Catania, 1939

Incontro con Pino, confinato politico omosessuale nel 1939

19 ottobre 2004, Enrico Venturelli (a cura di), Le parole e la storia. Ricerche su omosessualità e cultura, Cassero, Bologna 1991, pp. 120-129

Il mio intervento si ricollega a quello di Giovanni Dall'Orto nell'ultimo convegno di cultura omosessuale svoltosi a Genova nel 1984. Il titolo dell'intervento era: Omosessualità e cultura. Può esistere una "cultura omosessuale"? [1].

Dopo aver esposto il diverso approccio, realista o costruzionista, con il quale gli studiosi si avvicinano allo studio dell'omosessualità (l'omosessualità esiste in una data cultura indipendentemente dalla nominazione della stessa - realisti - o c'è proprio perché la cultura la riconosce come esistente, la nomina - costruzionisti - ?), Dall'Orto, pur nella consapevolezza della difficoltà di dover definire una materia così sfuggevole, definisce cultura omosessuale il "contributo dato alla cul­tura occidentale di tutto ciò che è stato prodotto da quegli individui omosessuali che si rendevano conto di essere "diversi" in seguito della sperimentazione della diversità" [2]

Il primo contributo avviene a livello "del vissuto, di 'cultura' intesa nel significato che a questa dà l'antropologia culturale" [3]. Sono i gesti, le esperienze umane, le mentalità, il gergo, le nozioni comuni ad una minoranza.

Il secondo livello investe il campo "colto" - la cultura è intesa qui come nozione -, quello letterario, artistico, filosofico, scientifico, con elaborazione di "dati" sull'omosessualità.

Il terzo livello investe il campo "storico-mitologico, ovvero il biso­gno, esistente soprattutto negli omosessuali che vivono isolati (nello spazio e nel tempo), di sentirsi comunità storicamente data, di richia­marsi a radici storiche, creando così una propria identità.

Il livello che ci interessa indagare è il primo, e la società sulla quale posiamo lo sguardo è quella catanese degli anni trenta.

Non ci occuperemo del vissuto del ceto alto o colto, bensì di quello del ceto basso o medio basso. Se difficile è ricostruire la loro gestualità e, in misura minore, il gergo, crediamo meno arduo tentare una ricostru­zione delle loro esperienze umane, delle credenze, delle mentalità, delle nozioni comuni.

L'obiettivo, è ovvio, è verificare l'esistenza antropologica di una sottocultura omosessuale.


Catania, dicembre 1988

Incontro con Pino, confinato politico omosessuale nel 1939.


"....sono passati anni, sono passati... Cosa vuoi che ricordi... Ci di­vertivamo, si usciva per via Etnea e poi sai, noi eravamo i primi, dici di che?... Eh, di arrusi, di noi così, che si andava per strada..."

I primi, "eravamo i primi". Così Pino, oggi ottantenne di Catania, ha iniziato a raccontarmi della sua vita. "Eravamo i primi", così racconta chi sa che prima di lui non esiste Storia. La storia, si sa, diventa Storia solo quando si racconta.


La storia degli arrusi di Catania, noto io, mica è fatta di biondi nordici pianisti, di college, di nobili ragazzi, sempre belli, innamorati di scudieri. Non è neanche fatta di coscienza politica, di rivendicazione dei propri diritti, di orgoglio di sé verso gli altri. Né di circoli letterari e di libri di Oscar Wilde o poesie di Baudelaire. La loro storia è fatta di povertà, di 14 lire al giorno per i più fortunati, o di piccoli furti e anche di prostituzione. È fatta di ignoranza, di analfabetismo, di croci nei verbali degli interrogatori, di ore e ore di lavoro nei campi. È fatta anche di amori di qualche sbronza, di rientri all'alba, anche se qualcuno parla troppo o insulta. È la storia di un mondo nascosto, fatto di strade particolari, parchi, sale da ballo e cinema speciali.

