Intervista ad Aldo Cassano

(compagnia teatrale Animanera)

Aldo Cassano, uno dei fondatori della compagnia, ci spiega il metodo altamente elaborato che vive dietro le loro performance sperimentali e di rottura, che rende il teatro una continua formazione e sperimentazione. Dove è nata l'idea e cosa significa il vostro nome?
Il tutto è nato da un incontro casuale. Dovevamo darci un nome per partecipare a un festival. Giaceva un romanzo sulla scrivania e si intitolava "Anima nera". Era un periodo in cui andava di moda vestirsi di nero. Ma sostanzialmente il nome evoca un aspetto esistenzialista, drammatico e andava veramente bene con quello che avremmo messo in scena nel festival, uno spettacolo di Jarman sull'AIDS. Il nome poi è particolare e si ricorda bene. Tutto questo avveniva nel 1996.

Nella vostra presentazione viene scritto che siete nati "dall'area critica dell'impegno sociale milanese": che cosa intendete per area critica, in un momento in cui la città vive momenti di afasia e apatia diffusa e generalizzata?
Nasciamo nei centri sociali. Abbiamo fatto spettacoli con le ragazze e i ragazzi che costituiscono i centri sociali. Le nostre prime performance sono nate in quei contesti, condividendo un'esperienza interessante. "Mito trito" è stato uno degli spettacoli fatto nei e con i centri sociali. L'impegno sociale è nella nostra natura, comunque, come testimoniano i temi che trattiamo nei nostri spettacoli: dall'AIDS alla Resistenza, dal disagio giovanile all'omosessualità, vista anche nell'accezione di passione romantica, alla genetica, al tema del potere. Partiamo sempre da un tema.

Appena costituiti, nel 1995, vi siete dedicati alla ricerca "che sfocia in rischiose autoproduzioni su scottanti temi sociali, seguendo una linea estetica altamente provocatoria": penso che in questa frase ci sia tutta la poetica del vostro progetto culturale... in dettaglio, cosa intendete proporre?
I temi scottanti sono quelli che ho riportato sopra. Il nostro linguaggio non è convenzionale, non è quello classico di contrapposizione frontale palco/poltrone. Insceniamo altri modi di interazione: per esempio mettiamo lo spettatore nel letto con l'attore, una delle tante performance che abbiamo fatto. Le nostre rappresentazioni si ambientano in molti luoghi diversi: sotto i ponti, nelle piazze, negli ambiti istituzionali, negli scantinati, al Ponte delle Gabelle a Milano. I temi vengono affrontati in modo viscerale sotto nuove forme di rapporto con lo spettatore. Occorre andare oltre le convenzioni con forme di rottura non violente. Utilizziamo forme più sorprendenti per arrivare a immagini non convenzionali. Per esempio mettiamo lo spettatore a spiare attraverso una fessura una persona che si sveste, utilizziamo stanze segrete, dove lo spettatore diventa incerto e instabile attingendo a uno stato sensoriale diverso.

Quale è, oggi, il ruolo e lo scopo della drammaturgia in un'epoca della superficialità e dell'effimero, del non pensiero, dell'omologazione, dell'adeguarsi alla sottocultura massiva?
Le nostre drammaturgie sono pressoché originali. Nessuna nostra drammaturgia parte da niente, ma cerchiamo di comporre immagini, scritti diversi, suoni: una ricomposizione che avviene in un secondo piano, un puzzle che dà una nuova vita ai pezzi elaborati. Tutto questo non è centrale è uno dei modi di comunicare. Il nostro non è teatro di parola e spero che possa scuotere le coscienze facendo riflettere da un punto di vista diverso da quello convenzionale. Ci soffermiamo molto sulla visione del sommerso e dell'occultato, di quello che fa paura, o di chi è debole. Trattiamo temi sulla diversità fisica, mentale, sessuale.

Avete una capacità di estendere la vostra produzione a persone nuove che trovano nel vostro contesto un laboratorio di ricerca continua. Cosa significa che vi "autoproducete"?
Siamo da solo un anno circa che siamo riusciti ad avere sostegno anche da parte delle istituzioni. Prima era tutto a carico nostro: le spese, il finanziamento della nostra attività, la promozione, la produzione. Ma soprattutto le maggiori risorse derivavano e derivano dal laboratorio che abbiamo istituito.

