A soap in the closet

11 ottobre 2013

Era dai tempi in cui Padre Ralph De Bricassart sciupava femmine per poi flagellarsi col cilicio, onde non essere indegno del Vaticano, che l’Australia non ospitava un melodramma d’ambientazione storica degno del miglior feuilleton ottocentesco. Ma non pensate all’Australia del folclore: non ci sono canguri né koala né aborigeni, nemmeno sullo sfondo, mentre il contesto dei primi anni Cinquanta è sbalzato con pochi segni essenziali (ad esempio gli esperimenti atomici nel Pacifico), perché conta solo per dare sostanza a un passato (la guerra mondiale) che non si presta a essere rimosso facilmente.

Se Uccelli di rovo era una miniserie sbrigata in poche parti, A Place to Call Home è invece una soap a tutti gli effetti, sia pure condensata in sole tredici puntate. I sintomi essenziali ci sono tutti: non conta quello che accade ma quello che si dice; il passato è una pozzo senza fondo da cui trarre continue magagne bigger than life; non c’è verso di vederne chiudere alcuna (l’ultima puntata della prima stagione serve solo per aprire nuove prospettive alla seconda, lasciando tutte le linee narrative in sospeso).

Due sono le vicende principali. La prima riguarda Sister Sarah, che suora lo è solo di nome ma non le manca nient’altro. Di puntata in puntata questa donna gracile e non più giovanissima rivela infatti risorse insospettabili quanto inestinguibili: legge lo spagnolo, capisce l’italiano, parla l'ebraico, picchia come uno scaricatore di porto. E ovviamente è la migliore nel suo mestiere (l’infermiera). Come la Michaela di una premiata serie western degli anni Novanta, questa “signorina del West” svolge la sua missione umana e professionale con sprezzo delle convenzioni sociali, trasudando comprensione e compassione per tutti, salvo che non cerchino di rovistare nel suo passato oscuro. Tra arti da salvare, fanciulle tubercolotiche, parti impossibili nel mezzo del nulla e diffidenti paesani da conquistare, la raminga infermiera, già ripudiata dalla madre molti anni prima (quando si era convertita all’ebraismo per amore di un giovane), dopo aver conosciuto la Spagna della guerra civile e la Germania dei lager ha l’infelice idea di installarsi a Inverness, un paesino di campagna che ha deciso, come da titolo, di chiamare casa.

Qui si innesta il secondo filone importante, che spiega perché la scelta di Inverness – il posto peggiore per tenere segreti – sia tanto infelice. Proprio durante il viaggio che l’ha riportata nella natia Australia dall’Europa, Sarah ha infatti avuto la prontezza di spirito di salvare dal suicidio il piacente James Bligh, il rampollo della più potente dinastia del circondario, sicché nonna Elizabeth (collerica matriarca dei Bligh) teme che venga allo scoperto il segreto di famiglia di cui solo lei è al corrente. Segreto che anche Sarah in realtà ignora, ma non lo spettatore: come si conviene a ogni soap rispettabile, di puntata in puntata le sorprese non mancano (basta sovvertire le parentele, perché la carta delle agnizioni vince sempre), ma è chiaro sin dall’inizio che il biondo fanciullone ha lasciato a Londra il grande amore della sua vita nella persona di un compagno di Oxford. Lo spettatore deve quindi passare l’intera stagione chiedendosi non quale sia il problema di James, ma chi, quando e con quali conseguenze mano a mano verrà a saperlo.

Per peggiorare le cose, James ha sposato improvvisamente la sorella del suo amato, sempre su ordine della nonna, la quale sa di cosa parla: confesserà infatti di avere a suo tempo scoperto che anche suo marito era omosessuale, sacrificando tutto il sacrificabile per il bene della famiglia della cui morale è da sempre custode. Perché i Bligh sono una di quelle casate che non temono nulla più degli scandali (e dei matrimoni fuori dalla bella società), senza contare che negli anni Cinquanta l’omosessualità in Australia era ancora illegale (e infatti i ricatti non mancheranno). Inoltre la continuazione della stirpe è affidata proprio a James, essendo l’unico figlio maschio dell’unico figlio maschio di Elizabeth, George. Il quale, con grande scorno della madre, deciderà si sposare proprio Sarah…

Tra un tentativo di suicidio e l’altro, il povero James cerca di convincere nonna, moglie e se stesso di essere cambiato. Il ragazzone è pieno di buona volontà, ma che speri di annegarsi in uno stagno mettendosi due sassi in tasca la dice lunga sulle sue facoltà. Inoltre non lo aiuta vivere nella campagna australiana, dove pare che contadini e stallieri siano tutti prestanti e che il caldo perenne non consenta loro di stare vestiti per più di pochi minuti. Dopo aver iniziato a sognare il formoso Harry, uno di questi baldi sottoproletari con cui da ragazzetto aveva avuto una relazione, a James non rimarrà che trasferirsi in città e farsi vedere da uno psichiatra.

A Place to Call Home è insomma una di quelle epopee i cui meccanismi narrativi sono tanto prevedibili quanto appassionanti, proprio per gli estenuanti rilanci nello scontro fra giusti e ingiusti. Certo le rimozioni di James sono esasperanti, soprattutto a fronte dell’onesta accettazione di sé di Harry, ma fanno parte del gioco, così come la mogliettina troppo comprensiva per non essere detestabile nel suo ruolo di vittima, la nonna che non riesce a concepire male peggiore (Sarah esclusa) di avere un nipote gay e vuole controllare le vite di tutti, lo psichiatra benevolente che somministra elettroshock come fossero aspirine, gli immigrati italiani famelici di pasta al ragù e che cantano O sole mio, i ricchi che piangono perché le pecore nere abbondano, o il fatto che ci siano più gravidanze che donne. E ovviamente i cattivi sono proprio cattivi, anche quando sono malati di cuore e sembrano sempre lì lì per morire, mentre i buoni sono buonissimi e si fanno amare da tutti, tranne che dai cattivi. In mezzo non c’è niente: le mezze misure nel mondo delle soap non esistono. Nemmeno a Inverness, Australia.

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