre, il Msi aveva presentato in Parlamento una proposta di legge in cui si chiedeva la punibilità penale dell’omosessualità.
Tra il 1960 e il 1963 vengono presentate tre proposte di legge che hanno come obiettivo quello di rendere l’omosessualità un reato. Come dicevamo, la prima risale al 22 gennaio 1960 e reca un titolo neutrale: Modificazione e integrazione del titolo IX, capo II, del Codice penale. In realtà il testo della proposta parla chiaro: si tratta di aggiungere nel Codice un articolo, il 527-bis, che punisca esplicitamente l’omosessualità:
Art. 527-bis. (Omosessualità). - Chiunque ha rapporti sessuali con persona dello stesso sesso è punito con la pena della reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire 10.000 a lire 100.000.
Se dal fatto deriva pubblico scandalo la pena è aumentata. Se tra persone che hanno rapporti sessuali con persone dello stesso sesso vi siano uno o più minori di anni 18, la pena sarà aumentata nei confronti del maggiorenne e dei maggiorenni.
A dispetto dell’eccessiva semplicità dell’articolo di legge, in questa proposta compare tutto quello che poteva servire per lanciare una vera e propria caccia alle streghe. Come emerge dal testo, vengono punite in uguale modo l’omosessualità maschile e quella femminile per la semplice accusa di aver compiuto, anche in privato, atti ai quali venga riconosciuto uno scopo sessuale. Costituiscono aggravanti il pubblico scandalo e la minore età di uno dei partner. Infine, per la denuncia, si procede d’ufficio [24].
La PdL 1920/60, appena citata, supera per intransigenza perfino l’articolo di legge inserito nel progetto preliminare del Codice Rocco, nel quale si subordinava la pena al fatto che ci fosse pubblico scandalo. Quell’articolo era stato poi eliminato, ma non per questo si era rinunciato alla persecuzione degli omosessuali, ricorrendo alla pratica del confino.
Nel 1960 si ritentava quindi un passo già compiuto a metà durante il fascismo; ma con quali risultati? Dopo poco più di un anno, Bruno Romano, del Psdi, presenterà una proposta di legge, la 2990/61, dal titolo Norme integrative del Codice penale per la repressione della condotta omosessuale. In una esposizione più articolata, Romano si prende il gusto di scomodare il Rapporto Kinsey per dimostrare “il dilagare di questa grave piaga sociale” e, inasprendo le pene, propone sostanzialmente la stessa legge presentata l’anno prima: 1) la denuncia d’ufficio e la condanna “alla rcclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 50.000 a lire 500.000”, la metà se minorenne; 2) in caso di rapporto con un minore di diciassette anni la pena va da cinque a dieci anni se l’altro partner è maggiorenne, la metà se minorenne; 3) Le pene sono raddoppiate se l’attore sottopone il soggetto a violenza fisica o lo rende inabile con l’uso di stupefacenti o di alcolici, o, ancora, se l’attore abusa della sua condizione di autorità, ricorre alla corruzione con denaro o dà luogo a pubblico scandalo; 4) viene punito con la reclusione da cinque a dieci anni anche “chiunque a mezzo della stampa, della radio televisione, del teatro, del cinema, di convegni o riunioni dovunque tenuti e di ogni altro sistema di propaganda e di diffusione, si renda promotore, organizzatore od esecutore di azioni e manifestazioni che abbiano come finalità l’apologia della condotta omosessuale” [25].
Come è risaputo, queste leggi non saranno approvate. Dopo l’avvento del centrosinistra la 1920/60 sarà ripresentata come la n° 759 del 14 novembre 1963, senza avere migliore fortuna. Tuttavia emerge chiaro un fatto: dietro queste proposte di legge si celano forti gruppi di pressione, riconoscibili nella destra parlamentare, che in quegli anni tentano di ridisegnare in senso ancor più conservatore la “geografia culturale” dell’Italia; questi gruppi di pressione, dai connotati poco chiari, risultano ancora più definiti quando si va a cercare l’oggetto finale dei loro attacchi.
Ecco come viene descritto il “nemico” nella PdL del 1960:
Esiste oggi in Italia una vera e propria letteratura del vizio; teorici di questa moderna degenerazione hanno avuto financo la temerarietà e l’audacia di elevare il vizio ad arte, sollecitando una vera e propria organizzazione con adesioni concettuali e filosofiche e per ciò stesso determinando il pericolo che siffatte perversioni non rappresentino soltanto una sia pur degenerata ansia di sensi ma una direzione psicologica e spirituale verso traguardi di chiara involuzione morale.
Giovanissimi vengono adescati a queste pseudo scuole di rivoluzionamento sessuale col miraggio di emozioni nuove, di affetti più genuini perché lontani dalla naturale attrazione degli opposti sessi, di conquista in un campo tanto più eccitante perché nuovo ed incognito. La società deve difendersi contro il pericoloso dilagare di questo vizio, che tende a scardinare non solo la unità della famiglia e del Paese, ma soprattutto la naturalezza dell’istinto [26].
Ed ecco come Romano, nella sua PdL, rincara la dose:
Non esiste, non può esistere giustificazione, per coloro che accettano un simile stato di cose e che non intendono abbattere il comodo paravento del vizio più turpe, sistemato per propria utilità dai cultori e dagli apologeti del vizio stesso, nel falso segno della difesa della libertà sessuale [...] [27].