È una storia triste ma non sempre. Ora è anche una parte della nostra Storia


Nel dicembre del '37, così racconta Pino, la vita degli omosessuali catanesi (Pino usa puppi, arrusi, pederasti, gay e anche il femminile di gay, "ghee") fu messa in agitazione da un delitto avvenuto in una casa del centro. R.I. fu trovato una mattina nella sua casa con il cranio sfon­dato: partono le indagini, vengono fermati e interrogati gli amici della vittima, "a Placidina", "a Leonessa", e molti altri.

La casa del morto era una casa famosa, per gli arrusi catanesi:anche Pino a volte era stato li con qualche amante, senza peraltro conoscere bene il padrone di casa. Ci furono un po' di mesi movimen­tati, poi tutto riprese normalmente.

Così, lungo la via Etnea, all'oscuro (?) delle signore e delle camicie nere, i puppi catanesi tornarono a passeggiare. Non c'erano tavolini, allora, sopra i marciapiedi, né macchine lungo la via. Si camminava e con gli occhi si lanciavano messaggi. Pino già da quando aveva 15-16 anni conosceva e decodificava gli sguardi dei signori e dei ragazzi. Li aspettava poi più tardi, nelle stradine a fianco della via centrale, e lì, in genere, in fretta e allo scuro, questi lo amavano.

All'epoca dei fatti aveva già trascorso dieci anni circa di "clandestinità". Un padre e un fratello maggiore morti troppo presto, la paura grande oggi era verso il cognato, paura che non bloccava certo l'azione.

Dopo la solitaria ricerca per le vie del centro, le serate, sempre che qualcuno non proponesse qualcosa di diverso, finivano alla sala da ballo in piazza Sant'Antonio. Lì in genere ci si ritrovava tutte: "a Piccirid­da", "a Sticchina", "a Scarpara", e ogni tanto arrivava qualche nuova, più giovane e inizialmente spaventata.

C'era chi alla sala ci viveva: come L. ("a Pazza"), che il padre aveva sbattuto fuori casa, che chissà dove dormiva, e che più tardi avrebbero definito "ozioso e vagabon­do". L. era una delle attrazioni. Vestito con una canottierina leggera, se era estate, canticchiava, ballava, e faceva soldini. Quanti maschi che, lasciate le fidanzate a casa, andavano curiosi alla sala da ballo! E qualche volta anche Pino aveva fatto soldini con quei ragazzi. Ma Pino faceva attenzione nella sala da ballo; era più calmo, più sospettoso degli altri. E se arrivava qualcuno che lo conosceva? O la solita visita dei carabinieri? Mica bello averci a che fare, pensava, o dover dare spiegazioni. Già una volta qualcuno alla madre l'aveva riferito, quelli del mercato, immaginava, l'avevano visto tornare alle 5 del mattino. E lui ne aveva sofferto per la mamma che, quasi complice, qualche sera gli aveva anche nascosto i vestiti per tenerselo a casa. Quell'estate del '38, come tutte le altre estati, la spiaggia, di notte, tornò a fare da padrona.

Ma ci fu un'altra notte, una notte speciale del gennaio del '39.

Pino era a casa, a cucire - lavoro arretrato. La mamma era già a letto, poverina, quando arrivarono. Non dissero niente, nessuna spiegazio­ne: solo il suo nome e fu portato in questura. Li misero in cella, separati dagli altri "normali", tutti insieme. Erano più di venti e credevano che fra loro cercassero l'omicida. Poi li interrogarono, uno alla volta... Chi fre­quenti? Sei pederasta? Sì che lo sei, dillo. Ormai siete come le puttane, che vi vendete... Dopo pochi giorni tutti insieme da un dottore, che li fece denudare e chinare per osservare il loro buco, se largo, stretto, sfianca­to, con ragadi o emorroidi. Quasi un mese in carcere, e fuori le madri, i padri, le sorelle; vergognosi loro, rassegnati entrambi. Quasi un mese, giusto il tempo di veder arrivare altri loro amici, prima di partire per scontare 5 anni di confino, da trascorrere in una colonia di pena del Regime.


