The Trip

4 febbraio 2013

The Trip è un film che lascia perplessi. Inizia come una commedia, continua come un dramma, si trasforma improvvisamente in un road movie e finisce in tragedia. Potrebbe sembrare la descrizione di una struttura narrativa originale e spiazzante, e invece è tutto prevedibile dalla prima all’ultima sequenza. Letteralmente: è presto chiaro che il film finirà con il riscatto di Alan in una scena in cui questi presenterà con successo il suo nuovo libro.

Il problema è che si tratta di un film nello stile festivaliero (gay, ovviamente) più classico, partorito in ritardo di dieci anni. Insomma una di quelle favole sul grande amore, per intenderci, con un po’ di (melo)dramma militante, situazioni e battute da osteria gay, qualche professionista qua e là e, finiti i soldi, scarti dilettantistici rimediati alla meno peggio che danno colore con macchiette risapute (Alexis Arquette qui non prova nemmeno a impegnarsi).

The Trip formalmente è più rifinito della media, ma nell’insieme l’esito è il medesimo di tanti altri film gay che abbiamo visto ma non ricordiamo più, e non per colpa nostra. Il fatto che il suo regista sia poi sparito dalla cicolazione e che il film abbia vinto premi solo al Rehoboth Beach Independent Film Festival e al Dallas OUT TAKES (festival che abbiamo tutti il diritto di non conoscere) può solo confermare le impressioni iniziali.

La commedia è un po’ smortina ma tutto sommato fa quello che deve fare, diverte. Soprattutto nella cena di fronte all’amica post-sessantottina e quando la madre solidale irrompe nella stanza trovando figlio e amante in déshabillé.

Il dramma invece è troppo scontato per ottenere l’effetto traumatico che vorrebbe sortire nell’economia del racconto: sin da quando Alan firma il contratto si comprende cosa accadrà, sicché quando finalmente accade davvero vagoliamo nell'indifferenza. Allo stesso modo, Peter è troppo poco credibile per funzionare come antagonista e il suo interprete Ray Baker non convince né quando deve fare il repubblicano arrogante né quando si trova inserito in un contesto comico, anche perché ha la flessibilità di uno Schwarzenegger in miniatura.

Non basta a compensare queste debolezze il tentativo di collocare gli eventi sullo sfondo della (nostra) storia, con immagini di repertorio di Harvey Milk o Anita Bryant, che conosciamo tutti molto bene e che è facile usare per muovere a compassione (c’è davvero qualcuno capace di non avere un orgasmo al pensiero del fallimento artistico e umano di Miss Oklahoma 1958?).

La parte più debole è comunque la seconda, cioè il road movie cui fa riferimento anche il titolo (che gioca ovviamente al contempo sul consumo di droga che fa prendere coscienza ad Alan di essere ciò che è). È infatti proprio il viaggio a essere poco convinto: un po’ di biacca su un corpo sano non fa un malato di AIDS all’ultimo stadio più di quanto un paio di luoghi comuni sull’universo non facciano filosofia, tanto che la morte di Tommy lascia indifferenti. E lo dice uno spettatore ideale del melodramma, capace di versare pavlovianamente calde lacrime al solo sentir nominare Bambi.

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