Come dichiara il precedente testo, l’argomento intorno al quale ruotano queste leggi contro l’omosessualità è quello della tutela della famiglia. Immediatamente dopo viene in campo il discorso sulla tutela della moralità: è invocando quest’ultima che il democristiano Gagliardi, nel 1965, chiede l’apertura di un’inchiesta parlamentare sulla prostituzione e sull’omosessualità, entrambe, a suo dire, in pericolosa e continua espansione [28].
Ma chi sono questi teorici e filosofi, questi cultori e apologeti di cui la proposta Romano parla? I testi qui riportati non ci aiutano a fornire una risposta. Tuttavia, a pensarci bene, il quesito è di facile soluzione: questi filosofi, questi cultori, altri non sono se non i marxisti, e i comunisti in generale.
E’ noto come, durante il fascismo, una delle più forti accuse che la chiesa cattolica muoveva ai comunisti fosse il fatto di propagandare la “libertà sessuale”. Ovviamente i comunisti non erano gli unici responsabili della corruzione dei costumi: eppure la politica adottata in materia dall’Urss all’indomani della Rivoluzione d’ottobre pareva sufficiente per decretare la condanna dei comunisti. Senza scomodare le varie annate di Civiltà cattolica, che pullula di tali articoli, basta andare a leggere quanto scrive Curzio Malaparte nel suo romanzo La pelle, pubblicato nel 1949.
In una Napoli liberata dagli Alleati, Malaparte incontra tutta una serie di figure che in quei giorni caratterizzavano la città partenopea; tra loro, una compagnia di omosessuali. Malaparte non si fa scrupolo di denigrare i pederasti, come lui si ostina a definirli; e, nella serie di accuse che lancia loro, quella che più a noi interessa è la seguente:
Quegli stessi nobili Narcisi che, fino ad allora, si erano atteggiati ad esteti decadenti, a ultimi rappresentanti di una civiltà stanca, sazia di piaceri e di sensazioni, ed avevano chiesto ad un Novalis, a un Conte di Lautréamont, a un Oscar Wilde, e a Diaghilev, a Rainer Maria Rilke, a D’Annunzio, a Gide, a Cocteau, a Marcel Proust, a Jacques Maritain, a Strawinskij, e perfino a Barrés, i motivi del loro estenuato estetismo “borghese”, si atteggiavano ora ad esteti marxisti; e predicavano il marxismo come fino ad allora avevano predicato il più esaurito narcisismo, prendevano i motivi del loro nuovo estetismo in prestito a Marx, a Lenin, a Stalin, a Sciostakovic, e parlavano con disprezzo del conformismo sessuale borghese come di una deteriore forma di trozkismo. Si illudevano di aver trovato nel comunismo un punto d’incontro con gli efebi proletari, una complicità segreta, un nuovo patto di natura morale e sociale, oltre che sessuale. Da ennemis de la nature, come li chiamava Mathurin Régnier, erano diventati ennemis du capitalisme. Chi avrebbe mai pensato che tra le conseguenze di quella guerra sarebbe stata la pederastia marxista? [29]

