Io le calze le preferisco un po' più velatine

22 agosto 2013

Gli americani hanno sempre avuto un notevole cattivo gusto in campo pubblicitario, col quale hanno contagiato, purtroppo, anche noi: quando uscì questo romanzo di Gore Vidal, un giornale d'oltreoceano scrisse che era il suo migliore; e l'editore Fazi, con notevole spregio del ridicolo, stampa l'elogio in quarta di copertina. Peccato che un lancio pubblicitario tramite terza pagina nel 1952, riportato tale e quale più di mezzo secolo dopo, e dopo che Gore Vidal aveva scritto ben altro, non renda giustizia né allo scrittore né al New York Times, e tantomeno all'intelligenza di chi imbastisce simili baggianate promozionali. Ma ormai i libri di vendono come se fossero mutande, pappa per gatti o comò di truciolato.
Il giudizio di Paride piace a molti. A me, che mi ci sono imbattuto dopo altre letture vidaliane, però, esso è sembrato piuttosto acerbo: del resto, fu scritto quando l'autore aveva ventisei anni. Mentre nelle opere più mature la costante vena satirica e l'impulso che si potrebbe definire saggistico si presentano rifusi nelle opere narrative con scioltezza, qui traspaiono allo stato grezzo: la satira così diventa sovente farsa o sarcasmo insistito, e i discorsi sulla politica o la religione prendono un tono didascalico e saccente, oltre a costituire a volte fastidiose zeppe che s'intrudono nel flusso del racconto. Qui dunque ho l'impressione che Vidal, come succede a volte agli scrittori molto giovani, non riuscisse a controllare sempre l'impeto di voler dire tutto e subito. E tuttavia si tratta pur sempre di Vidal, non d'uno scrittorucolo qualsiasi: la zampata del tessitore infallibile di dialoghi, l'inventiva nell'escogitare situazioni surreali, l'incisività del ritrattista caustico, il brio del narratore impertinente vengono a galla molto spesso, e rendono la lettura di quest'opera molto imperfetta, a conti fatti, alquanto gradevole.
Bisogna anche riconoscere che, per un'opera scritta nel 1951 e pubblicata subito dopo, vi si parla di omosessualità in modo copioso e disinvolto. Certo, al protagonista piacciono soltanto le donne, con una certa inclinazione, anzi, da dongiovanni; ma s'imbatte di continuo in personaggi omosessuali, tra cui non si sente a disagio se non quando, come invero accade con una certa frequenza, si tratta di fenomeni da baraccone; peraltro, di fatto, il tipo frequenta più froci che femmine, e quando finisce nei loro giri non pare tanto vago di svincolarsene: si vede che, tutto sommato, l'ambiente gli garba, o quantomeno lo mette di buon umore. Ad essere onesti, però, sotto questo profilo Vidal si mostra parecchio sciovinista: gli unici gay sostanzialmente positivi che incontriamo sono tre americani emigrati a Parigi; uno, Jim, è un oppiomane malinconico e sensibile, presentato però sotto una luce favorevole, e gli altri due sono una coppia di bei maschi virili del Sud, pronti a rientrare in patria per convolare a giuste nozze con donne che poi tradiranno vita natural durante sollazzandosi tra loro appena possibile: una sistemazione che i moderni militanti gay guarderebbero con orrore, ma che Vidal si limita ad evocare con arguta e divertita simpatia. Gli altri, a cominciare dalla buffonesca coppia d'inglesi, Clyde e Lord Glenellen, sono le tipiche checche snob e capricciose da avanspettacolo; e per il resto gli omosessuali mascolini, in ispecie nella parte italiana del romanzo, sono tutti marchettari. Se qualche fautore della correttezza politica gaya col senno di poi ne intendesse muovere rimprovero a Vidal, si troverebbe in ottima compagnia: italiani, francesi, egiziani, britannici fanno in genere nel libro, quando va bene, la figura degli scemi o dei pazzi; ma a misurare col canone della political correctness sessuale o etnica le malignità d'un romanzo così beffardo e petulco, si finirebbe come quel tale del proverbio, che vuole lavare la testa all'asino, e butta via il tempo e anche il sapone. Meglio goderne i pezzi satirici o comici ben riusciti e portare pazienza sul resto, magari leggendo in diagonale i passaggi più impettiti.
A proposito di comicità, va notato come, forse temendo che l'autore ne avesse cosparsa poca per ogni pagina, anche la traduttrice gli pare aver voluto dare manforte a pag. 312, ove d'un defunto duca parigino ricorda come avesse venduto il suo albergo. Siccome di costui non traspare altrimenti la pratica del mestiere assai poco gentilizio di locandiere od oste, temo che la sventurata ignori che in francese hôtel (nel contesto della frase, che risulta chiarissimo) altro non è che il nostro palazzo.
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