Parturietur mons, nascetur ridiculus mus

26 marzo 2013

Già per un romanzo storico quale vorrebbe essere questo è un pessimo biglietto da visita la didascalia della cartina posta subito dopo il frontespizio: “Roman Empire at the time of Hadrian, 116 AD”; mappa non pescata da chi sa quale sito farlocco ("da Wikipedia”, direbbero i tuttologi televisivi di casa nostra), bensì ottenuta per “courtesy of the U.S. Military Academy Archives”, senza che nessuno si sia accorto che a Roma nel 116 ancora regnava Traiano: né i militari U.S.A., i quali vedemmo d’altronde bombardare Saddam Hussein scambiandolo per Bin Laden, né l’autrice, che pure ambienta il libro alla corte di Adriano e lo qualifica come romanzo storico. “Le date sono gli occhi della storia”, ripeteva il mio prof del liceo; la McDonald, purtroppo, è andata a scuola altrove.
In realtà costei, dal momento che dopo la Yourcenar scrivere un romanzo su Adriano sarebbe temerario quanto comporre un poema sull’aldilà dopo Dante, aveva scelto accortamente di scrivere un’autobiografia di Antinoo, figura storica su cui non si sa quasi nulla di concreto, e sulla quale perciò si può lavorare liberamente di fantasia. La Yourcenar però aveva accompagnato ad un lungo lavoro erudito una capacità esemplare d’immergersi nella civiltà dell’età adrianea, la quale si riverbera perfino nel suo francese, che respira quasi a mo’ di latino o di greco di età imperiale; la McDonald invece resta la classica scrittrice industriale, persuasa che basti leggere un po’ di saggi e di autori, tutti tradotti in inglese, per concepire un’antichità credibile: e qui la supponenza si mischia con l’ingenuità.

Per giunta, i debiti verso i suoi autori di riferimento sono quanto mai trasparenti, come suole accadere con le letture poco assimilate. Quando Antinoo si avvede di quanto l’Urbe sia rumorosa, cita il vecchio Carcopino; quando deve fare per la prima volta all’imperatore quello che nella lingua dell’autrice sarebbe un blow job, si ripassa mentalmente Kenneth Dover, ridicolizzando ulteriormente una situazione già piuttosto ridicola; invece si ripassa Eva Cantarella quando sta per fare una sveltina con la giovane schiava barbara; e quando va dalla strega di Canopo fa il riassunto della Yourcenar, forse senza rendersi conto che l’episodio non è nemmeno un fatto storico. Ovviamente, perciò, la McDonald conta sul fatto che i suoi lettori siano un branco di minus habentes.

In compenso, sfoggia una considerevole political correctness: il suo Antinoo ragiona come un bravo cittadino democratico, cui presto vengono in uggia la monarchia, la schiavitù, i rapporti pederastici. Spunta financo una scintilla d’orgoglio celtico, quando la schiava barbara mostra di gradire poco l’assalto di Antinoo: ora, a parte il fatto che solo un malato mentale grave si rifiuterebbe di fare sesso con Antinoo, questa scribacchina d’oltreoceano forse confonde gli atleti di casa sua coi barbari di allora, irsuti, goffi, semiferini, mal coperti di pellami conciati a mezzo, puzzolenti di sego rancido, sporchi, coi capelli arruffati ed unti e le barbacce ispide luride di cervogia e carne abbrustolita. Sicura che il suo mondo sia il più giusto e il più sano, questa sciocca discendente di barbari non tenta nemmeno di capire quello che fu il nostro, svelando che per lei l’antichità non vive nella sua sensibilità quotidiana, non rappresenta una parte viva e attuale della sua cultura, ma rimane una curiosità esotica.

Ovvio che chi ha d’un’epoca una conoscenza raffazzonata e di seconda mano, prima o dopo incappa in qualche svarione ben peggiore degli orologi da polso nello Scipione l’Africano di Carmine Gallone, soprattutto se, come qua, ragione in inglese anziché in greco. Ecco dunque che parla di weekend; ecco che la madre di Antinoo si chiama Iride “come la dea dell’arcobaleno”, precisazione ridicola in bocca ad un grecofono qual era Antinoo stesso; ecco che menzionando “a hippopotamus” chiosa “which Herodotus called a river horse”, ignara che “river horse” e “hippopotamus” sono la stessa cosa. Ecco che quando deve inventare un nome romano accozza un azzardo prosopografico come Gracchus Lucius Marcus, pretendendo pure che sia un nome patrizio, come se ormai gran parte della nobiltà senatoria in età imperiale non fosse stata di famiglia plebea, quando non addirittura servile – e plebei, ad ogni modo, erano anche i Gracchi. Proprio questo Marcus, poi, fa una battuta sui cristiani divorati dai leoni, quasi che la damnatio ad bestias, come nei polpettoni alla Quo vadis?, a quel tempo fosse stata la pena tipicamente inflitta ai cristiani; ma a parte il fatto che le persecuzioni fino all’età adrianea erano state poca cosa, la pena menzionata da Marcus poteva riguardare, tutt’al più, e senz’applicazione sistematica, qualche cristiano di condizione servile o peregrina.

Insomma, la storia fa cilecca e la libera fantasia altrettanto. Povero Antinoo e povero Adriano! Romanzo storico? Totò direbbe: “Ma mi faccia il piacere!”.

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