Ho osservato in voi la volontà di rappresentare temi sociali con una capacità metaforica ed estetica fortemente avvincente. Quali sono state le vostre ultime produzioni?
Il 23, 24, 25 maggio siamo stati alla Triennale con la rassegna "In contemporanea", che riguarda il randagismo trattandolo dal punto di vista del sentimento della rabbia e dell'essere catturato da un momento all'altro, che trova come scenografia la presenza di un attore dentro in una gabbia. In secondo luogo abbiamo presentato "Non dimenticar le mie parole" il 31 maggio in Piazza Affari. Quest'ultima performance tratta della vita di strada durante la seconda guerra mondiale e prevede come parallela la storia di Coppi, che fu deportato: una delle prime storie di costume all'interno di una società perbenista. Abbiamo intenzione di rappresentare anche qualche produzione sulla femminilità e sul martirio non solo dal punto di vista religioso, ma anche come sacrifico della vita per il reale: esiste un parallelismo tra religione e teatro.

Spesso coinvolgete gli spettatori nelle vostre performance. Come nel vostro spettacolo "Metempsychosis", dove eroi e miti raccontano la propria vita allo spettatore che si sdraia vicino ad ascoltare. Che cosa avete voluto trasmettere in questa rappresentazione, dove il pubblico diventa parte attorno cui si esplicano narrazione, scenografia, struttura estetica, trama?
La nostra sperimentazione consiste nel rapporto esistente tra spettatore e autore. In base al tema decidiamo come rappresentare e come definire questo rapporto. Per esempio se insceniamo il potere mettiamo lo spettatore davanti alla necessità di superare determinate prove di diversa entità e anche abbastanza complesse, chiamiamo questo come "il gioco delle prove", fino a raggiungere l'obiettivo che consiste nel raggiungere una determinata stanza segreta. Ricerchiamo sempre la formula ideale per garantire una giusta fruizione del tema, basandoci sulla sociologia, la comunicazione e l'istinto, a seconda del soggetto che andiamo a rappresentare. "Lettere a Oreste", per esempio, è una rappresentazione classica e riguarda la storia di un processo. Noi abbiamo pensato di adottare una scenografia dove gli attori sono in un letto nudi, sinonimo di apertura totale nella visibilità, e dove il pubblico posto al centro si trova molto vicino tanto da essere costretto a esprimere un giudizio necessario quanto vincolante. Ci sono state diverse reazioni: alcuni si giravano, altri guardavano, altri ancora sorridevano. Esiste nella nostra produzione un continuo feed back, una ricerca continua, una rivisitazione anche in base alle reazioni che provengono dal pubblico: uno studio sociologico, psicologico.
Il nostro pubblico, poi, è molto eterogeneo sia per età, anche se prevale una componente giovanile, sia per professione, sia per esperienze.

Esiste in "Metempsychosis" come anche in "Smitrotito Vol II" una visione distaccata dell'eroe nei riguardi della contemporaneità. Che cosa il teatro, l'arte in generale, l'immaginario estetico può garantire alla formazione di una rinascita dell'essere umano e della sua dignità, anche attraverso i laboratori che tenete? Perché oggi è importante fare teatro?
Risponderò facendo riferimento ai nostri corsi, appunto, che è un'esperienza concreta.
Nei laboratori che teniamo ci basiamo a livello metodologico sul teatro russo contemporaneo, coniugando questo elemento con l'evoluzione dei tempi. Il nostro obiettivo consiste nel liberare la persona dal quotidiano, dalle convenzioni, dagli schemi. Occorre trasferire le basi fondamentali dello stare in scena, del dialogo, della conversazione, della mimica corporale. Occorre togliere la struttura, tornare a essere puri, esaltando e scoprendo la biologia di ciascuno. Non vogliamo attori modelli, ma vogliamo valorizzare le caratteristiche attrattive, comunicative, efficaci che ognuno detiene e che in ognuno di noi sono presenti. Sono caratteristiche latenti o esplosive. La nostra è un'arte maieutica, ponendo attenzione al singolo. Il lavoro di gruppo esiste, sussiste per costruire fiducia totale e sentirsi liberi. Occorre costruire una confidenza con il pubblico. La nostra formazione deve invitare la persona a confrontarsi col mondo e non rinchiudersi in un autoreferenzialismo. Abbiamo centinaia di allievi dai 20 ai 40 anni. Sono studenti, lavoratori o entrambi. Tutti hanno un'inclinazione psicoanalitica, ma non voglio fare leva sul metodo terapeutico. Puoi avere certamente un beneficio interiore dai nostri corsi, ma non è questo lo scopo principale, laboratoriale, artigianale. Occorre attivare una dedica reciproca e totale.

Cosa vi garantisce la multidisciplinarietà? Peter Brook dice che uno spettatore deve uscire da teatro con una sensazione di appagamento come un cliente esce fuori da un ristorante quando la cucina è stata buona...
La multidisciplinarietà è così: strumento ideale al momento ideale. Gli strumenti che stimolano diventano loro stessi attori in primo piano. Occorre una ricerca continua e preliminare per cercare qualcosa di altro di già visto e messo in scena.
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