Milano, Dicembre 1989


Dunque, cinquant'anni fa, 42 ragazzi di Catania furono condannati a 5 anni di confino. Il confino, politico o comune, rientra nei provvedimenti di polizia regolati dal T.U. del 1932; strumento che non è una novità del Regime fascista, ma che si innesta su una tradizione che affonda le radici fin nell'Italia giolittiana e oltre. Il Regime semplicemente lo raffina e ne fa uno degli strumenti base della repressione politica e società. Non vogliamo qui indagare la repressione omosessuale del Regi­me fascista, ovvero l'uso particolare che il Regime fa, nella seconda metà degli anni trenta, in particolare nel '38-39, delle sanzioni ammini­strative nei confronti della popolazione omosessuale (sanzioni che vanno dalla diffida, all'ammonizione - sorta di arresti domiciliari - al confino, appunto). Come dicevamo all'inizio, ci interessa indagare, in base alla documentazione in nostro possesso (fascicoli personali che raccontano la vicenda dei confinati dal momento dell'arresto alla fine della pena), la realtà omosessuale catanese: il loro rapporto con la città, con i suoi spazi, il loro modo di vivere e pensare la propria ses­sualità. Ancora, per confronto, è interessante dare uno sguardo alle Autorità, dal questore al tenente dei carabinieri, dai medici al prefetto, rappresentanti non solo del Regime, ma soprattutto di una cultura anti­omosessuale.

Perché Catania? Semplicemente perché la luce è migliore! Catania, o meglio l'affare di Catania del '39, ci ha permesso di avere in mano un valido campione di studio di una realtà sociale. Intanto 42 persone, omosessuali arrestati in quanto tali, con caratteristiche comuni impor­tanti. Poi un lavoro attento e curato della questura e dei C.C.R.R. cata­nesi, che ha fatto sì che ogni fascicolo personale abbondasse di infor­mazioni su ognuno di questi (nessun'altra città italiana offre quanto, purtroppo, oltre Catania). Inoltre, e questo è forse il lato più stimolante, ricordo che i protagonisti di questa storia sono persone che apparten­gono principalmente alle classi sociali più basse, artigiani, contadini: bassi i guadagni, faticosi i lavori, dal sarto al calzolaio, al pastore, con paghe giornaliere di poche lire, e spesso anche analfabeti. Pochissimi i diplomati, che magari danno qualche ripetizione a due o tre bambini, e pochi coloro che possono permettersi di vivere da soli, e che fanno feste e organizzano incontri nelle proprie case.


Uno degli elementi che maggiormente mi colpì quando iniziai lo studio dei fascicoli riguardanti i confinati catanesi, fu la menzione, ab­bastanza frequente, di una sala da ballo, situata nella zona centrale della città, funzionante come punto di incontro e di rimorchio degli omo­sessuali di Catania. Mi colpì proprio perché sembrava e, a quanto ne so fino ad ora, è elemento che distingue Catania dalle altre città italia­ne. Nei rapporti delle questure e dei carabinieri di Salerno, Palermo, Roma, Firenze, Milano, non si accenna neanche all'esistenza di un luogo simile nelle loro città.

Pino mi raccontò, e un suo amico scampato ai fatti del '39 e presen­te al nostro incontro lo confermò, che l'esistenza della sala non era così sconosciuta ai catanesi. Anche la polizia ci andava per controllo; ne conosceva dunque l'esistenza e, almeno fino al '39, la lasciò vivere, pur con tutte le precauzioni del caso. Dopo le vie, i parchi e le sale cinematografiche, che negli anni '20-30 diventano anche "Tempi del peccato omoerotico" (rubo a Piero Santi in Ombre rosse), a Catania le sale da ballo. Che esistano sale da ballo per soli maschi, non credo ci sia da stupirsene: a poco a poco, evidentemente, in alcune di queste si concretizza, oltre l'incontro di amicizia, anche la possibilità di incontri omosessuali.

