I molti volti della sottocultura leather

22 agosto 2013

Quando ero piccolo e suggestionabile, il cinema insegnava che i leather erano baffe revansciste dallo sguardo truce, bisognose di affermare la loro virilità manesca stuprando chiunque nell’ombra della notte, magari in gruppo, tra una corsa in motocicletta e una sosta in bar malsani (non c’erano ancora leggi contro il fumo nei locali pubblici). Non era raro che ci scappasse il morto e anche del loro modo di amare c’era di che aver paura. Ricordo che solo Grace Jones mi intimidiva di più in quegli anni.

La cultura leather ha continuato però a destarmi perplessità anche dopo la disintossicazione dalla mistica hollywoodiana. Non dal punto di vista erotico – ché in questo unicuique suum – bensì da quello strettamente ideologico. Ho sempre pensato che gli stereotipi vanno sconfessati e aboliti, non trasformati in diversi condizionamenti, sicché rivendicare una maschilità raddoppiata rispetto alle scemenze del “sesso intermedio”, assimilando così l’origine dell’oppressione invece di rigettarla, non mi è mai parsa una strategia vincente.

Credevo dunque di vedere le mie convinzioni sfidate da queste pagine dichiaratamente celebrative scritte da entusiasti praticanti, ma vi ho trovato invece più che altro conferme. Non vi si tacciono infatti gli aspetti separatisti, selettivi e ansiogeni di certa cultura leather (soprattutto di quella delle “origini”), parte del motivo per cui è stata ricambiata a lungo con sospetto e discredito dalla comunità gay. Situazione aggravata dall’avvento dell’Aids, giacché la cultura leather sembrava indissociabile da un’attività sessuale incontenibile e violenta (quindi in qualche modo più “a rischio”), altra impressione forse discutibile ma che queste pagine nella sostanza confermano, giacché sovente in esse leather e sadomasochismo (e in generale l’avversione per qualsiasi «unadornerd “vanilla” sex») sembrano intercambiabili. Emergono anzi atteggiamenti ambivalenti persino fra gli stessi leather, spesso in disaccordo l’uno con l’altro, soprattuto a livello generazionale. Si aprono così contenziosi interni anche piuttosto aspri sulle pratiche erotiche, sulla politica, su quanto ci si debba prendere sul serio, sulla necessità di tenersi segregati o di aprirsi alla massa (processo avviato dalla “rivoluzione sessuale” degli anni Sessanta).

La prima parte del volume mi ha lasciato indifferente, ma solo perché è composta dagli scritti più apertamente apologetici: per chi non ha difficoltà a comprendere il romanticismo del master che ha intagliato “happy birthday” sulla schiena del proprio slave davanti a duecento invitati, dopo averlo legato come un salame, non servono ottanta pagine per celebrare la mistica delle scudisciate o la sublimità del fisting. Ammetto di faticare un po’ a seguire Guy Baldwin quando rievoca con nostalgia quel «sweet smell of boy sweat in a locker room at school» (abbiamo evidentemente fatto scuole molto diverse), ma questa sezione nell’insieme mi pare possa al più interessare come testimonianza del fatto che ancora all’inizio degli anni Novanta fra i leather era vivo il bisogno di giustificarsi, probabilmente in conseguenza della crisi dell’Aids.

Nella seconda parte le testimonianze ricostruiscono – sia pure a macchia di leopardo – la storia della sottocultura leather e la radicale evoluzione che ha conosciuto nel giro di pochi decenni, dai primi ritrovi improvvisati nell’underground degli anni Quaranta (lo fa Samuel Steward, rievocando i suoi contatti con Kinsey) alla progressiva organizzazione di una comunità nei decenni successivi, attraverso la fondazione dei gruppi di motociclisti degli anni Cinquanta (coi loro tribolati reduci di guerra) e poi l’apertura dei primi locali riservati, la codifica dei vari codici di riconoscimento, l’apertura di negozi di accessori laddove prima occorreva cercare in quelli per poliziotti, sino ad arrivare alla formazione di organizzazioni politiche e militanti. Pur impregnate di narcisismo, molte pagine sono divertenti. In particolare, fa un po’ sorridere il lettore odierno sapere che negli anni Cinquanta c’era una tale penuria di passivi che, a dispetto del loro ruolo, erano loro a comandare nei fatti e a essere corteggiati dai sovrabbondanti master.

La terza parte affronta più direttamente gli aspetti legati all’ideologia, offrendo ulteriori conferme delle perplessità già anticipate. In particolare nel saggio di Arnie Kantrowitz che, da ebreo, si interroga con comprensibile sconcerto su uno degli aspetti culturalmente più discussi e discutibili dell’immaginario leather, e cioè l’adozione di un repertorio estetico nazista. Ma anche altre testimonianze confermano il difficile rapporto che ha legato negli anni leather e militanza, talora attraverso uno sguardo autocritico, talaltra con rimpianto per un passato serioso («What S/M men now call play we called work», ricorda Thom Magister) preferito allo scenario attuale più annacquato e spesso ridotto a una recita di massa. In questa sezione rientra anche l’intervento del curatore del volume, Mark Thompson, esempio di leather che molti definirebbero (o avrebbero definito in passato) addirittura eretico solo per aver cercato di aprire i propri orizzonti fino a simpatizzare con le «Radical Faeries», da sempre disprezzate dai leather duri e puri, come pure ovviamente le “faeries” non “radical”.

In direzione opposta rispetto alle questioni concrete dell’impegno politico, l’ultima parte del volume dà spazio a chi ha fatto della sottocultura leather lo strumento di una ricerca mistica, il che porta a una dimensione che mi è del tutto estranea.

Nell’insieme un libro discontinuo ma utile a stimolare un confronto dialettico onesto con una sottocultura che, comunque la si veda e la si viva, anche se dall’esterno e con qualche titubanza, è parte della nostra storia, con buona pace dei leather separatisti e di quelli apolitici.

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