Che bello fare le pause!

9 dicembre 2014

The Lady è il fenomeno mediatico dell'anno, nonché una delle webserie italiane più viste di sempre. È la storia di Lona, «una leggenda, [con] un passato top secret e un futuro molto complesso». Inutile perdersi in dettagli sulla trama: in un'opera come questa — autoprodotta con pochi mezzi, realizzata d'istinto, un po' naïf e un po' avanguardista — gli elementi che hanno tradizionalmente caratterizzato la narrazione cinematografica vengono superati in favore di una fluidità che è la cifra del cinema delsantiano. Tanti hanno indirizzato lodi sperticate (e sarcastiche, o almeno così pare nella maggior parte dei casi) a Del Santo, che naturalmente ha mangiato la foglia e le ha incassate con notevole autoironia. C'è chi l'ha paragonata a Lynch (o a Lynch ubriaco di vino comprato al LIDL), chi ha tracciato paralleli tra il finale della prima stagione di The Lady e lo sguardo diretto in camera della Ciangottini ne La Dolce Vita, chi ha citato il montaggio delle attrazioni ejzenštejniano. C'è anche chi ha tentato di fregarla, e tra un Sokurov e un Kubrick ha subdolamente inserito un paragone con due centrocampisti esterni della Lazio spacciati come grandi registi: Del Santo non si è fatta cogliere in fallo e anzi ha replicato che «sì, anch'io ho vissuto la mia vita un po' ai margini». Geniale.

Del Santo è una donna del suo tempo: cita Tiziano Ferro, non Wagner o Sant'Agostino. A dire il vero Tchaikovsky c'è, ma serve solo da rumore di sottofondo per le flessioni. Quella che ha scritto, girato e diretto è una testimonianza davvero preziosa e verace sulla Milano che cerca di darsi un tono internéscional, la Milano delle feste top del top, la Milano un po' dolcegabbaniana e un po' centrodestrorsa degli ultimi vent'anni (quella che i maligni chiamano "Milano da Pippare") che si scopre decadente, annoiata e intrisa di nebbiosi presagi: una sorta di memento mori (anzi, memento Lory) e di horror vacui riecheggia nelle battute estemporanee che talvolta interrompono il regolare rapporto causa-conseguenza dei dialoghi. «Tanto dobbiamo morire tutti», ricorda la giovane Ali ad Anthony, che ha appena tentato di convincerla che i soldi fanno inevitabilmente la differenza. «Che bello fare le pause!» esclama perentoria la simpatica Marinella Cucciardi mentre un crocchio di baldi giovani si perde in discorsi da spacconi: la vera soddisfazione non deriva dalla competizione e dall'arrivismo, ma dalla sospensione temporanea di ogni pretesa materiale in favore dell'ozio e di una concreta socializzazione. Perché è l'amore, questo sconosciuto, a dare un senso alla vita: Lona lo cerca a tal punto da cominciare a scrivere un romanzo che ne restituisca il senso. Un po' Seneca e un po' Bertrand Russell (e poco importa quando ne sia consapevole), Del Santo sa benissimo di cosa sta parlando: rigetta l'etichetta di (neo)realista, ma è evidente che le vicende di Lona sono in qualche misura autobiografiche. Fa bene Del Santo a non considerarsi (neo)realista: The Lady è più vera del vero e tutti interpretano una versione appena temperata di se stessi, tanto che a volte viene da chiedersi se sia un documentario (vista anche la posizione privilegiata di insider della regista).

