Il Grand Tour

16 dicembre 2005, "Babilonia", n. 219, aprile 2003, pp. 26-30

Più di una volta le pagine di Babilonia (si pensi all'articolo sugli affreschi dell'Acquario di Napoli o a quello su Jacques Fersen e Capri) hanno sfiorato l'argomento Grand Tour, senza però mai entrare nello specifico. Bene, è arrivato il momento di farlo, visto che è un fenomeno sempre più studiato e che rivela ogni volta aspetti sempre più interessanti e sfaccettati. Basti pensare che, grazie ad esso e alla lungimiranza di Thomas Cook, furono gettate le basi di quel turismo di massa che poi si imporrà a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso e che diventerà uno dei tratti maggiormente caratterizzanti la nostra epoca. Non è un caso, dunque, che due mostre fatte negli ultimi tempi - quella di Genova del 2001 e quella precedente di Roma - abbiano trascinato folle di spettatori.

In un'Europa segnata quasi sempre da fatti riconducibili ad una sfera religiosa, la forza del Grand Tour è nella sua essenza assolutamente laica, che ne fa un fenomeno a sé stante e quanto mai originale. Esso è infatti legato, nel suo sbocciare, all'affermazione degli Stati nazionali e alla nascita di una prima, sia pure acerba, coscienza europea. Fu proprio nel Seicento, infatti, che le classi dirigenti di alcuni stati, come l'Inghilterra e la Francia, ritennero che i giovani destinati a prendere in futuro le redini dello stato dovessero assolutamente confrontarsi con civiltà diverse del continente, che potessero eventualmente fungere da modello.


Fu però nel secolo dei lumi, il magic moment del Grand Tour, che nacque l'abitudine della "finishing school", che vedeva, appunto dopo aver terminato la scuola, tanti giovani aristocratici viaggiare alla volta dei paesi mediterranei, accompagnati da tutor, chaperon o parenti vari, al fine di completare la propria educazione di base. Ben presto, parallelamente a questi rampolli aristocratici, iniziarono a viaggiare anche molti intellettuali. A spianare la strada e a dare la stura al vero e proprio Grand Tour fu - senza contare il gran numero di pellegrini diretti a Roma - la venuta di numerosissimi giovani artisti francesi (ricordo Fragonard, David, Ingres e Girodet) vincitori del Prix de Rome, praticamente una lauta borsa di studio bandita dall'Academie Française, che prevedeva un soggiorno di qualche anno, molto facilmente a Roma, a contatto con le vestigia classiche italiane.


Il Grand Tour è dunque un'avventura squisitamente cosmopolita a cui parteciparono intellettuali - artisti e scienziati, letterati e filosofi - provenienti dall'Europa del Nord (tedeschi, danesi, olandesi, fiamminghi, irlandesi, scandinavi e, soprattutto, inglesi) che si indirizzarono verso i paesi mediterranei: il Portogallo, la Spagna, il mezzogiorno della Francia, la Grecia e i paesi balcanici (soluzioni queste ultime però quanto mai rare, vista la poca propensione che l'Impero Ottomano aveva per il turismo, in qualsiasi forma si presentasse...) e, sovra ogni altra cosa, l'Italia, che fu la meta per eccellenza. Di fatto, essa esercitò un'attrazione magica per il resto del continente; fu riconosciuto come la culla della cultura europea, cosicché un viaggio in Italia aveva un valore di ritorno alle origini. A questo proposito, è giusto ricordarlo, il Grand Tour contribuì a formare nel nostro paese una più profonda cognizione della propria identità nazionale.


Iniziato nel Seicento (ma già alla fine del Cinquecento a Roma e in altre città italiane si contarono i primi viaggiatori, come il sommo Montagne, il quale visitò il nostro paese spinto dalla ricerca di acque salutari che lo aiutassero a combattere le sue dolorosissime coliche renali), il Grand Tour diventò un fenomeno di massa, se così lo si può chiamare, nel Settecento, un secolo relativamente poco disturbato da quelle guerre che impedivano evidentemente spostamenti da uno stato ad un altro.


