...y en encendido invierno l'alma mía

5 luglio 2014

Alan Hollinghurst, se diamo credito alle sue affermazioni, è un uomo solitario; di sicuro è sempre stato uno scrittore fuori dalle mode imperanti: quando iniziò a scrivere romanzi, negli anni Ottanta, la moda letteraria poteva essere o uno strascico di sperimentalismo e di ribellismo da Seventies, o una vena di sorgente minimalismo; la tematica gay, prediletta dall'autore britannico, allora si volgeva di preferenza verso un mondo di gioventù dionisiaca, o meditava sull'addensarsi plubeo delle nubi dell'AIDS; la scrittura, in ogni caso, s'improntava in prevalenza su modelli scarni, diretti, dimessi se non brutali: nei romanzi di Hollinghurst, invece, uno stile opulento, quasi ottocentesco, lento e indugiante, che richiede una lettura senza frettolosità, fascia nelle sue pieghe setosamente morbide una materia volutamente fanée.
I personaggi, spesso provenienti dall'upper class britannica (non però in questo romanzo), vivono passioni laceranti ma rappresentate fra veli e schermi i cui giuochi, anziché celare o mitigare il desiderio, lo moltiplicano, anche grazie alla predilezione per ambienti, come le piscine, i bar gay, gli spogliatoi, ove nessuna norma sociale può impedire ai corpi quella vicinanza e quel contatto elettrizzante che soprattutto una cultura sovraccarica, come quella anglosassone, di negazione della fisicità, in ogni altra circostanza, soprattutto in passato, mirava con costante determinazione ad evitare o a sopprimere. Proprio per questa ragione acquistano una speciale, torbida attrattiva erotica certe descrizioni all'apparenza innocenti, come quella del protagonista che libera una cerniera incastrata sfiorando il corpo del bellissimo Luc. D’altronde, la storia si snoda tutta al raggio della stella di Espero, cioè il pianeta Venere, lo bel pianeta che ad amar conforta.
La vicenda si svolge in un'anonima città delle Fiandre ricca d'acqua, che per parecchi aspetti ricorda Bruges, dove un professore britannico, Edward Manners, si è trasferito per dare lezioni d'inglese a due ragazzi con problemi: uno, Marcel, è il figlio grasso, asmatico e torpido d'uno storico dell'arte vedovo, e l'altro, Luc, ultimo discendente d'un'antichissima famiglia della città, è un ragazzo di oltraggiosa bellezza ma dai trascorsi oscuri e sfuggenti; Edward non è un giovin signore, ma, tolto il breve tempo delle sue lezioni, passa in sostanza una vita oziosa: vive storie ondivaghe e inconcludenti con due ragazzi, il maghrebino Cherif, tenero e possessivo, e il belga Matt, un affascinante imbroglione che lavora nella pornografia; trascorre ore a ubriacarsi in un locale gay; ne trascorre altre a struggersi di desiderio di Luc e a spiare lui e i suoi inseparabili amici, il bel Patrick e l'algida Sybille; e collabora col padre di Marcel, che dirige un museo dedicato ad una gloria locale, il pittore simbolista Orst, anch'egli uomo di vita e produzione ambigue, con un fondo malsano.
Come nel romanzo precedente, La biblioteca della piscina, tutta la ricerca trepida, sinuosa e sognante del protagonista finisce per abbattersi contro un muro di simulazioni che qui ne rendono l’esito particolarmente penoso: sembra quasi che Hollinghurst, raffigurando un uomo degli anni Ottanta del Novecento che parla e agisce con la flemma cerimoniosa d’un secolo prima, intenda spruzzare un impalpabile pulviscolo d’ironia su d’un mondo dai sentori passaticci, destinato allo scacco sebbene, in fondo, amato a mo’ d’un congiunto dalle guance vizze e dalla loquela svanita. Ma in realtà risultano infidi, a conti fatti, sia l’universo manierato che perdura sia quello scabro e rude che incombe sul presente: si respira ormai un’aria di amarezza e disillusione che serra la gola. Peccato soltanto che a volte l’autore si compiaccia un po’ troppo di menare il can per l’aia, e che il finale sia congegnato in maniera un po’ troppo frettolosa e, tutto sommato, irrisolta: dopo tanta doviziosa lentezza, una chiusa più meditata avrebbe coronato il romanzo in modo assai più degno.
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