C'è silenzio lassù

1 novembre 2013

Non si può che rimanere ammirati dal modo in cui Gerbrand Bakker – a quarant’anni suonati scrittore esordiente, se si eccettua un racconto per bambini – riesce a interessare il lettore alla vita di un ruvido vaccaro olandese di mezza età (Helmer) che in vita sua ha visto ben poco oltre a mucche, pecore, asini e cornacchie. Forse nemmeno i tulipani. Tanto da riuscire a fantasticare sulla Danimarca, che sta due chilometri più in su, come se fosse la Terra di Mezzo di Tolkien.

Facendo di Helmer l’io narrante, Bakker ne registra – con la minuzia di un diario che non si premuri di separare l’utile dall’inutile – gesti, azioni e pensieri, non importa quanto banali e quotidiani, con frasi secche, brevi e semplici come può concepirle il personaggio, la cui istruzione si è arenata sui banchi dell’università, abbandonati dopo un incidente e senza aver avuto il tempo di impararvi niente. Dopodiché Helmer – come confessa lui stesso – non ha mai più aperto un libro.

Lo scrittore ha dichiarato di aver appreso l’arte del tralasciare, del non dire, quando traduceva la verbosissima soap Beautiful preparando i sottotitoli per la televisione olandese (l’Olanda è uno di quei paesi civili dove anche in televisione si usano i sottotitoli e chiunque abbia anche solo pensato di fare il doppiatore è ridotto a mendicare un tozzo di pane all’angolo della strada, come è giusto che sia). La frammentazione in paragrafi molto brevi e in frasi laconiche di C’è silenzio lassù è senz’altro la cosa migliore che sia scaturita dalle soap degli anni Ottanta e si accorda perfettamente al modo in cui Bakker ricostruisce l’esistenza di Helmer – molto complicata nella sua trivialità – affiancandone con apparente casualità i cocci, sicché dati anche essenziali e profondamente connessi emergono spesso a distanza di molte pagine gli uni dagli altri. Persino per sapere il nome di chi sta raccontando in prima persona occorre pazientare.

Dietro c’è dunque una regia molto studiata, che però, com’è buona norma, sa nascondersi con intelligenza e si rivela solo quando il quadro finale è completo. Le occasionali uscite d’un umorismo brumoso (non nero, ma decisamente malinconico) e la capacità di sbalzare con pochi tratti personaggi di squisita autenticità (questo vale anche per l’ultima delle comparse, inclusi i piccoli Teun e Ronald) impreziosiscono ulteriormente un romanzo che appassiona come un giallo di sagace fattura e riesce a ispessire di significato anche i gesti più minuti.

È il caso dell’inizio, in cui Helmer trasferisce il padre ormai invalido nella stanza all’ultimo piano della fattoria e prende possesso di una camera al primo piano. Operazione faticosa e apparentemente controproducente (poiché rende più scomodo accudire il genitore), di cui solo molto più avanti si può comprendere il pieno significato, addirittura epocale per Helmer, trattandosi di un simbolico tentativo di prendere finalmente in mano la propria vita, dopo aver sempre subito passivamente le decisioni altrui e del caso. Una scelta che fa il paio con l’acquisto di due asini, proprio per la loro inutilità.

Nel quadro dei rapporti famigliari che prende poco a poco forma, trova un suo posto anche quello che, nei fatti, è un inquietante parricidio, consumato con esasperante lentezza. L’unica traccia che ce ne danno le prime pagine è affidata a un fatto banale, uno dei tanti: «In lontananza ho visto tre ciclisti sulla strada dell’argine. Se mi fossi spostato di un passo li avrebbe visti anche lui. Non mi sono mosso». Un atto mancato troppo minuto per veicolare subito tutto il suo significato, ma calcolato quanto basta da indurre il lettore a porsi interrogativi più ancora del rifiuto di chiamare il dottore o di assecondare il desiderio del genitore di rimanere nella sua stanza di sempre.

Emergono con apparente casualità, inizialmente sfocati e inseparabili da tutti gli altri elementi che compongono il ritratto di Helmer, anche i frequenti e inequivocabili turbamenti che il protagonista prova nei confronti del corpo maschile. Può trattarsi di due giovani canoisti di passaggio, i quali peraltro notano di essere osservati senza che il rustico voyeur ne ricavi eccessivo imbarazzo; di sé, nei momenti di svogliato narcisismo in cui si piazza nudo davanti allo specchio; del fratello Henk, gemello prematuramente scomparso a vent’anni, con cui ha intrecciato un rapporto molto complesso non privo di remote venature incestuose; dell’altro Henk, il giovane garzone, burbero ma sempre più disinibito nei suoi atteggiamenti domestici, che gli si infila persino sotto la doccia e nel letto e della cui nudità Helmer non riesce talvolta nemmeno a sostenere la vista; di Jaap, il garzone del padre, il primo maschio che aveva visto nudo dopo il fratello e che da giovane gli aveva insegnato a pattinare, era l’unico in grado di distinguerlo da Henk e una volta, dopo un piccolo incidente, lo aveva consolato con un bacio sulla bocca. È con lui che si ritroverà alla fine in Danimarca, dopo la morte del padre, in un viaggio dai contorni ancora una volta evocativi e indefiniti, carico di potenzialità. O forse semplicemente troppo tardivo.

Nel 2013 Leopold Nanouk ha tratto da questo romanzo il film omonimo, molto pregevole.

A margine, due note per Iperborea: una di elogio per il catalogo e una di demerito per il formato punitivo della collana. Perché sforzarsi di rendere più sgradevole la lettura in un paese dove già nessuno legge? A quando una collana con allegato un sacchetto di ceci su cui inginocchiarsi in atto di contrizione per non aver imparato il nederlandese da giovani?

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