Fermiamoci un attimo e sulle sale diamo la parola al questore di Catania che, raccontando in poche righe i peccati di uno degli arrestati, così si esprime: "Le sale da ballo, che allora fungevano da 'borse' per la quotazione del valore dei pederasti, lo ebbero frequentatore assi­duo" (faccio subito notare che pederastia, non omosessualità, è l'unico termine usato dalla polizia e dagli stessi omosessuali per indicare la devianza sessuale dalla norma. Anche io lo userò in egual maniera). Ma chi è che fa salire o scendere le quotazioni? Chi sono i compratori o i venditori delle azioni? Alla polizia questo non interessa e, per ora, fingiamo che non interessi neanche a noi. Fingiamo, appunto.

Uno degli elementi che più ci fanno inorridire, quando si vanno a consultare i fascicoli personali dei confinati politici pederasti catanesi, è la presenza in ciascuno di essi (e solo in questi di Catania) dei certificati medici che parlano di analisi dell'ano. Che la scienza medica non sia estranea a orrori del genere, non è cosa nuova. Già alla fine del secolo scorso esisteva l'idea che un omosessuale fosse riconoscibile da particolari tratti somatici o da particolari forme dell'ano. Ma qui l'uso che se ne fa appare un altro.


Leggiamo alcuni dei certificati medici, redatti pochi giorni dopo l'arresto, usati come prova d'accusa e presentati (insieme al verbale dell'interrogatorio e al rapporto dei C.C. R.R. su ogni singolo individuo) alla Commissione Provinciale per i provvedimenti di polizia:


LE (10 anni): "Ano modicamente sfiancato. Ragadi a tipo centripedo. Adusato a colto preternaturale non in modo eccessivo".

A L. (40 anni): "Sofferente ed operato di ragadi, ma adusato al coito preternaturale".

S. F. (37 anni) "Pederasta occasionale".

88. (22 anni): "Operato di ragadi. Adusato a coito abituale delle vie preternaturali"

SS. (28 anni): "Adusato a coito preternaturale non abitudinario. Mancanza di ragadi profonde e sfiancamento relativo degli sfinteri".


Dunque, queste sono le conferme che sanciscono la colpevolezza degli imputati. È la Prova: sei pederasta, e lo si vede dal fatto che hai "usato" l'ano. A noi oggi fornisce la spiegazione su chi la polizia inten­desse realmente punire: il pederasta passivo, cioè l'unico pederasta,

Nei profili di ogni individuo che il questore e il tenente dei carabinieri stilano per la Commissione Provinciale è confermata la tendenza: tutti gli arrestati sono "pederasti passivi", qualcuno "passivo e attivo":


E.F. (50 anni, "a Leonessa") "Egli è uno dei pederasti passivi più antichi. Giovani di almeno due generazioni, sono stati da lui visitati, e quel che è peggio, quando può, e come può, si rende ancora utile nel campo della depravazione... Come le prostitute, raggiunti i limiti dieta, il EH è diventato mezzano e lenone".

G.G. (19 anni) "soprannominato 'a Scarpara', è un invertito sessuale che pratica la pederastia passiva da diversi anni.., ha deliziato per molto tempo gli avventori della sala da ballo di piazza S.Antonio".

IL. (21 anni, "a Carbonara"): "IL. pratica la pederastia fin da ragazzo Da principio resisteva ai voleri dei maschi. Ma quando cadde fra le grinfie del grande lenone C.G., vi si dedicò senza ritegno, praticandola con accanimento".

L.P.G. (23 anni, "a Sticchina"). "Ragazzo ancora, come per gioco praticò la pederastia passiva, alla quale in seguito si sottopose con passione. Dal viso scanno, gli occhi infossati, dalle narici larghe alla labbra grosse, il L P G appare subito il tipo del perfetto sensuale Si direbbe un maschio fortunato, se la voce non rivelasse delle anomalie e la vita che pratica non desse prova della sua inversione sessuale"

B.M. (32 anni): "È un ostinato pederasta passivo.., in pubblico assume ad arte pose ed atteggiamenti del sesso femminile, sia con l'incedere, sia con l'imbellettarsi".

P.V. (32 anni, "a Cusimera"): "Sale da ballo, cinema, luoghi balneari, ritrovi notturni... sono le località dove egli sacrifica all'amore, e rinunzia al suo sesso".

