Ma mère: un Bataille "dissacrato" e pudico

25 ottobre 2013

Riprendere il romanzo Ma mère a quarant’anni dalla sua pubblicazione postuma è un’operazione tutt’altro che semplice in partenza, trattandosi di un testo invecchiato piuttosto male. La commistione tipica di Bataille tra eros, thanatos e sacro, con tutto un repertorio un po’ stantio di ossimori (per cui la perdizione purifica e la purezza lorda), vi emerge infatti con verbose e stancanti ripetizioni che si fanno di qualche concretezza solo nelle ultime pagine (quelle recuperate nella riedizione Gallimard del 1971). Se ne ricava l'impressione di un’illustrazione calcolata di teorie immaginate in astratto e cucite su quattro personaggi di scarso interesse, che ripetono continuamente a se stessi e l’un l’altro l’inevitabilità di un eros funesto che tutto appare fuorché inevitabile e funesto. E l’educazione sentimentale alla perdizione del giovane fanciullo innocente, da parte di sua madre e delle di lei amiche, ha poco di perverso dal momento che l’interessato non sembra avere granché da corrompere, essendo per sua stessa ammissione predisposto a seguire le orme della mamma e non opponendo resistenza alcuna.

Illustrato in un contesto d’epoca, Ma mère avrebbe forse potuto ancora suscitare qualche interesse e far immaginare qualche rossore, se non proprio provocarlo. Ma Honoré (autore anche della sceneggiatura) ha preferito arrischiarsi ad ammodernare il romanzo, ambientandolo in un’amena località spagnola dei giorni nostri e conservandone giusto la spina dorsale, che in fondo è semplicemente quella di un Edipo ipertrofico (per via della mancanza di inibizioni dei rappresentanti del Super-Io).

Ma a ben vedere ogni trasgressione aggiunta serve solo a compensare (male) qualcosa che è stato tolto. Quando Pierre riordina lo studio del padre defunto, Honoré inventa una profanazione supplementare (la quale in verità, ricordando quella proustiana di madamoiselle Vinteuil, si presta male a proiettare Bataille in avanti) ma trascura il fatto essenziale, e cioè che il giovane è semplicemente cascato nella prima trappola della madre. Analogamente far svezzare Pierre da Rea per strada non basta a bilanciare la mancanza di fantasia di quella che pure dovrebbe essere la nave scuola del giovane, così come far masturbare il ragazzo all’obitorio (in una scena più divertente che disturbante) non basta a risarcire l’eliminazione dell’incesto vero e proprio su cui Bataille chiude.

Ancora, passare la parte della lesbica masochista (Loulou) a un ragazzetto sembra aggiungere trasgressione ma fa il paio con la soppressione del lesbismo dichiarato della madre, che aveva concepito Pierre solo perché violentata dall’uomo che poi dovette sposare. Non che il film eviti di mostrare la donna sbaciucchiarsi con Rea, ma l’ambiguità del loro rapporto non ha nulla di esclusivo ed è solo una delle forme nelle quali la madre ricerca il proprio piacere, tanto che Honoré mette le mani avanti sin dall’inizio mostrandola anzitutto alle prese col marito e poi in compagnia di un gruppo di ragazzotti ubriachi in una sorta di preludio a un’orgia non consumata ma sufficiente a dichiararne la preferenza per gli uomini. Inoltre, le scene fra la madre e Rea sembrano pensate per dare pruriti al pubblico eterosessuale, dal momento che si consumano sempre sotto gli occhi di qualche maschio sovreccitato, si tratti di Pierre o di un cliente pagante.

Parallelamente, Pierre si esibisce in un maldestro tentativo di seduzione indirizzato a un giovane su una spiaggia nudista, ma poi non perde occasione di rivendicare la propria eterosessualità e di porre limiti alla sua educazione sentimentale. Ad esempio si presta malvolentieri a giocare con Loulou e solo per compiacere Hansi (sadica poco consenziente) in una notte di sadomasochismo soft (anche rispetto alla pagina di Bataille, che in questo solo caso si accendeva di impudicizia), la quale nondimeno dovrebbe rappresentare il punto di non ritorno dello svezzamento di Pierre. E di nuovo poco vale che Loulou rievochi a parole un compensativo rapporto con un master omicida: semmai si ottiene così un risultato controproducente (vista anche una certa leziosità dell’interprete), e cioè quello di rendere l’omosessualità del personaggio molto più credibile del suo prestarsi a soddisfare Hansi.

Insomma, Honoré cambia semplicemente gli ingredienti ottenendo infine un impasto poco diverso da quello della ricetta originale, tanto che l’unica reale provocazione sembra essere affidata all’anatomia di Louis Garrel. La scelta di farlo apparire più spesso nudo che vestito non riesce però a comunicare non dirò trasgressione vera e propria, ma nemmeno l’imbarazzo che la situazione prevederebbe, ad esempio quando Pierre si mostra senza veli davanti agli ambigui domestici (che Bataille si limitava a nominare in una riga), ai passanti (evitiamo pure di chiederci perché il giovane torni dalla spiaggia senza asciugamano), alla stessa Rea quando la incontra per la prima volta. Anzitutto perché chiunque abbia familiarità con Garrel ha familiarità anche con il suo corpo, giacché quanto a scene di nudo solo Ewan McGregor può competere per quantità con questo figlio disinibito di uno dei maestri più schivi della Nouvelle Vague. Ma soprattutto perché Pierre non è nulla più del suo corpo. Mentre Isabelle Huppert riesce tutto sommato a custodire il senso degli sbalzi d’umore del suo personaggio, il pur volenteroso Garrel non prova nemmeno a dare credibilità alle venature mistiche del suo prototipo di carta (tanto valeva sottacerle) e ne seppellisce le sfumature sotto bronci splenetici da bel tenebroso adolescenziale. Senza contare che la scelta degli interpreti fa saltare la vicinanza che nel romanzo di Bataille univa madre e figlio, separati solo da 14 anni anziché dai 30 che – visibilmente – allontanano Huppert e Garrel.

Se un effetto tutto sommato la verbosità del romanzo di Bataille ottiene mi sembra essere quello di dire tutto e il contrario di tutto, sicché nessuna dichiarazione di nessun personaggio alla fine risulta credibile: tutti si dicono all’occasione perversi e santi, innamorati e incapaci d’amare, incestuosi e impossibilitati a desiderare l’incesto, viziosi con goduria e disgustati dal vizio. È forse in questa paradossale inutilità della parola che si coglie davvero qualcosa della profondità più ineffabile dell’eros, assai più che nella ricerca di idee e descrizioni scabrose. In tale labirinto di specchi la morte della madre fissa un punto fermo (oltretutto ben presto rivelato) ed è giustificata dalla consumazione dell’incesto. Nel film non vi è nulla di equivalente, sicché persino la morte rimane un evento che lascia indifferenti in conseguenza non tanto di una consunzione dell’umano la cui identità si vorrebbe travolta dalla perversione, quanto della noia.

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autoretitologenereanno
Christophe HonoréDolcezza, Laromanzo2006

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