Se in un primo momento fu soprattutto Venezia a tenere banco, grazie soprattutto alle sue rutilanti feste, come il Carnevale, e ai suoi pittoreschi angoli, dal Neoclassicismo in poi (che si può idealmente fare iniziare col 1738, la scoperta di Ercolano, o col 1748, quella di Pompei) sarà Roma a diventare la meta obbligata, soprattutto per i tanti innamorati del mito dell'antichità classiche.

Fu proprio con l'ondata neoclassica che si venne a creare un flusso costante di centinaia e centinaia di intellettuali (dei quali ormai abbiamo lo spoglio completo), tutti di agiate possibilità economiche e di profonda cultura, i quali calarono dal Nord Europa per visitare il "Bel Paese", come allora veniva spesso chiamato, nel quale poi sostavano alcuni mesi o, in certi casi, anni. I viaggiatori, curiosi e instancabili (si pensi alla sete d'arte di Stendhal, al cui nome è legata la celebre sindrome dovuta ad un'eccessiva fruizione di troppe opere d'arte in un tempo limitato...) visitavano senza posa rovine, musei, gallerie private e chiese. O provavano, cosa non certo frequente allora, il piacere di un bagno in un mare limpido e caldo.


Il viaggiatore tipico arrivava in Italia per mare (sbarcando a Genova, Livorno o Civitavecchia) o per terra, a cavallo o, a partire dall'Ottocento, per treno (la via canonica era attraverso l'Olanda, la Francia e la Svizzera). Era armato di guide - veri e propri Baedeker dell'epoca, il più famoso dei quali fu quello scritto nel Seicento da Maximilien Misson, il quale accompagnò in qualità di tutor un rampollo aristocratico inglese - che magnificavano i monumenti e, cosa non meno importante, offrivano indispensabili indicazioni per evitare le strade infestate da briganti che depredavano gli inermi ma ricchi viaggiatori, i quali spesso si muovevano con pletore di carrozze (Byron normalmente viaggiava, assieme ad una numerosa comitiva di servi ed amici, con ben cinque carrozze, una delle quali con un letto dentro).


Le città che bisognava assolutamente visitare - un must, praticamente - senza le quali l'esperienza italiana non sarebbe stata completa, erano quattro: Venezia, Firenze, Roma e Napoli (intendendo con la città partenopea anche i Campi Flegrei, il Vesuvio, Pompei, Ercolano, Sorrento e, in seguito, Capri), la tappa estrema del viaggio, oltre la quale nessuno osava inoltrarsi, innanzitutto per questioni di sicurezza. Solo dall'Ottocento in poi qualcuno osò arrivare fino alla Sicilia, l'ultimo avamposto da conquistare, seguendo l'esempio di uno dei più illustri viaggiatori, Wolfgang Goethe il quale per primo visitò nel 1787 l'isola (dove, a Siracusa, lo sfortunato poeta tedesco August von Platen morirà di colera nel 1835...): nel suo Italienische Reise, dopo aver definito la Timpa, la collina sulla quale sorge Acireale, "la balconata d'Europa", affermò che non si poteva conoscere l'Italia senza aver visto "il paese dove fioriscono i limoni". Peraltro, fu proprio la Sicilia, grazie alla sua cultura arabeggiante, ad essere il primo punto concreto di riferimento al crescente fenomeno dell'Orientalismo, che solo in un secondo momento si indirizzò verso i suoi luoghi congeniti, come Costantinopoli, il Maghreb o il Medio Oriente.