F.P (33 anni, "Ciccina"); "È costui, oltre che pederasta passivo, pregiudicato per reati comuni F.P., ex vigilato, ex ammonito, ha infatti al suo passivo, perché in lui tutto è passivo, un'infinità di condanne per furti, truffe, appropriazioni indebite... È innegabile, però, che F.P. riesce più pericoloso quale pederasta che ladro".


Si potrebbe continuare oltre, visto che tutti hanno come qualifica e come capo d'accusa quello di praticare la pederastia passiva e di assumere, quindi, atteggiamenti femminili o peggio, di prostituirsi.

I carabinieri e il questore appaiono sconcertati quando l'arrestato è sposato, e magari ha un figlio (succede in due casi). In quel caso si è davanti a (SS., 28 anni, "a Caprara") "una delle figure più complesse di pederasta; sposato, risulta allo stato civile padre di un bambino, tiene un amante ed è provato che froda i clienti e truffa il prossimo... il suo controllo riesce difficile perché la sua attività infame si svolge nella borgata di C., ed in compagnia fra le capre e su l'esempio delle capre stesse"

C'è ancora un documento, a firma del questore di Catania, e inserito in ogni cartella personale, che merita un po' d'attenzione. Tratta della "piaga della pederastia" nella città: "In passato molto raramente si notava che un pederasta frequentasse caffè o sale da ballo o andasse in giro per le vie più affollate; più raro ancora che lo accompagnassero pubblicamente giovani amanti o avventori. Il pederasta e il suo ammi­ratore preferivano allora le vie solitarie, per sottrarsi ai frizzi e ai com­menti salaci". Dunque, il pederasta e il suo ammiratore: è chiaro ormai che il pederasta è il pederasta passivo, mentre l'altro, l'ammiratore, è l'attivo (non pederasta, non punibile), il Maschio.

Non l'omosessualità è punita (cioè l'amore fra due individui dello stesso sesso), ma la sola passività sessuale del maschio. Tale logica scaturisce da una forma mentis che considera possibili solo due ruoli sessuali opposti: il ma­schile-attivo / il femminile-passivo. Mentre non importa dove il maschio diriga la propria attività (sempre maschio rimane), importante è che non si faccia confusione, che il maschio non pretenda di recitare il ruolo per natura spettante alla femmina.

Questa è la logica di un modello culturale fortemente "ruolizzato", che assegna compiti precisi, cominciando dalla sfera sessuale fino ad rivestire tutti i campi del sociale, agli individui di sesso maschile e femminile. E crediamo di non sbagliare quando affermiamo che il de­viante, chi vive cioè una sessualità deviata rispetto alle regole istituzio­nali, si muove comunque nell'ambito della rigida distinzione del ma­schile e del femminile (attivo/passivo) imposta dalla cultura nella quale sì trova a crescere. Mancando altri referenti culturali, ecco che l'omo­sessuale (o pederasta passivo; biologicamente maschio, cultural­mente femmina) chiama se stesso "arruso" (= puttana), e l'oggetto del suo desiderio non è l'altro arruso, bensì il maschio-maschio (biologica­mente e culturalmente maschio).

È chiaro che il modello proposto non presenta il rozzo meccanicismo che si ricava dai verbali di polizia. Nella realtà le cose sono più sfumate: la possibilità che due arrusi si incontrino e si amino esiste, è reale, è successa. Quello che noi espri­miamo è una tendenza generale del modello culturale, che può anche non coincidere con alcune storie individuali, che comunque non metto­no in discussione il modello stesso.

Dai verbali degli interrogatori agli arrestati, unico racconto in prima persona della loro esperienza, arrivano dettagli utili a conferma del­l'assunzione, nella maggior parte dei casi, di tale logica culturale.

Cominciamo col far notare ciò che non dicono: sono pederasta, non sono necessariamente o esclusivamente passivo, non per questo non mi piacciono i ragazzi o gli uomini, i miei rapporti sono generalmente con altri pederasti, non mi piace avere a che fare con i maschi-maschi.

