Rocco e i suoi fratelli

23 settembre 2012

Nel 1960, dopo lo scandalo de La dolce vita la censura italiana trova pane per i suoi denti nelle disavventure di questa famiglia lucana nella Milano del miracolo economico.

Come nel caso di Ossessione e di Senso, l’eros e il desiderio (ben più che l’amore e la sentimentalità) costituiscono la spina dorsale dell’intreccio, il movente principale dei personaggi e la causa scatenante del dramma. Costituiscono anche uno dei nodi principali che condizionano la ricezione del film. Ma curiosamente censura e magistratura inveiscono contro una scena innocua come il risveglio della prostituta Nadia dopo la prima notte con Simone, e contro le scene più violente del film (lo stupro alla Bovisa, la colluttazione dei due fratelli immediatamente successiva, l’accoltellamento di Nadia), ma non contro quelle che coinvolgono Morini, il manager che circuisce Simone approfittando della sua caduta.

Visconti aveva cercato per mesi un personaggio capace di rappresentare qualcosa di nuovo per il cinema italiano. Ed è nelle pagine dei racconti di Testori contenuti ne Il ponte della Ghisolfa e La Gilda del MacMahon che Visconti trova la soluzione: quella di orge legate al mercato della pornografia omosessuale organizzate dall’alta borghesia urbana. Un’idea che sopravvive in varie redazioni preliminari, ma che mai avrebbe potuto superare la censura.

Morini viene dunque progressivamente semplificato, ma non perde nulla del suo potenziale scabroso, anche se la scena chiave, che si svolge a casa sua, è connotata da una moralità tradizionale, soprattutto mediante un’illuminazione e una musica inquietanti. È proprio questo a spiegare perché, se il pubblico della prima manifestò dissensi suscitando viceversa il plauso dei sostenitori del regista, la censura non ebbe nulla ridire, così come la maggior parte dei recensori: l’omosessualità vi sembrava condannata, e legata a un personaggio alto-borghese traviatore dei poveri proletari. Poteva dunque soddisfare il moralismo tanto della destra cattolica quanto della sinistra comunista.

All’interno di uno dei suoi film più rilevanti, Visconti offre dunque allo stesso tempo un personaggio innovativo e una connotazione reazionaria riproponendo in forma accentuata l’ambiguità che segna la maggior parte delle sue rappresentazioni dell’eros.

Pur assecondando il proprio gusto per lo scandalo e forzando i limiti convenzionali del repertorio ancora ristretto di ciò che era consentito rappresentare, in Morini si direbbe che Visconti intendesse allo stesso tempo rappresentare l’altro da sé compiacendo le posizioni del suo partito di riferimento (quel Pci che quello stesso anno, tramite il suo quotidiano, fu in prima linea a fomentare lo scandalo bresciano dei “balletti verdi”). Non per negare la propria omosessualità, che era notoria, ma per distinguersi dalle forme più visibilmente condannate dalla società tramite la commistione con la cronaca nera e all’ombra di saperi forti, rischiando così di offrire conferme agli spettatori avvezzi agli stereotipi diffusi dalla stampa.

Per chi volesse approfondire, rimando al mio libro Poetica e prassi della trasgressione in Luchino Visconti. 1935-1962.

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