Le vittime (gay) dimenticate dei Gulag

31 agosto 2004

Se si pensa alle persecuzioni di cui sono state vittime migliaia di omosessuali, subito viene alla mente la terribile figura di Adolf Hitler e magari, con qualche distinguo, quella di Benito Mussolini.
Eppure l’odio per gli omosessuali sembra essere un fattore comune a tutte le dittature, sia militari che di carattere religioso, ed ancora oggi si hanno notizie di giovani lapidati o sepolti vivi nei paesi dove impera la Sharia (legge islamica).
Le ragioni di tali persecuzioni sono legate, a seconda della situazione politica e sociale, ai più svariati motivi: dalla “riduzione” del livello di mascolinità durante il fascismo (di cui sarebbero causa i pochi gay dichiarati del Ventennio) all’incredibile accusa del mondo nazista (che vede negli omosessuali i portatori di patologie psichiatriche e di deformazioni genetiche, intollerabili macchie nere per la razza ariana). Nei Paesi dove la religione è istituzionalizzata al punto di essere divenuta legge dello Stato, i “sodomiti” peccano contro Dio e contro la natura e quindi meritano vergogna e morte.
Tuttavia i gay sono stati perseguitati a causa di un’altra ideologia, madre di dittature in diverse parti del mondo: il comunismo. Lo sgretolamento dell’Unione Sovietica dei primi anni Novanta e con esso la fine della dittatura comunista nel Paese più esteso del mondo, ha portato alla luce una realtà sconosciuta di omosessuali perseguitati, condannati al carcere o ai lavori forzati in ambienti dove la temperatura invernale raggiunge i quaranta gradi sotto zero e dove spesso hanno trovato la morte.
Fino all’epoca di Pietro il Grande, l’omosessualità in Russia era tollerata e sanzionata dalla Chiesa ortodossa con penitenze, ma nel 1706 venne introdotto il rogo per chiunque fosse stato scoperto in un rapporto omosessuale.
Nel 1917 arrivò la Rivoluzione d’Ottobre e, grazie all’intervento dei cadetti (KD, partito dei costituzionalisti democratici), l’omosessualità venne finalmente decriminalizzata. I bolscevichi si dimostrarono contrari a questa nuova forma di libertà, probabilmente perché avevano in generale un atteggiamento sessuofobo.
Dopo la sua decriminalizzazione, l’omosessualità continuava comunque ad essere vista come una patologia, ma il concetto del rispetto della libertà dell’individuo permise alla legislazione sovietica sull'omosessualità d'essere indicata come valido esempio al congresso mondiale della Lega per le riforme sessuali, tenutosi a Copenhagen nel 1928.
Nel 1930 Mark Serejskij, perito medico, scrisse nella Grande enciclopedia sovietica che “La legislazione sovietica non riconosce reati cosiddetti contro la morale. Le nostre leggi partono dal principio della difesa della società, e quindi prevedono una punizione solo in quei casi in cui l’oggetto dell'interesse omosessuale sia un bambino o un minorenne...".
Negli anni Trenta, sotto Stalin, iniziò però un periodo di repressione generale della sessualità (il “Termidoro sessuale”) ed articoli contro l’omosessualità furono introdotti in tutti i codici penali delle Repubbliche sovietiche.
Nikolai Krylenko, commissario del popolo (cioè ministro) per la giustizia, annunciò che “l’omosessualità è il prodotto di decadenza delle classi sfruttatrici, che non hanno niente da fare…” e che “…in una società democratica fondata su sani principi, per tali persone non c’è posto”.
L’omosessualità venne così ad essere considerata “controrivoluzionaria” e una “manifestazione della decadenza della borghesia”, tanto che nel 1952 venne scritto nella Grande enciclopedia sovietica: "L'origine dell'omosessualismo è collegata alle circostanze sociali quotidiane; per la stragrande maggioranza della gente che si dedica all'omosessualismo, tali perversioni si arrestano non appena la persona si trovi in un ambiente sociale favorevole... Nella società sovietica con i suoi costumi sani, l'omosessualismo è visto come una perversione sessuale ed è considerato vergognoso e criminale. La legislazione penale sovietica considera l'omosessualismo punibile, con l'eccezione di quei casi in cui lo stesso sia manifestazione di profondo disordine psichico".
L’articolo 121 del codice criminale prevedeva in effetti la reclusione fino a cinque anni, con il possibile aggravamento fino a otto in caso di coercizione della vittima, di rapporto con minori o di violenza.
