Nel paese dei fumetti

5 marzo 2005, "Pride", n. 68, febbraio 2005

Ci volevano l’orso d’oro a Berlino nel 2002 e l’oscar attribuito nel 2003 ad Hayao Miyazaki per La città incantata perché i distributori italiani si accorgessero di come l’animazione giapponese non sia solamente intrattenimento per bambini.
L’uscita nelle sale italiano, il 21 gennaio, del lungometraggio animato di Satoshi Kon, Tokyo godfathers, conferma l’interesse costante degli spettatori per il cinema d’animazione dalle tematiche più “adulte”.
Secondo il regista il film è “una tragedia comica, una commedia tragica”: narra le avventure di tre senzatetto che si aggirano per le strade della capitale nipponica durante la vigilia di Natale per
restituire alla madre una neonata abbandonata tra i rifiuti.
Tra loro c’è il travestito Hana, un tempo impiegato in uno dei tanti locali gay che caratterizzano lo Shinjuku, il quartiere di Tokyo dove la storia prende avvio.


Un mondo di cui abbiamo deciso di parlare con Carlo Lai, cagliaritano di 33 anni, che il quartiere di Shinjuku lo conosce bene.: ha vissuto a Tokyo per sette anni, dal 1995 al 2002, per inseguire il suo sogno di bambino: disegnare i fumetti di Candy Candy!

Carlo, come sei arrivato a stabilirti in Giappone?
Dopo il liceo ho studiato arte drammatica a Parigi, ho fatto l’attore e il ballerino, ma non mi sentivo realizzato.
Ho mollato tutto e sono partito per Tokyo grazie a un lavoro come modello.
A una festa ho raccontato ad una giornalista della mia ammirazione per l’autrice grafica di Candy, Yumiko Igarashi, e dell’aspirazione a disegnare come lei. Incuriosita, la signora scrisse alla Igarashi una lettera di presentazione e un bel giorno bussai alla porta del mio idolo: l’avventura era appena cominciata.

Il tuo caso è più unico che raro…
è vero, credo di essere stato l’unico occidentale al quale sia stato permesso di lavorare a personaggi di manga così famosi formandosi direttamente in Giappone. Ho dovuto infatti frequentare un corso di giapponese per due anni, e un corso di manga molto esclusivo: una vera faticaccia!
Credo che abbia pesato il fatto che sapessi disegnare Candy nello stile esatto della sua autrice.
Per tre anni le ho fatto da assistente: inchiostravo le sue tavole, coloravo i personaggi, le facevo da interprete per il mercato occidentale.

Com’è stato l’impatto con la città e con i suoi abitanti?
Per i giapponesi noi siamo ovviamente molto esotici. Mi trattavano con gentilezza, direi addirittura affettazione. Si complimentavano con me per la mia padronanza della loro lingua, ma poi capitava che, inaspettatamente, si rivolgessero a me in inglese, facendomi pesare sempre e comunque il fatto che fossi straniero (gaijin). Spesso mi sentivo solo: i giapponesi sono un popolo chiuso e nazionalista che impedisce agli occidentali qualsiasi integrazione: non c’è nulla da fare.

Hai avuto difficoltà a dichiararti gay?
Direi di no. Nello studio della Igarashi sapevano tutti di me, tanto che spesso arrivavo al lavoro insieme al mio fidanzato giapponese, col quale sono rimasto per ben sei anni. L’autrice di Candy è molto gay-friendly, sa benissimo che i suoi personaggi sono amatissimi dal pubblico omosessuale di tutto il mondo.
Per il resto, devo dirti che ho molto frequentato il quartiere gay di Tokyo. Dal lunedì al venerdì lavoravo a Candy, nel fine settimana facevo il barista e il dj in una delle più famose discoteche gay della capitale…
E non era il solo lavoro extra che dovessi fare per mantenermi, visti gli esigui guadagni come mangaka (autore di fumetti): ho fatto l’insegnante d’italiano e l’insegnante di cucina italiana. Poi il modello e l’attore; ho fatto radio e televisione…
Devi sapere che i gay giapponesi si dividono in due gruppi nettamente distinti: quelli che amano solo i connazionali, e fuggono come la peste gli stranieri (tanto che molti locali espongono il cartello “japanese only”) e quelli che, al contrario, apprezzano il tipo fisico dell’occidentale, e lo cercano in locali come quello nel quale lavoravo, frequentata da molti gaijin…
D’altra parte, ho conosciuto alcuni gay stranieri che non amano i ragazzi orientali, detestano il Giappone ma ci vivono per ragioni di studio o di lavoro...

Hai fatto amicizia con qualcuno?
I miei amici erano quasi tutti gay, sia occidentali che giapponesi. La mia migliore amica era una ragazza di San Marino; altri italiani non ne ho conosciuti in maniera approfondita.