Come è evidente, il pensiero espresso da Malaparte in queste righe è di una complessità che va ben oltre il semplice parallelo tra omosessualità e marxismo. Tralasciando questo ulteriore aspetto, soffermiamoci sul parallelo. A fugare eventuali dubbi sulla natura di quest’ultimo contribuisce forse il battibecco che intercorre tra Malaparte e il suo interlocutore: “I giovani come te credono che diventar pederasti sia un modo d’essere rivoluzionari”; al che questi risponde: “Vogliamo essere uomini liberi. E’ questo che tu chiami esser pederasti?” [30]. Il pensiero non può che correre alla proposta di legge presentata da Bruno Romano più di dieci anni dopo.
C’è un’opera di Malaparte meno nota, Mamma marcia [31], che si esprime in maniera molto più estesa nei riguardi dell’omosessualità. In essa ricompare il binomio pederastia-marxismo, che peraltro era la chiave di lettura di altre opere di Malaparte, come la commedia Du coté de chez Proust [32].
Tuttavia, di fronte a questa analisi è sempre bene conservare il beneficio del dubbio. Nessuno ci viene a dire a chiare lettere che il vero bersaglio delle proposte di legge è davvero la concezione marxista della sessualità. Fatto sta comunque che quest’ultima somiglia parecchio a quelle “adesioni concettuali e filosofiche” di cui si parla nel testo di presentazione, e che tanto premeva di combattere ai deputati che presentano la proposta. Chi sono costoro? Un gruppo di vecchi tromboni retrogradi? Meglio non illudersi: questi esimi deputati sono in realtà la rappresentanza di una forse piccola, ma agguerrita fetta della società italiana, perlopiù di matrice cattolica, che vede nell’omosessualità - e perché no, nel comunismo - una delle più gravi minacce per la salvaguardia della società civile. Siamo quindi di fronte a un vero e proprio gruppo di pressione che si esprime in Parlamento per mezzo dei suoi rappresentanti; un gruppo potente, carico di odio e intolleranza, dedito alla caccia di liberi pensatori. Costoro non aspettavano altro che di avere un omosessuale marxista tra le mani, e appena gliene capitò uno, ne fecero carne da macello. Quest’uomo era Aldo Braibanti.
Ma di questo parleremo poi; adesso ci preme rispondere a un’altra domanda: quali erano, in fin dei conti, queste “adesioni concettuali e filosofiche” di cui tanto ci si preoccupava?
Una risposta ci viene data da Comizi d’amore (1964) di Pier Paolo Pasolini. In quello che è forse il primo documentario sulla sessualità prodotto in Italia, Pasolini analizza quale sia l’idea dei nostri connazionali nei confronti del sesso e delle pratiche sessuali. Diviso in capitoli, il documentario tocca anche il tema tabù: l’omosessualità. Gli intervistati, posti davanti a un argomento che nessuno di loro sembra conoscere minimamente, danno le risposte più fantasiose. Vale la pena di citare qualche passo saliente.

  In una balera milanese [...]

  [a una donna] Ha mai sentito parlare di quella cosa terribile che sono le anormalità sessuali? No.

  Non sa niente di questo campo? Non sa che ci sono dei ragazzi o delle ragazze che non sono come gli altri dal punto di vista sessuale? Mai sentito parlare? Non ha mai sentito parlare di invertiti, per esempio? Ah sì, di quelli ne ho sentito anche parlare, ma... [...]

  [a un uomo] Tu saprai che nel campo sessuale esistono delle anomalie, delle anormalità. Sai cos’è il sadismo, per esempio? No, non lo so.

  Il masochismo? No.

  Beh, un invertito, quello sai cos’è! Sì, quello sì, quello lo so. Penso in tutti i casi che si può trovare un invertito, che so, che sia anche una lesbica. Io sono uscito una volta con una lesbica [autocensura], forse perché gli piacevo, chi lo sa. In quel modo non trovo niente di strano. Ci sono questi anormali, uomini che sono... e donne.

  Insomma, verso queste persone non normali, che impressione provi? Io... provo ribrezzo, insomma.

  Provi ribrezzo? [con imbarazzo] ...è giusto, no? [...]

  A un bar di Catanzaro

  [a un primo cliente] Tu non conosci, hai mai sentito parlare di inversioni sessuali, di perversioni sessuali, o no? Come come?

  Conosci tu delle anormalità sessuali? Eh, qualche volta sono andato pure io.