Una logica così, anche se espressa diversamente (che, se fosse pre­sente in molti di loro, permetterebbe di parlare di comunità omoses­suale risolta in sé), non è rintracciabile.

La maggior parte, intanto, si dichiara pederasta passivo. Chi si dichiara passivo e attivo, essendo sposato o avendo figli, usa, ovvia­mente, la propria attività come discolpa o attenuazione della colpa. T.F,: "pratico la pederastia passiva fin da ragazzo, però smisi. Poi spo­sai, ed ho un bambino"; 3.3. ("a Caprara"): "Sono pederasta passivo, ma anche attivo, tanto che ho un figlio e un amante". Inoltre chi indica i propri amanti li indica fuori dal giro di pederasti, gente conosciuta in strada, in campagna. Potremmo pensare che si tratti di una forma di "sorellanza" (è il questore di Catania ad usare a volte il termine "sorel­la" per indicare un legame di solidarietà), di una volontà di non coinvol­gimento degli altri pederasti: siamo purtroppo costretti a smentire e anzi c'è ragione di credere che la seconda ondata di arresti, a un mese dalla prima, sia potuta avvenire proprio grazie a qualche "spiata" delle "sorelle" arrestate.

Questo il racconto di P.C., arrestato il 13 gennaio 1939 (gli altri saranno arrestati intorno al 14 febbraio), che dopo aver fatto una serie di nomi di suoi amici pederasti, così continua: "Di pederasti ne conosco parecchi, ma non ho avuto rapporti con essi, so che però si riunivano in casa di P.F. oppure in casa di S.S. Quasi tutti i pederasti hanno un amante, il L. aveva un certo C. uomo di mare". E ovvio che il tal C. non è fra gli arrestati, e che nessuno si sogna di indagare sui presunti amanti dei pederasti. Il contrario accade per coloro nominati come pederasti.

Anche a San Domino, dove oltre ai catanesi sono presenti confinati provenienti da Palermo, Salerno, Firenze (in tutto 52 persone), la storia si ripete: da un lato gli "arrusi" e i "femmenella", dall'altro qualche attivo ("a Caprara", un presunto marchettaro fiorentino), i confinati politici anti­fascisti, oltre ai carabinieri di guardia alla colonia. Tali racconti, non riportati ovviamente dai documenti di polizia, giungono fino a noi, oltre che da Pino, anche dal confinato fiorentino citato sopra, che ho incon­trato circa due anni fa, e da "Peppinella", intervistato a Salerno da Giovanni Dall'Orto [4]

E la sala da ballo, per riprendere un discorso interrotto, funziona in egual maniera: i pederasti, i "titoli quotati", e i maschi, i giocatori in "Borsa", con fidanzate e mogli lasciate a casa. Pino, fra l'altro, racconta un particolare non irrilevante: a volte i maschi pagavano l'arruso, quasi a voler annullare la sua essenza di persona (non faccio l'amore con un ragazzo, ma con una "cosa" che compro, che mi incuriosisce e che mi fa divertire).


L'idea dominante è dunque quella che in natura esistono i maschi e le femmine, e che per natura i maschi sono "maschili" e le femmine "femminili". E i pederasti? Da dove vengono i pederasti? La confusio­ne, sia nella polizia che nei pederasti, regna. Indecisi, i carabinieri e il questore, fra vizio e malattia congenita ("S.S., più che invertito congeni­to è da ritenersi pervertito acquisito"; o per contro "Tutto lascia credere che il V. sia un invertito congenito. Per la sua stessa confessione egli da ragazzo ebbe spiccate tendenze a tutto ciò che era donnesco, godeva quando veniva baciucchiato dagli uomini, e solo quando era ad essi vicino"; o ancora "Spirito avventuroso, dedito all'ozio, vagabondo abi­tuale, per invertimento congenito o per pervertimento acquisito, è dedito da molti anni a pratiche pederastiche passive"), a volte, forse nell'estremo tentativo di salvaguardare la società, che non è così "cor­rotta", o la natura, che non dovrebbe "fallire", ci si trova davanti all'idea della malattia da contagio, per cui la pederastia è una "piaga", chi la pratica va via via "snervandosi e abbruttendosi", e bisogna intervenire perché "il male venga aggredito e cauterizzato nei suoi focolai". Idea, questa, non lontana da quei pederasti che dichiarano di aver iniziato a praticare la pederastia dopo aver subito una violenza sessuale anco­ra ragazzi.