Come giudichi la realtà gay giapponese?
Molto sfaccettata, ma senza un’identità precisa. L’omosessualità ufficialmente viene tollerata, ma non c’è reale accettazione. Più che l’omosessualità, i giapponesi apprezzano l’ambiguità sessuale, che deriva da una lunga tradizione popolare, letteraria e artistica, che ancora viene rappresentata nei teatri kabuki e takarazuka. Quest’ultimo è famoso perché tutte le parti maschili vengono interpretate da attrici donne, adattando al teatro manga noti anche in Italia, per esempio Lady Oscar.
In televisione in Giappone è tutto un fiorire di personaggi di successo ambigui, travestiti e drag-queen: altro che Platinette!
Il discorso cambia quando il gay ce l’hai in casa, con la sua vita vera, e allora i giapponesi non sfuggono a discriminazioni ed omofobia, come nel resto del mondo…
Il grande successo degli shonen-ai (amori maschili) spiega bene questa situazione: sono fumetti realizzati da ragazze e letti da ragazze, raccontano di storie d’amore tra uomini, ma hanno molto poco a che fare con la vita reale degli omosessuali in Giappone: sono astratti, fiabeschi.

E la visibilità?
La visibilità gay è vista con sospetto. Ho partecipato personalmente al primo Pride tenutosi in Giappone, nell’agosto del 2000. La gente lo disprezzava, veniva considerato una carnevalata di cattivo gusto.
Non c’erano certo reazioni fasciste come da noi, ma non ha spostato in avanti di un millimetro, secondo me, la considerazione dell’omosessualità da parte dei giapponesi.
Non esiste un movimento gay strutturato. I Pride vengono organizzati col passaparola nei locali. Le pubblicazioni gay sono pochissime, più che altro degli “almanacconi” mensili con annunci e pubblicità di feste ed eventi.
Ovviamente sono scritti solo in giapponese, e non esiste nulla rivolto agli occidentali.

Che atteggiamento hanno i gay giapponesi rispetto al sesso sicuro?
In Giappone c’è un atteggiamento di totale superficialità, rispetto alle malattie sessualmente trasmesse, e i gay sono irresponsabili più degli etero. Ti basti sapere che la stragrande maggioranza dei film porno gay giapponesi non mostrano neanche l’ombra di un preservativo…
L’atteggiamento del governo non è molto migliore, l’Aids non è un tabù ma nemmeno un argomento del quale parlare serenamente. Tutti sono convinti che l’Hiv sia un virus che riguarda solo l’Occidente e gli occidentali, e i giovanissimi ne sanno davvero poco.

Dal punto di vista commerciale i gay contano qualcosa?
La moda giapponese degli ultimi anni sembra prendere a modello proprio la realtà gay. Le strade di Tokyo sono piene di giovani maschi dai capelli tinti e dalle facce truccate. Spopola il modello di ragazzo magro, efebico, androgino: sembra uscire direttamente da qualche manga anni settanta di Ryoko Ikeda (autrice di Lady Oscar, ndr). L’effeminato piace molto, perciò si capisce quanto desti turbamento la figura dell’occidentale alto, grosso, magari peloso…
Dal canto mio, me la cavavo abbastanza tranquillamente: essendo longilineo e senza peli mi mimetizzavo bene tra di loro, non sembravo aggressivo.
In ogni caso, essendo italiano, ero visto sempre di buon occhio: i giapponesi adorano l’Italia, o quantomeno l’immagine dell’Italia che gli americani hanno trasmesso loro dal dopoguerra ad oggi: tutta una gran mandolinata! Ci amano per le solite cose: la cucina, la moda e il design, i monumenti, la musica, il sole tutto l’anno… E dire che ora sono accanto alla stufa accesa, ho tre felpe addosso e ho il gatto in grembo per scaldarmi!

La tua omosessualità ha influito nel lavoro di disegnatore di fumetti?
Esiste una sensibilità gay?
Non mi ha chiuso porte, né me ne ha aperte… Di me si sapeva, ma i giapponesi sono un popolo riservato, non amano parlare della vita privata, propria o altrui.
Lavoravo ai personaggi di Candy Candy perché da piccolo colpivano la mia immaginazione, mi sono rimasti nel cuore. Sta di fatto che quei personaggi piacciono ai gay perché raccontano storie romantiche, strappalacrime. Erano cartoni animati innovativi per l’epoca. Invece che giocare a calcio preferivo rifugiarmi nelle avventure di quelle eroine che sentivo vicine alla mia sensibilità: tutta la generazione dei trentenni c’è passata…
Senza Candy, della quale quest’anno ricorre il trentennale dalla sua creazione, in ogni caso, non sarei stato tanto tempo in Giappone e ora non parlerei correttamente una lingua.
Ora vivo a Milano. Lavoro come interprete per aziende nipponiche e faccio da tutor ad alcuni bambini giapponesi in visita in Italia...

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