  Perché tu pensi che uno sia invertito sessualmente? [secondo cliente] Può essere di natura.

  Come di natura? E’ nato, insomma, con quello slancio di andare con altri uomini.

  Non c’è una ragione scientifica che te lo spieghi? Beh, io ritengo che sia un fatto naturale.

  Un fatto naturale... Naturale, un fatto di nascita, naturalmente, perché non è una cosa che si acquisisce attraverso una pratica.

  E voi, verso le persone che sono così, che sentimenti provate? Lei, per esempio. Beh, io direi un sentimento di pietà.

  E tu? [terzo cliente] Io, di schifo.

  E lei? [quarto cliente] Un sentimento... eh, sono condannati propriamente a questa...

  Insomma, lui di compassione, lui di schifo. E lei? ...magari, di compassione, praticamente...

  E tu? [quinto cliente] Io, mi fa schifo lo stesso. Se ci vado [autocensura] perché lui c’ha bisogno, però mi fa schifo.

  Su un treno

  Di fronte a certe anormalità, a certi eccessi, la gente si scandalizza o no? [...] [primo passeggero] In casi del genere io provo niente più che ribrezzo, orrore.

  Ah sì? E’ bene che le cose che non debbono avvenire nell’uomo non avvengano... Non avvengano, e se avvengono che siano repressi nel modo più severo.

  Ma lo sa che la repressione è proprio la colpa delle cose che non devono essere? [secondo passeggero] Ci vuole la prevenzione più che la repressione; e la prevenzione può salvare la gioventù, specialmente da certi vizi e da certe inclinazioni non normali, a mio parere.

  Lei, di fronte a questi vizi, a queste inclinazioni, si scandalizza o no? [...] io provo una certa ripugnanza istintiva nel sentire che ci siano queste cose che non sono normali.

  Senta, saprebbe descrivermi in che cosa consiste questo suo scandalizzarsi? [terzo passeggero] In tutto ciò che esula dalla normalità.

  No, ma dentro di lei cosa succede quando si scandalizza? Provo ribrezzo.

  Ma questa repulsione come si manifesta Si manifesta innanzitutto nell’allontanarmi immediatamente da quel fenomeno immorale, e poi nell’aver disprezzo per le persone che lo presentano. [...] i problemi sessuali vanno considerati nella loro giusta misura, e cioé di riproduzione e di esaltazione della famiglia e della specie.


E così via. Ma la vera novità dell’opera non sta nell’ascoltare lo “stomaco” dell’italiano medio (che, nonostante i tempi, si sbilancia in confessioni personali, debitamente censurate), quanto nella scientificità data al lavoro, che non si presenta come una passerella di pettegolezzi, ma come una circostanziata relazione sulla sessualità degli Italiani, accreditata da pareri autorevoli, quali quelli di Cesare Musatti, Alberto Moravia, Giuseppe Ungaretti, Oriana Fallaci e altri. La testimonianza di Giuseppe Ungaretti riguardo l’omosessualità ci sembra significativa, non solo per il giudizio pacato che il poeta dà, ma anche per la piccola confessione personale che sembra trasparire dalle sue parole:

 

Ungaretti, secondo lei esiste la normalità e l’anormalità sessuale? Senta, ogni uomo è fatto in un modo diverso, dico nella sua struttura fisica è fatto in un modo diverso; è fatto anche in un modo diverso nella sua combinazione spirituale, no? Quindi tutti gli uomini sono in un qualche modo anormali, tutti gli uomini sono in un certo senso in contrasto con la natura. E sin dal primo momento l’atto di civiltà, che è un atto di prepotenza umana sulla natura, è un atto contro natura.

  Sono indiscreto se le chiedo di dirmi qualcosa a proposito di norma e di trasgressione della norma nella sua esperienza intima, personale? Beh, io personalmente, che cosa vuole... io, personalmente... sono un poeta, quindi incomincio col trasgredire tutte le leggi facendo della poesia; ora sono vecchio e non rispetto più che le leggi della vecchiaia, che purtroppo sono, eh, le leggi della morte.