La confusione regnante è indice di una distanza certa dal dibattito scientifico che fin dalla fine dell'800 in Europa, e anche in Italia, si svolgeva intorno al problema dell'omosessualità e della sua origine. O comunque di una non corretta ricezione di tali idee, volontaria, pensia­mo, intendendo la volontà di un contesto culturale di non discutere il problema visto che l'omosessuale come "terzo sesso", come terza ipotesi oltre al maschile e al femminile di vivere la sessualità, non esiste, e visto che accettare in pieno l'idea dell'omosessualità come malattia congenita significava trovare soluzioni diverse dalla repres­sione.

Gli stessi pederasti, per impotenza intellettuale e pieni di sensi di colpa, accettano la contraddizione, dichiarando nelle suppliche e nelle lettere alla Commissione d'Appello, di non sapere se sono tali per Vizio o per malattia. Altri negano l'accusa: nessuno che chieda "se siamo malati, curateci". C'è solo una voce isolata di una mamma che chiede la restituzione del figlio, poiché "non è giusto flagellare con severe punizioni chi, piuttosto, ha bisogno di cure". Ma è solo una voce isolata, appunto, a conferma della quasi totale adesione anche alle contraddizioni di un modello che si ostina a negare l'omosessualità, a non prevederla fra i suoi valori (in senso antropologico) culturali.


Nella parte iniziale di questo lavoro, si è parlato di un delitto di un omosessuale, amico degli arrestati. L'ho posto come inizio della vicen­da drammatica dei pederasti catanesi, perché tale lo considero. È chiaro che un numero così elevato di arresti in un'unica città si spiega col nuovo clima razzista e viriloide instaurato dalla politica culturale fascista, o con la particolare cura con cui i carabinieri e il questore servono il Regime; credo però che le indagini per scoprire l'omicida di R.T. contribuirono ad aprire una finestra che fu difficile richiudere, poi­ché mostrò un disordine sociale, un disordine sessuale non completa­mente immaginato...


La conclusione sarà una ricapitolazione, una sistemazione degli argomenti già trattati.

La società catanese ha dunque una visione della sessualità in cui il ruolo dominante-attivo è svolto dagli individui di sesso maschile. Al­l'opposto la femmina in posizione subalterna e passiva. Questa visio­ne è "forte" e non prevede alternative. L'individuo, qualsiasi individuo,

si trova così ad esprimere la propria sessualità in uno o nell'altro ruolo. Chi vive rapporti omosessuali, "sceglie" fra le due uniche alternative: si dichiara, o viene dichiarato, o "maschio" o "femmina" (o attivo o passi­vo, o pederasta o maschio-maschio). Al di là, lo ripetiamo, delle singo­le storie individuali, che comunque non fanno "cultura", non è possibile, secondo me, parlare in questo caso di una cultura omosessuale che si risolva in se stessa, di una comunità che sviluppi valori alternativi al modello eterosessuale.

Riprendendo la definizione di Giovanni Dall'Orto data nell'introdu­zione, mi sembra in realtà che i valori, le nozioni, la mentalità, siano non specifici di una minoranza, ma comuni a tutto il contesto culturale. Non credo che si possa parlare di cultura fermandoci solo sull'esistenza di spazi sociali (che esistono) per un gruppo dichiarato diverso dagli altri, ma che con gli altri condivide lo stesso sistema di relazione con l'ester­no (anche rispetto al campo sessuale, che dovrebbe essere diverso, appunto).

L'omosessuale, a mio avviso, non crea una sottocultura, ma riadat­ta su di sé la cultura eterosessuale, creandosi i propri spazi sociali nei quali vivere.

La devianza, paradossalmente, rientra negli schemi cultu­rali dominanti.

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