È semplicemente amore

9 luglio 2013

A un certo punto in questo romanzo si rievocano gli anni precedenti a quelli in cui si collocano le vicende narrate, quando il protagonista Tommy, prima di trasferirsi dalla Sardegna a Torino, aveva intrapreso una carriera di scrittore punteggiata da vittorie nei concorsi più o meno modesti organizzati nella sua zona; ma per ironia della sorte Max Bosso con questo libro, in cui getta sulla pratica dei premî letterarî uno sguardo alquanto disilluso, ha proprio vinto un premio letterario intitolato ad Italo Calvino. Un tempo nella buona società si raccoglievano le corone di sonetti, gli spicilegi d'epigrammi, le raccolte di fiori poetici, i giardini di versi sacri e profani; oggi che trovare qualcuno capace di metter insieme un endecasillabo che non zoppichi rappresenta già una perigliosa impresa, figurarsi se non si ripiega sui concorsi di narrativa: ai racconti si può applicare quel che le Cinesi del Metastasio dicevano del ballo: ognun ne gode, ognun se ne intende. Però poi, alla prova dei fatti, si scopre che non è del tutto vero: scrivere narrativa è anzi più difficile che comporre un sonetto, dove le maglie strette della forma e le sedimentazioni del linguaggio tradizionale soccorrono alle falle dell'ispirazione o delle virtù espressive; nell'oratio soluta capita invece spesso di dover lavorare senza guida e, soprattutto quando si è autori esordienti, subentrano l'ansia e l'impeto di raccontare troppe cose. Nel romanzo di Max Bosso le idee non mancano di sicuro; sono appunto, anzi, probabilmente soverchie. Non riesco invece a trovare coinvolgente la scrittura: ho ricevuto infatti una continua impressione di stile innaturale, sforzato, da corpicino gracile che indossi un'armatura da parata, carica di animali araldici cesellati, fregi, pennacchi e rotelle, sotto il cui peso il passo si fa presto affannato e storto. Abbondano i tropi, abbondano i traslati: ma se i retori antichi diffidavano delle mescolanze di registro non parlavano invano; alternare i registri, o addirittura fonderli lasciandoli scivolare uno sull'altro, è impresa molto ardua: e qui mi si permetta di affermare che in Bosso la fusione non si crea mai, e l'alternanza suona quasi sempre sforzata. Io non riesco a godere d'un romanzo in cui si usano metafore ardite o torsioni lessicali ma, senza un briciolo d'ironia, si parla di noiosi malesseri esistenziali e corporei del protagonista, delle sue mancate erezioni, delle sue paturnie da zitella ipocondriaca (un ventenne che si sente sempre la febbre come questo nullafacente di poco talento artistico e di nessun talento mondano, lo prenderei a sberle; mancano solo gli svenimenti da signorinella pallida del tempo dei nostri bisnonni): quanto all’amore per il maghrebino Said, che sboccia durante un’alquanto irrealistica reclusione dei due nell’appartamento di Tommy per una serie di fatti che il lettore volonteroso saprà scoprire da sé, mi pare proprio il grande assente in queste pagine. Non ho trovato insomma né l’amour fou che tutto travolge come una tempesta fisica ed emotiva né il desiderio tenero d’intimità col corpo e l’anima dell’Altro, la brama di fusione, la volontà d’incontro. Non sono di fatto considerate, evocate e rappresentate nemmeno le barriere culturali tra Tommy e Said, con le infinite possibilità di frizione o d’arricchimento reciproco. Tutto resta in superficie, perché la visione egocentrica del protagonista si presenta piena d’immagini ma povera d’espressione profonda e sentita. Per lui è semplicemente amore, per me è semplicemente noia.
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