L'esperienza vissuta fu immagazzinata dai protagonisti in varia maniera. Molti adorarono farsi ritrarre attorniati da monumenti (Shelley che legge nelle terme di Caracalla), vicino a celebri opere pittoriche o scultoree (l'inglese Thomas Dundas, il quale amò farsi ritrarre vicino all'Antinoo, al Laocoonte e alla Cleopatra del Belvedere), immersi nella natura (Goethe ritratto dall'amico Tischbein sullo sfondo delle campagne romane) o più semplicemente assieme ad altri illustri viaggiatori. D'altra parte, non furono pochi i casi di viaggiatori che, stanziando per parecchio tempo in una città, vivevano assieme o si riunivano periodicamente, come il gruppo di danesi, formatosi a Roma attorno allo scultore Thorvaldsen, o quello di artisti tedeschi a Napoli, che ruotava attorno a Hans von Marées e lo scultore Hildebrand, e che scherzosamente amò denominarsi "la società del caffè".


Molti furono poi i diari o gli scritti di vario genere (oltre a quello di Goethe, il più celebre, si possono ricordare quelli di Heine, di von Platen e del francese Charles de Brosses), pieni di annotazioni e di dettagli sulle cose viste e sulle abitudini di un popolo profondamente diverso dal proprio. Se molto diffusi furono i Voyages en Italie, non mancarono gli Schizzi, le Rappresentazioni e i Frammenti, a dimostrazione dell'importanza che ebbe la pittura. Non mancarono così pagine entusiaste sulla tipica, colorata animazione italiana, sui mercati all'aperto nelle piazze, sulle vie strette e labirintiche, sulle passeggiate lungo il mare, sulle superbe e soleggiate isole. E, nello stesso tempo, lagnanze sui servizi scadenti, sulla generale mancanza di igiene e sul baccano che imperava endemicamente nelle strade del nostro paese. Rimane il fatto che, in parallelo con lo sbocciare dell'idea della formazione culturale individuale, questi diari iniziarono a rifiutare le descrizioni canoniche e convenzionali, per sottolineare invece la propria percezione soggettiva, che tenesse conto nello stesso tempo del cuore, della ragione e del gusto.

Ma, al di là delle motivazioni sopraddette, quali furono le ragioni profonde per cui l'Europa anglosassone, una delle due fondamentali matrici culturali europee, si interessò così tanto dell'altra, quella mediterranea? E soprattutto perché si finì col privilegiare fortemente proprio l'Italia, che diventò la stella polare di tutti i più importanti intellettuali europei?


I motivi più esteriori sono evidenti, soprattutto per la seconda domanda: la natura incomparabilmente bella ("Non appena messo piede in Italia, la dolcezza del paesaggio e la limpidità del cielo mi hanno totalmente rigenerato. Sono queste le cose che mi danno vita, mentre il fumo delle città, l'umanità caotica, la pioggia e le raggelanti nebbie del nostro paese mi fanno sentire moribondo", disse l'inglese Shelley), ricca di posti eccezionali: cascate e isole verdeggianti, ghiacciai e placide baie, sabbia del deserto e vulcani (Johann Henirich Bartels, dopo aver scalato il Vesuvio nel 1786, disse che il suo cuore era stato colmato da "tremore e raccapriccio, al quale tuttavia nulla può essere comparato in quanto a grandezza, bellezza e maestosità"). In più, si aggiungano le città straordinarie, capaci di sedurre tutti i palati, anche i più raffinati, e la ricchezza artistica, in particolare sul versante classico, a proposito del quale, poiché infatti la Grecia era di fatto off limits, l'Italia era di fatto l'unica erede conclamata della classicità e del Rinascimento.

