Mikaël, un classico da riscoprire

11 agosto 2013

Sovente descritto come l’Oscar Wilde danese, Herman Bang, oltre a essere stato un celebrato regista teatrale, è a tutt’oggi considerato uno dei più importanti scrittori scandinavi, anche se in italiano è disponibile solo una scelta limitata dei suoi scritti. In realtà nemmeno la Danimarca ne ebbe a suo tempo gran cura: Bang fu infatti attaccato ferocemente dalla stampa per la sua omosessualità, di cui non parlava volentieri ma che il suo vistoso dandismo certo non occultava. Anche nella sua opera, pur ritenuta scandalosa fin dal suo esordio che gli costò un processo, Bang ha sempre evitato di affrontare direttamente l’argomento, salvo che in un breve saggio del 1907 ma pubblicato solo postumo e pesantemente influenzato dalle teorie mediche del tempo. In compenso, l’omosessualità è sempre stata al centro (più per perfidia che per apertura mentale) della sua fortuna critica ed è filtrata in varie sue opere, in chiave più o meno autobiografica.

È questo soprattutto il caso del romanzo Mikaël, pubblicato nel 1904. Se infatti nella maggior parte della sua produzione letteraria Bang ha posto al centro personaggi femminili, in Mikaël analizza invece il rapporto fra un artista di chiara fama, Claude Zoret, e un giovane modello dalla bellezza ideale, Mikaël. Siamo dunque entro quelle convenzioni dell’amor socratico con cui Bang (come molti della sua generazione) idealizzava l’esperienza omosessuale, per convinzione o per comodità poco importa. L’aspetto erotico del legame fra Zoret e Mikaël va dunque cercato dietro il paravento di più convenzionali rapporti fra maestro e allievo, artista e modello, padre e figlio putativo, come accade in una lunga teoria di opere simili di quegli anni, da Il ritratto di Dorian Gray di Wilde a La morte a Venezia di Mann.

Si tratta comunque di un paravento alquanto sottile, che è facile scostare fin dalla scena d’apertura, nella quale facciamo la conoscenza simultaneamente di Zoret e di Mikaël. I due discutono in un momento di distensione che lascia tuttavia intravedere le crepe che infrangeranno il loro rapporto a partire da quella stessa sera, a causa dell’intrusione di una nobildonna russa decaduta, la principessa Zamikof. Benché Mikaël sia spesso descritto lungo tutto il romanzo come infantile, Zoret si accorge che nei cinque anni trascorsi dacché lo ha incontrato è ormai cresciuto:

Era diventato così robusto nelle braccia, e il corpo ora era muscoloso. Ormai era un uomo. Erano ben altre le forme che il Maestro aveva disegnato quando l’aveva ritratto come Alcibiade o nel dipinto La Vittoria.

Il rimando al bellissimo allievo di Socrate non è ovviamente casuale: l’accortezza con cui Bang fa notare che Zoret lo ha ritratto con i lineamenti di un Mikaël ancora adolescente funziona come un invito inequivocabile a leggere il rapporto fra i due alla luce del Simposio platonico (cui ad esempio ricorre ripetutamente anche Mann nella sua Morte a Venezia). Solo così si chiarisce il senso più pieno dell’epifania di Zoret relativa al corpo di Mikaël e i suoi ripetuti tentativi, consci e inconsci, di allontanare da sé Mikaël che confondono l’allievo che ribatte con la cosa che a lui stesso pare la «più strana»: «il mio corpo non può essere trattato come gli altri». L’epifania è dunque quella del pais che non è più tale e che pertanto, come da tradizione greca, ha superato i limiti convenzionali di una lecita relazione pederastica. L’intero confronto fra il maestro e il modello sarebbe altrimenti in larga parte criptico nel suo porre continuamente al centro il corpo del giovane, anche quando il tema insegue gli aspetti più idealizzati dell’arte, come l’immortalità ch’essa garantisce. «È il mio corpo che viene dipinto», precisa Mikaël parlando «come si vergognasse». Una vergogna che affiorerà a più riprese di fronte alla sua nudità ripetutamente ritratta e quindi «nota a decine di migliaia di persone». Una vergogna che segna l’accesso alla maturità e la cacciata dal paradiso del maestro.