A chi sostiene che i personaggi gay di The Lady siano macchiette: vi sbagliate. Sì, è vero: sono tutti o ballerini o parrucchieri o chirurghi plastici o drag queen. Sì, è vero: quando dicono «Dai, bella gnocca, sei un bocciuòlo, agiamo!» oppure «Questa festa è very in! Quando provi le bollicine francesi [sì, si intende proprio quello] ti rimane un ricordo indelebile!» sembrano un po' dei personaggi di Marcello Cesena. Sì, è vero: sono tutti comparse. Il punto è che non sono calati nel racconto allo scopo di suscitare ilarità o di costituire una minaccia: gravitano attorno a Lona come tutti gli altri personaggi secondari, e ne condividono valori e obiettivi (e centri estetici). La probabile bisessualità di Anthony, nipote di Lona, viene trattata senza peli sulla lingua e senza troppi patemi: l'eccesso di disinvoltura con cui Del Santo ha sceneggiato la sequenza al Padova Pride Village è sembrato indelicato ad alcuni, allo stesso modo in cui ad altri è sembrato razzista il trattamento riservato ai domestici cingalesi Chang e Samir. In realtà Del Santo fotografa la realtà che conosce per quella che è: è credibile che Anthony attiri avances un po' spinte nel locale gay (quanti di quelli che si sono indignati poi scrivono cose come «no checche» su Grindr e subisserebbero un macho palestrato come Anthony di messaggi zozzi?), ed è altrettanto plausibile che i signori domestici esibiscano (o quantomeno fingano) abnegazione totale.

La lotta e la militanza si esauriscono in qualche boutade improvvisa, tra un bicchiere di Amarone e una sessione di cardiofitness: quella che emerge è una posizione politica libertaria, anzi talvolta anarchica, caratterizzata da forte sfiducia nelle istituzioni e da sentimenti revanscisti («Io voglio solo ciò che è lecito: il resto me lo prendo da sóóóla»: ciò che va riconquistato è la propria individualità, perché «siamo posseduti dallo Stato»... e non manca una battuta polemica nei confronti della magistratura, naturalmente: «Conosci lo studio De Magistris? Dai, quello dove si entra solo per raccomandazione...»). L'episodio più politico è l'ottavo, in cui il trucco — simbolo della vanità di ogni donna — diventa il vessillo avanguardistico della libertà odierna. «Il make-up è un'imposizione del sistema capitalistico in cui viviamo» dice Lona al suo truccatore, e poi si fa truccare lo stesso, ma come vuole lei, lei che «è bella già al naturale» come le ricorda prontamente l'assistente: questa è l'unica rivendicazione per cui una donna può davvero battersi nel ventunesimo secolo, non c'è più tempo né voglia di gestirsi l'utero e bruciare reggiseni perché si lavora sodo, perché non basterebbe il dono dell'ubiquità per fare tutto ciò che si vuole, perché l'amore e la vita corrono troppo veloci per stare lì a chiedersi quale debba essere il ruolo di una femmina emancipata nella presente società occidentale. Nell'ultimo episodio della prima stagione è proprio Lona a indicarci la via, quando suggerisce all'amica Manu: «Insegui il tuo sogno, ma nel frattempo spòsati un uomo ricco». Una femminista probabilmente inorridirebbe di fronte a Lona e alle sue amiche, in apparenza così dipendenti dai soldi e dagli uomini da definirsi esclusivamente in loro funzione: le donne delsantiane, tuttavia, sono le eroine e non le vittime di The Lady, e stanno sopra anche quando il maschio alfa di turno decide di dare loro «una ripassata» (vedi il quarto episodio, o il tormentato rapporto tra Lona e Luc, o anche quello più carnale tra Giselle e Marco). C'è chi ha causticamente definito The Lady "un porno senza sesso", riferendosi alla qualità della recitazione, alle scenografie essenziali e al surrealismo delle conversazioni sospese: mai complimento più alto avrebbe potuto essere fatto alla serie, che in effetti è un catalogo esaustivo di tutte le situazioni sentimentali in cui una donna moderna può trovarsi (Lona è al contempo disgustata e attratta dalla «violenza ingiustificabile» di Luc, da cui continua a ritornare nonostante sia corteggiata da decine di uomini in giro per il mondo; l'edonista Giselle usa gli uomini come fossero Kleenex, lasciandosi guidare da «tentazioni extreme espericulate»; Sono-La-Tua-Fragolina è combattuta tra la carriera e l'amore; poi ci sono quella che crede nell'amore a prima vista, quella che sta col compagno nonostante sappia che è fedifrago, quella che si è stancata dopo quarant'anni di matrimonio...).