Ma il discorso non si esaurisce qui, trovando motivazioni meno lampanti ma più profonde. Fin dal XVIII secolo, infatti, l'Europa del Nord, in odore di industrialismo, avvertì il pungente desiderio di trovare una civiltà più genuina, che offrisse una natura incontaminata e dei comportamenti umani più schietti, legati a società in cui il cristianesimo non fosse riuscito a annullare del tutto il paganesimo di base. Una ricerca che, nello stesso tempo, appare bifronte, nel senso che riusciva ad appagare esigenze di quel preciso momento storico così come del passato. Da un lato, infatti, essa rispondeva ad alcuni stimolanti fermenti che percorrevano la cultura europea dell'epoca e che alla fine furono formalizzati dagli scritti del filosofo svizzero Jean-Jacques Rousseau; questi sostenne che l'uomo, positivo per natura, viene incattivito e corrotto dalla civiltà, ragion per cui è d'obbligo cercare civiltà più schiette e naturali. Un'esigenza, questa, che il Mediterraneo appagò compiutamente in un primo momento, mentre in seguito il raggio d'azione fu allargato verso posti più esotici, come il Maghreb, il Medio Oriente e poi, via via, le Indie o addirittura la Polinesia (dove, lo ricordo, morirono Gauguin e Stevenson).


Dall'altro, questa ricerca dette finalmente corpo a quello che è senz'altro il topos per eccellenza della nostra cultura occidentale, esistente già nella mitologia greca e decantato da moltissimi intellettuali, da Virgilio a Tasso, da Poliziano a Pietro da Cortona: l'Età dell'Oro, l'espressione perfetta di un mondo idilliaco senza tempo, privato da ogni angoscia ed affanno, nel quale una pacata armonia informa soavemente la natura, gli animali e gli uomini. Ecco dunque cosa fu il Mediterraneo per l'Europa civilizzata: la realizzazione di un sogno di pace e di perfezione che riuscì ad allontanare, almeno per un po', i fantasmi di un futuro nebbioso e artefatto, nel quale piano piano - era in molti a pensarlo - si sarebbe perso il concetto di umanità.


Sarebbe ovviamente un clamoroso e fuorviante errore pensare che tutti i viaggiatori del Gran Tour siano stati omosessuali. Però è innegabile che in percentuale essi furono proprio molti e non è certo difficile spiegare il perché. Disse lo scrittore inglese William Beckford, approdato in Portogallo dopo essere stato costretto ad allontanarsi dalla madre patria per aver dato scandalo con minorenni (cfr. Babilonia n. 207) che il Mediterraneo "era un posto per peccatori di una particolare specie". In effetti, Beckford fu uno dei pochi a dire esplicitamente ciò che altri fecero, soprattutto a partire dall'Ottocento, senza sentire il bisogno di conclamarlo pubblicamente.


D'altra parte, tutto ciò ha una logica. Mentre in Inghilterra - giusto per fare l'esempio più eclatante - la cultura vittoriana reprimeva ogni comportamento che trasgredisse le rigorose regole del perbenismo sociale e dove si processò e condannò duramente Oscar Wilde (al quale, per la cronaca, fu vietato l'ingresso al caffè dell'hotel Quisisana di Capri su richiesta di alcuni ospiti inglesi, che trovavano la sua presenza sgradita...), furono in molti a trasferirsi volontariamente in Italia o in altri nazioni mediterranee; qui misero finalmente a nudo le proprie inclinazioni, proibite nei propri paesi, trovando così un nuovo modo di essere, scevro da condizionamenti sociali e inteso al pieno soddisfacimento epicureista di tutti i sensi.


Scelte, queste, che alla fine pagavano, visto che nella Grecia di Platone e nella "terra dei romani dai facili costumi" era possibile esperire ogni cosa, senza particolari sforzi, all'ombra di una concezione di massima libertà sessuale, aperta ad ogni esperienza: non era infatti certo difficile trovare la disponibilità fisica di splendidi ragazzi e ragazze (già un francese, sbarcato a Capri nel 1632, raccontò come "le donne e i ragazzini vi fanno volentieri la cortesia ai viaggiatori stranieri"), quasi sempre, ovviamente, delle classi più umili.