Nel flashback che rievoca il loro primo incontro veniamo inoltre a sapere che Mikaël si era presentato a Zoret con i suoi schizzi per avere un giudizio, ed erano schizzi di frammenti di anatomie femminili, immaturi sia artisticamente sia sessualmente (nel loro alludere a un feticismo in attesa di compimento). Mikaël sa dipingere solo donne, Zoret solo uomini: sarà infatti Mikaël ha concludere il ritratto della Zamikof che non soddisfa il maestro, ed è questo atto simbolico a segnare ulteriormente la fine della loro relazione, tanto sul piano sessuale quanto su quello artistico (Zoret trionfa ancora con la sua nuova opera, ma dall’intero romanzo si ricava l’idea crepuscolare che si tratti di un pittore attardato sul neoclassicismo in un momento in cui stanno affiorando nuove correnti tra i giovani: me lo immagino come una sorta di Jean-Léon Gérôme circondato dall’impressionismo aurorale).

Lungo tutto il romanzo l’aspetto erotico del legame fra Zoret e Mikaël è ripetutamente suggerito mediante analoghi rispecchiamenti nell’arte, e in particolare nei lavori di Zoret che segnano le diverse tappe dell’evoluzione del legame con il pupillo. In più si aggiunge il triangolo che lega i coniugi Adelsskjold e il barone Monthieu, chiaramente inteso, fra l'altro, a suggerire un parallelismo con quello che si viene a creare quando fra Zoret e Mikaël si insinua la Zamikoff (non a caso Adelsskjold è anche lui un artista).

Mikaël tradisce su tutti i piani: inganna il padre e si emancipa; tradisce i nobili ideali estetici del maestro, pensando solo al guadagno; e ovviamente a Zoret preferisce un delirio sensuale e languido fra le braccia della Zamikoff. Zoret invece sublima dapprima dipingendo il Cesare, con il germanico anonimo ovviamente incarnato di Mikaël che lo ferisce ma «non è consapevole del suo gesto», e quindi con il suo ultimo capolavoro, un Giobbe solo e vecchio in cui si rispecchia, affiancato in un grande trittico dalle figure di una giovane coppia trionfante.

Ma Mikaël non tradisce solo per immaturità, infamia, o semplicemente per soddisfare le proprie esigenze sessuali: tradisce anche per risentimento, perché non comprende il tentativo di Zoret di respingerlo affinché diventi infine indipendente. E in questo duplice gioco, solo apparentemente incoerente, di repulsione e attrazione, di odio e amore, di nostalgia e vendetta, si consuma la parte più profonda e più suggestiva del romanzo.

Gli esperti di Bang non considerano Mikaël il suo esito più riuscito, ma si tratta in ogni caso di un romanzo molto sottile, dalla costruzione a tal punto meticolosa da rivelarsi in tutta la sua precisione solo a una seconda lettura. Lo stile impressionista di Bang, fondato su un narratore onnisciente ma non intrusivo (che si limita a osservare i personaggi formulando al più ipotesi sulle loro intenzioni) e su un ampio ricorso al dialogo diretto, nella prima parte getta il lettore nel mezzo di una complessa mischia di personaggi e in un turbinio di discussioni apparentemente casuale. Il disorientamento tuttavia svanisce se si rileggono queste pagine a posteriori, poiché si può allora apprezzare appieno il modo in cui preparano puntigliosamente tutti gli elementi tematici, simbolici e poetici che nutrono il resto del romanzo, nelle sue linee portanti così come nei dettagli più minuti. Senza di esse le sequenze corali e meglio orchestrate non sortirebbero il loro effetto: quella, centrale, della serata a teatro, dove i due triangoli, già sofisticati, trovano un’ulteriore eco ironica sul palcoscenico, dove si rappresenta un adulterio; e quella del trionfo della nuova opera di Zoret, il quale tuttavia ha pensieri solo per Mikael assente, di nuovo in parallelo con la madre di Monthieu che cerca inutilmente il figlio, che non sa impegnato in duello.

Onore al merito a Lubrina per la scelta raffinata di offrire finalmente al lettore italiano la possibilità di leggere questo romanzo di Bang, che non era mai stato tradotto prima. L’edizione è accompagnata da una serie di incisioni di Mirando Haz che, anziché illustrare didascalicamente il romanzo, ne interpretano il tono e il senso, portandone a loro modo in superficie proprio il substrato omoerotico, non senza sfumature camp (a me fanno pensare a uno Chagall in salsa espressionista anziché surrealista). Peccato solo per l’inelegante autocelebrazione che lo stesso Haz si concede nell’introduzione, per mediazione di Argan. Ma forse eccedo in severità, influenzato dal fatto che Argan domina ancora gli incubi di molti liceali della mia generazione.

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