La nascita di questo documentario era forse segno che in Italia qualcosa stava cambiando, specie riguardo alla censura cinematografica. Il lavoro di Pasolini non era peraltro l’unica produzione che in quegli anni faceva riferimenti espliciti all’omosessualità.
Nel cinema italiano del dopoguerra si parlava di omosessualità, eccome. L’Italia repubblicana ereditava tuttavia dal cinema dei “telefoni bianchi” un’omosessuale da macchietta, quello “scapolo fesso e ganimede” che tanto faceva arrabbiare alcuni recensori fascisti. Il cinema italiano degli anni quaranta e cinquanta, per lo meno quello che si rifà ai canoni dell’avanspettacolo, utilizza spesso e volentieri la macchietta dell’omosessuale per divertire gli spettatori; sono tuttavia personaggi dal tratteggio superficiale, privi di spessore e personalità. Un buon esempio di questa produzione è rappresentato da alcuni film interpretati da Antonio De Curtis, in arte Totò: Totò a colori (Steno, 1952) e Il più comico spettacolo del mondo (M. Mattoli, 1953).
In Totò a colori l’attore napoletano viene ospitato in una lussuosa villa di Capri, dove, tra i personaggi, compare Fuffi, gagà effeminato e antipatico, interpretato da Galeazzo Benti. Il più comico spettacolo del mondo è invece la rappresentazione del classico varietà di comici e ballerine; tra le numerose scene comiche vi è quella di “Lallo parrucchiere per signora”: Lallo, parrucchiere frivolo ed effeminato, assume Totò come garzone nella sua bottega frequentata da una stravagante clientela.
In questi film non si parla apertamente di omosessualità: probabile che la scelta fosse un espediente per non cadere sotto i tagli della censura, specie se si considera che il pubblico riconosceva con molta facilità e senza dubbio alcuno la macchietta dell’omosessuale. Malgrado una migliore definizione dei personaggi, anche il cinema neorealista non osa nominare l’omosessualità, pur negativizzandola. Sandro Avanzo fa l’esempio di Germania anno zero (R. Rossellini, 1948) e Roma città aperta (R. Rossellini, 1945), in cui compaiono rispettivamente le figure di un professore pedofilo e di una nazista lesbica, entrambi rappresentati come soggetti pericolosi per l’equilibrio sociale.
Qualche timido progresso viene riscontrato nel corso degli anni cinquanta, quando l’omosessuale comincia a non essere più solo una caricatura, solo un criminale; tuttavia egli rimane qualcosa di estraneo al contesto della società: gli omosessuali, e in particolare i gay più delle lesbiche, per realizzarsi pienamente devono vivere all’estero, magari in Francia, da cui giungono espliciti reportage, che dimostrano come laggiù ci siano i travestiti. Unica possibilità di esistere, per coloro che rimangono in patria, è quella di essere artisti, le cui stravaganze nel comportamento giustifichino la “stravaganza” sessuale. Proprio per questo è da vedere come un atto coraggioso la produzione di Via Margutta (M. Camerini, 1960), in cui la storia di un amore omosessuale non corrisposto, oltre a reggere il filo di tutta la trama, viene vissuta sì da due artisti, ma del tutto comuni nel loro aspetto.
Forse questo film non nasce in maniera del tutto casuale: il 1960 è l’anno nel quale, come abbiamo già detto, viene presentata in parlamento la proposta di legge per punire penalmente l’omosessualità. La cosa avrà avuto un’influenza sull’opinione pubblica, e avrà indotto qualcuno a parlare a più chiare lettere dell’omosessualità in Italia. Forse i tempi stavano davvero cambiando, e la proposta di legge era forse un ultimo tentativo di ristabilire uno status quo non più accettabile; fatto sta che, col giungere degli anni sessanta, si verifica in Italia una cospicua produzione di pellicole nelle quali compare un personaggio omosessuale che, pur senza essere un personaggio comico, non ha necessariamente le stigmate dell’eroe negativo.