Furono così innumerevoli i ragazzi "affidati" o "concessi" dalle famiglie a ricchi stranieri, a suon di danaro o di protezioni varie. Se pure si annoverano episodi di intolleranza, con scandali poi consumati alla luce del sole e che spesso rovinarono i ricchi protagonisti, il più delle volte si arrivava a soluzioni che alla fine fondamentalmente accontentavano - in virtù di un ben diverso rapporto fra le classi, che prevedevano interazioni o frizioni fra le classi alte e quelle basse solo in particolari, determinate modalità - tutte e due le parti in causa: il ricco poteva consumare un rapporto privilegiato con l'oggetto concupito del proprio desiderio, mentre le famiglie apprezzavano i benefici derivanti, in particolare sul piano economico.


Si ebbe dunque il paradosso di intellettuali, non di rado stravaganti, che vissero schifiltosamente lontano dalla folla e che pure coabitarono con ragazzi e ragazze popolane, ai quali spesso lasciarono le loro ricchezze in eredità. Al proposito, possiamo ricordare le parole di Norman Douglas (1897): "Il ragazzo si innamorò di me disperatamente, come solo può farlo un ragazzo meridionale di quell'età; così ciecamente, che ad un mio cenno avrebbe abbandonato lavoro, famiglia e tutto il resto. Fu come un fulmine a ciel sereno, e non gli importava che la gente se ne accorgesse. E la cosa più strana (strana cioè per la nostra mentalità inglese) è che la cosa non sorprese minimamente né sua madre né sua sorella; la giudicarono la cosa più normale del mondo".


Il fenomeno riguardò ovviamente tutta l'Italia - si pensi alle centinaia di avventure con ragazzi che "sfiancarono i lombi" di Lord Byron a Venezia - ma trovò il suo luogo privilegiato nel Mezzogiorno, a cominciare dagli ultimi decenni del Settecento. Fu attorno a quegli anni, infatti, che i viaggiatori, prima poco preoccupati di interessarsi alle popolazioni locali, complice il fenomeno del banditismo (dell'Italia si diceva "un paradiso occupato da diavoli"), iniziarono a comunicare con esse, descritte come poi come "maestre dell'arte del vivere".

Sarebbe lunghissimo, e forse tedioso, cercare di compilare un elenco dei tanti celebri personaggi omosessuali che sbarcarono nel Mediterraneo. Al riguardo si può rimandare all'ottimo, ma purtroppo mai tradotto in italiano, saggio di Robert Aldrich: The Seduction of the Mediterranean - Writing, Art and Homosexual Fantasy (Routledge, 1993). Giusto per fare qualche nome, ricordo - oltre ai già menzionati Byron, Wilde, Girodet, Douglas e von Platen - Donatien-Alphonse-François de Sade, Johann Joachim Winckelmann (il quale morì in un albergo triestino, ucciso da un ragazzo di vita), Henry James, Marcel Proust, Hans Christian Andersen, il Baron Corvo, Edward M. Forster, il barone Von Glöden, Mikhail Kuzmin, Walter Pater, John Addington Symonds.


Tutti protagonisti di un inesausto corteo che si protrarrà fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando poi il flusso si indirizzò verso altre terre, dove si riproponevano condizioni sociali in un certo modo adeguate a quelle del Sud Europa, prima che anch'esso fosse toccato da quella omologazione preconizzata da Pasolini negli anni Settanta. Diversissimi fra di loro, tutti costoro sono accomunati dall'aver ceduto alle lusinghe del mito omoerotico del Mediterraneo (al quale peraltro inconsapevolmente hanno anche contribuito). Di una realtà, in altre parole, che contrapponeva alle opprimenti condizioni sociali delle patrie d'origine ben altre caratteristiche: terre assolate, cieli tersi e abbaglianti, mari trasparenti e tiepidi, sapori pungenti e intensi e, soprattutto, ragazzi dalla solare fisicità, che potevano offrire una sensualità schietta, da godere fino in fondo.
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