Spesso l’imprigionamento veniva tramutato in condanna ai lavori forzati presso uno dei molti gulag, dove gli omosessuali subivano umiliazioni e pestaggi anche ad opera degli altri condannati.
Nei gulag finirono milioni di persone per i più svariati motivi, impiegate spesso in opere faraoniche rilevatesi poi inutilizzabili, come il canale del Mar Baltico-Mar Bianco. Morivano di stenti, di freddo, di malattie, di botte o di fame, scavando nelle miniere o disboscando le zone sperdute della Siberia.
Anche se per la condanna degli omosessuali era previsto un internamento di pochi anni, di molti di essi non si ebbe più notizia.
Dal 1934 ai primi anni Ottanta vennero condannati, in base all’articolo 121, circa cinquantamila maschi omosessuali. La cifra dei gay incriminati cominciò a calare gradualmente solo negli anni Novanta. Ancora nel 1992 si ebbero, nel primo semestre, le ultime 227 condanne in base alle leggi sovietiche.
Il Kgb, il temibile servizio segreto sovietico, utilizzava la minaccia di rendere nota l’omosessualità (vera o falsa) per spaventare l’intellighenzia russa. Vi furono architetti, artisti e dirigenti pubblici o di partito che persero il lavoro o vennero incriminati. Questo provocò fra i gay un vero e proprio clima di terrore che, tra l’altro, impedì lo sviluppo dell’autocoscienza o di una cultura gay in generale.
L’omosessualità era vista, oltre che come un reato penale e controrivoluzionario, soprattutto come una patologia psichiatrica: l’individuo era visto come soggetto a una vera e propria perversione, con infantilismo psichico, difetto organico e disordine ormonale.
Le prime repubbliche ad abolire gli articoli contro l’omosessualità furono, dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica, la Lituania, la Lettonia, l’Estonia e l’Ucraina, ma la necessità di ottenere un posto nel Consiglio d’Europa e quindi di mostrare una Russia nuova e liberale, indusse Boris Yeltsin ad abolire nel 1993 l’articolo 121, pur mantenendo la punizione per i reati legati alla violenza ed alla coercizione.
Ma non era ancora finita. Nel 1993 l’omosessualità, dopo la riforma generale del codice penale, era ancora contemplata nell’articolo 132, intitolato “omosessualità o la soddisfazione di passione sessuale in altre forme pervertite”.
L’amore fra soggetti adulti venne quindi ad essere legale, ma l’omosessualità continuava ad essere vista come una patologia psichiatrica e come una perversione. I legislatori poi fecero una grande confusione, tanto che l’articolo 144 prevedeva che il rapporto sessuale rappresentasse comunque una forma di "coercizione autorizzata". Nel 1995 la Duma approvò la riforma, ma il presidente Yeltsin ed il Consiglio della federazione la respinsero.
Si tentò quindi un miglioramento e nel 1997 si arrivò finalmente a elaborare il Capitolo 18, sui “Delitti nella sfera dei rapporti sessuali”.
Per la prima volta comparve nel codice penale il lesbismo, autorizzato fra donne adulte consenzienti, ma condannato in presenza di atti di violenza. L’articolo 132 dello stesso capitolo condannava, al comma 3/b, il “danneggiamento pesante alla salute, infezione da Hiv o altre conseguenze gravi”. E infatti tuttora la permanenza in Russia di uno straniero oltre i tre mesi prevede, per il visto, una certificazione di sieronegatività da parte di una clinica pubblica.
In compenso, con la stesura del nuovo articolo si parlò, per la prima volta, di uguaglianza di genere di fronte al reato sessuale, e l’età del consenso venne stabilita infine per tutti, donne e uomini, gay ed etero, alla medesima età, 14 anni.
Il clima culturale vieta tutt’oggi ai politici di affrontare la tematica dei diritti dei gay e delle lesbiche, in quanto temono di calpestare il concetto della "difesa della famiglia tradizionale russa" e quindi di perdere consensi.
Ci ha provato a farlo, paradossalmente, il reazionario Vladimir Zhirinovsky, forse per mostrare un atteggiamento liberale ma, pensando che la sua fosse solo una provocazione, non venne preso sul serio.
A tutt'oggi il mondo politico e quello gay sembrano in Russia essere ancora due cose separate, e ancora nel luglio del 2001 il radicale trasnazionale Nikolaj Kharamov informava l’opinione pubblica del “niet” dell’amministrazione della capitale russa allo svolgimento del Gay Pride...
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