Nel campo della fiction, i riferimenti erano più comuni di quanto si potesse pensare. Quello che semmai può sorprendere è il fatto che sempre più spesso questi riferimenti offrivano una immagine rassicurante e comprensiva dell’omosessualità. Gli esempi possono essere tanti: da La commare secca (1961), di Bernardo Bertolucci, in cui la figura dell’omosessuale svolge un ruolo chiave nel ritrovamento dell’assassino di una prostituta; o ancora alcune commedie con Nino Manfredi, quali Alta infedeltà (1963), o Vedo nudo (1969), in cui le figure di omosessuali rappresentate hanno una descrizione profondamente umana. Un particolare interesse riveste per noi I sovversivi (1968) di Paolo e Vittorio Taviani, per il contesto in cui viene raccontata la vicenda di una coppia lesbica.
Il film dei Taviani narra di come, il giorno del funerale di Togliatti, si rechino a Roma, per seguire il feretro, una lunga serie di personaggi particolari: uomini e donne che vivono, ognuno a proprio modo, una condizione che li pone al di fuori delle norme sociali; sovversivi, appunto. Tra le vicende che si intrecciano nel film incontriamo quella di due amiche che finiscono insieme a letto e, la mattina dopo, riescono a tranquillizzare il marito di una delle due, che, allibito, crede tuttavia alla spiegazione delle due donne: avrebbero solo dormito insieme [33].
E’ interessante vedere due donne omosessuali riunite con altri sotto l’ironica etichetta di sovversivi: sembra quasi che i fratelli Taviani vogliano fare il verso all’accusa lanciata dai bempensanti, che trovano coesione nell’agire per il rispetto delle norme sociali. Questi bempensanti - ci dicono i Taviani - sono presenti anche all’interno del Pci.
Non a caso il dibattito intorno all’omosessualità, che abbiamo visto far riferimento grosso modo agli ambienti marxisti e a personaggi comunque vicini alla sinistra, era completamente assente dalla politica ufficiale del Partito Comunista. Basti pensare al documentario La rabbia, girato nel 1963 da due registi d’eccezione: Giovannino Guareschi e Pier Paolo Pasolini.
Non che i due autori abbiano lavorato assieme, beninteso. La rabbia è un documentario che tratta i principali temi politici e sociali del presente, rappresentati dal campione della destra cattolica (Guareschi) e da una delle figure più trasgressive della cultura di sinistra italiana (Pasolini). I due autori, per affrontare lo stesso tema secondo ottiche diverse, hanno diviso il film in due parti. Quello che però colpisce, nel documentario, è il fatto che, per sentir parlare di sessualità, si debba guardare la parte curata da Guareschi, non quella di Pasolini. Mentre infatti il futuro regista di Teorema tratta tematiche come la guerra, la politica, la pace, e solo quelle, al contrario l’ideatore di Don Camillo, appena può, affronta subito il tema della morale sessuale, attaccando a spada tratta la cultura del nudo maschile e il travestitismo [34].
Quindi, davanti al silenzio imbarazzato di un Pci, al quale si imputa una rivoluzione sessuale che neanche questi voleva, vi è una cultura cattolica e di destra che non si fa scrupolo di usare le istanze di libertà sessuale in chiave anticomunista.
Paradossalmente, se oggi possiamo avere una chiara idea di quale fosse il dibattito intorno alla “questione omosessuale” in Italia, dobbiamo ringraziare lo scandalo montato a suo tempo da riviste come Il borghese. Quando parlavano di pederasti, lo facevano con tanta dovizia di particolari da risultare un’utile fonte di informazioni per quanti volessero avvicinarsi al movimento omofilo francese ed europeo. E’ esemplare la vicenda di Maurizio Bellotti, che ha inviato le sue rassegne stampa ad Arcadie dal 1959 al 1982. I suoi articoli sono per noi oggi l’equivalente delle riviste che le forze dell’ordine avevano fatto tacere. Bellotti ha recentemente ricordato come aveva conosciuto, da giovanissimo, la rivista francese:

         Mio padre, fra le altre cose, leggeva giornali di destra quali Candido e Il Borghese. Un giorno lessi proprio su quest’ultimo un articolo in cui, con malcelato disprezzo, si raccontava che in Francia era nata una rivista che si permetteva addirittura di propagandare e legittimare l’amore omosessuale: nell’articolo c’era tanto di nome e indirizzo, e faceva anche menzione del direttore della rivista: André Baudry. [Mio nonno] un giorno mi promise che se fossi stato promosso mi avrebbe pagato un viaggio all’estero. [...] Alla fine dell’anno fui promosso, mio nonno mi pagò il viaggio ed io, coi calzoncini corti che usavano molto a quei tempi andai a questo indirizzo [35].


Bisogna dire tuttavia che i quadri del Pci non erano meno omofobi di quelli della Dc e della destra: aveva avuto modo di accorgersene lo stesso Pasolini, quando, nel 1949, era stato espulso dalla federazione del Pci di Pordenone “per indegnità morale” - in realtà perché era stata scoperta e denunciata la sua omosessualità [36]. Ed era ancora lo stesso Pasolini che, nel 1960, sulle pagine di Vie nuove, aveva avuto modo di lamentare l’ostilità del comunista medio:
Il problema sessuale non è, evidentemente, un problema morale: ma, poiché la piccola borghesia cattolica è abituata, ipocritamente, a considerarlo tale, tale lo considera anche il dirigente medio comunista, come, direi, per inerzia. Infatti, la questione non è mai stata impostata a chiare lettere: dato che si tratta di una questione secondaria. Ci sono questioni più importanti da risolvere [37].

“Ci sono questioni più importanti da risolvere”. Pasolini userà ancora questa frase otto anni dopo, per citare il pensiero del comunista medio circa il caso Braibanti.
Aldo Braibanti ricalcava in qualche maniera lo stereotipo del sovversivo appena descritto: dopo essere stato partigiano in Giustizia e Libertà e aver subito per questo le torture in via Tasso da parte di Koch e Carita, Braibanti entra a far parte del comitato centrale del Pci, dal quale in seguito decide di uscire. Fondatore dei Quaderni Piacentini, vive in un torrione a Castell’Arquato. Fin qui niente di strano, o quasi. Quello che desterà veramente scandalo sarà il fatto che la casa di Braibanti sia frequentata da un gruppo di giovani del luogo che lì si recano per discutere di filosofia e politica. Braibanti è marxista. Ma c’è di più: Braibanti è anche omosessuale. Lo scandalo scoppia il giorno in cui Ippolito Sanfratello, persuaso del fatto che suo figlio Giovanni sia stato traviato da Braibanti, decide di denunciare quest’ultimo. Il traviamento consisteva, a dire di Ippolito Sanfratello, nell’aver condotto Giovanni ad avere rapporti omosessuali. In realtà Giovanni Sanfratello e Aldo Braibanti avevano intrapreso una relazione sentimentale che, tra alterne fortune, era durata dal 1958 al 1964, intervallata da un’altra relazione di Braibanti con un altro giovane, Pier Carlo Toscani. Il padre di Giovanni intervenne per separare violentemente i due - che nel frattempo si erano trasferiti in una pensione a Roma - e per ricoverare il giovane in un manicomio. Braibanti venne denunciato per plagio, in quanto, come recita il capo d’imputazione, “con mezzi fisici e psichici in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in tempi diversi, sottoponeva Toscano Pier Carlo e Sanfratello Giovanni al proprio potere in modo da ridurli in totale stato di soggezione. In Fiorenzuola d’Arda, Firenze e Roma, dall’estate del 1958 alla fine del 1964”. In base a questo capo d’imputazione Braibanti venne condannato il 14 luglio 1968 a nove anni di reclusione; la cosa suscitò reazioni di sdegno in quella stessa stampa che fino a poco prima lo aveva denigrato [38].
Per ragioni di brevità non entreremo nello specifico della vicenda processuale. E’ necessario però notare come, durante il dibattimento, vengano usati contro Braibanti tutti i pregiudizi emersi qualche anno prima nei progetti di legge per la punibilità penale dell’omosessualità. Innanzitutto, come fa rilevare Umberto Eco in un saggio scritto sull’argomento, vi fu un’immediata identificazione tra rapporto omosessuale e idee marxiste, quelle stesse che avrebbero indotto i due giovani “in totale stato di soggezione” [39]. Ciò coincide perfettamente con la presentazione della PdL del 1960, in cui si lamenta come teorici abbiano avuto “l’audacia di elevare il vizio ad arte, sollecitando una vera e propria organizzazione con adesioni concettuali e filosofiche” ("sedicente filosofo" è il termine con il quale, all’atto della denuncia, Ippolito Sanfratello definisce Braibanti [40]; e dire che Braibanti è laureato in Filosofia). Vi è poi tutta una dinamica, entro la quale il processo si svolge, che dà alla vicenda un gusto surreale: Toscani, nella sua testimonianza, dichiara di aver ceduto al Braibanti in quanto questi lo aveva fatto “bere e fumare oltre misura” [41]. Precisato che il “fumare” si riferisce a delle banalissime sigarette nazionali, andiamo a vedere cosa dice il testo della PdL del 1961: esso prevede un’aggravante della pena nel caso di atti sessuali compiuti su “soggetti [...] resi inabili con l’uso di stupefacenti, oppure di alcolici, oppure di altre sostanze idonee a diminuire la capacità di intendere e di volere”. Un’aggravante come un’altra, diremmo. Ma cosa dire dell’ “influenza spirituale e psichica” [42] che Braibanti avrebbe compiuto su Toscani e Sanfratello, e che richiama un successivo comma della PdL, quello in cui si considera che “l’attore abusi della sua condizione di autorità nei confronti del partner”? Come dire, sembra che, con la condanna per plagio comminata a un omosessuale marxista, i giudici avessero voluto rispolverare quella proposta di legge mai approvata.
Il miglior sguardo d’insieme è però forse dato da Katia D. Kaupp sulle pagine di Le Nouvel Observateur, che però riprende il luogo comune, dato dalla stampa, di un Braibanti anarchico:
Il sesso infatti è stato il pretesto a questo processo. Ma il fondo era un altro: le famiglie italiane, che si erano sentite attaccate, si difendevano qui - e, con loro, la religione, la Stato, la società borghese. Aldo Braibanti non avrebbe certamente pagato con nove anni di prigione il suo cosiddetto “potere di suggestione” se, invece di condurre i suoi giovani amici sui sentieri dell’anarchia, li avesse guidati sui pacifici viali del bempensantismo [43].

Con Braibanti, quindi, il cerchio si chiude. O forse si sfonda una porta quasi aperta. Man mano che si avvicina il momento della sentenza i più intervengono a sostegno dell’intellettuale condannato. Anche il Pci, che fino allora non aveva mosso un dito in difesa di Braibanti, decide di fare la sua parte e pubblica, il giorno prima della sentenza, un articolo di Maurizio Ferrara, che si pone finalmente a difesa dell’imputato [44]. E’ interessante leggere quanto ha dichiarato in proposito, nel 1979, lo stesso Braibanti, in un intervista rilasciata a Felix Cossolo:

  Il mio processo era una passerella della cultura romana, c’era naturalmente la Morante, Pasolini, etc..  Evidentemente ad un certo momento hanno capito che dovevano fare qualcosa per difendere sé stessi, Pasolini difendeva anche sé stesso; e allora dopo che si è mosso un certo tipo di persone e un certo tipo di cultura, quando si è capito che l’attacco era globalmente contro la cultura di sinista, in ultimo si è mosso il Pci, quando ha capito che non sbagliava tasto. E infatti mi ricordo che il giorno in cui hanno letto la sentenza di condanna già scritta prima, lo stesso giorno il Presidente aveva sul tavolo la pagina dell’Unità in cui, nell’articolo di fondo in prima pagina, vi era, per la prima volta, un intervento in mia difesa [45].

Tuttavia lo stesso Pasolini ricorda su Tempo come, solo qualche mese prima, l’intellettuale-tipo del Pci si limitasse a rispondere che Braibanti non è il Vietnam [46]; come era stato detto otto anni prima, ancora una volta, c’erano questioni più importanti da risolvere.
In conclusione, un commento sull’attualità. La morale sessuale, così come è trattata nella cultura italiana degli anni cinquanta e sessanta, appare paurosamente retrograda. A noi, componenti della “società del duemila” non pare accettabile lo iato che divide la realtà italiana da quella europea. Eppure oggi la realtà non è cambiata. In Italia è ancora molto difficile portare avanti un dibattito sulla sessualità, senza che esso venga scambiato per una vetrina di pettegolezzi. Lo starebbero a dimostrare anche le vicende di questo inizio 1999, dagli emendamenti della legge sulla fecondazione assistita, alla sentenza della Cassazione sulla vicenda dei “jeans stretti”. Come pure è una preoccupante (ma significativa) omissione il fatto che solo in Italia, in occasione della morte di George Mosse, sia stato completamente rimosso, all’interno dei necrologi, ogni riferimento ai suoi studi sulla sessualità.
Ci sovviene a questo punto una domanda maliziosa: cosa penserà di noi quello studioso che, fra qualche decennio, si accingerà a studiare la morale sessuale nell’Italia degli anni novanta?
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