Passando all'aspetto più prettamente formale, c'è chi è rimasto agghiacciato di fronte al montaggio psichedelico, ai controcampi sovrabbondanti, alla sceneggiatura che a tratti pare rubata a un fotoromanzo, al doppiaggio anni Ottanta spesso fatto dagli attori stessi, alla dizione non proprio pulita, all'effetto lente fatto con Photoshop per i titoli di testa, alla fotografia che esplora cinquanta sfumature di blu, ai personaggi secondari che si moltiplicano come nemmeno in Twin Peaks: è come quando al cinema irrompe il parlato nel 1928, e tutti si affrettano a dire che non durerà. E va bene: forse non è un momento di svolta così epocale, ma la serie si fonda su una trasgressione sistematica delle regole. In The Lady si dialoga quasi esclusivamente al cellulare. Abbondano i monologhi interiori dei personaggi, con un uso parossistico del voice over. Del Santo è pienamente cosciente della propria scelta stilistica: «È la realtà! Questi sono i dialoghi che si ascoltano al giorno d’oggi. Si parla del nulla, soprattutto i giovani. Comunicano di continuo al telefono, poi si vedono e non hanno niente da dirsi». Chi se ne frega dei raccordi creativi, chi se ne frega se già i primi trenta secondi della serie contravvengono in maniera vistosa alla legge baziniana del montaggio proibito, chi se ne frega se i piani ravvicinati di Gloria Contreras e Costantino Vitagliano sembrano usciti da un remake fuori tempo massimo di Das Cabinet des Dr. Caligari, chi se ne strafrega se gli stacchi fulminei fanno durare le sequenze al massimo quindici secondi: l'opera ha una sua integrità e un suo stile riconoscibile, e non tutto nasce per essere lineare e hollywoodiano. Anche i momenti di (involontaria?) comicità — su tutti la sequenza in bianco e nero nel decimo episodio, quella in cui Lona e Luc si amano, si amano, si amano, si amano, si amano, si amano, si amano — sono portatori di significato.

The Lady è anche un documento degno di nota dal punto di vista linguistico. Nel milanese neo-standard che tutti i personaggi parlano si dice "party nello skylounge", non "festa all'ultimo piano". Naturalmente si dice "location", non "posto". Al telefono si risponde "hola" o "hello, my dear", ci si congeda con un "hasta la vista". I più coloriti "bonazza", "figona", "cosciotta" e "fragolina" sono subentrati ai troppo inflazionati "amore"/"tesoro". "Top" sostituisce almeno metà del patrimonio lessicale italiano: può significare "smagliante" (e.g.: "forma top"); può rimpiazzare vari gradi degli aggettivi "buono", "importante" o "grande" (e.g.: "adrenalina al top", "solo gente top"); può anche essere semplice interiezione (dal significato sfuggente, ma senz'altro affermativo: e.g. "top!"). Basta camminare mezz'oretta tra Porta Garibaldi e Moscova, oppure anche nella zona di Porta Venezia, per rendersi conto che i giovani e il top del business si esprimono in questa maniera: di certo non parlano come in un film di Muccino o in un romanzo di Michele Serra, e ancora più certamente non parlano delle cose che Muccino e Serra mettono loro in bocca. Anche il fatto che Del Santo associ l'indigenza a un'ineluttabile logopatia è significativo: una volta tanto si tiene conto della diastratia, variabile sociolinguistica che colloca Chang e Samir inevitabilmente al di fuori dello strato top.

«Intellettuale è chi dice una cosa semplice con parole difficili; artista è chi dice una cosa difficile con parole semplici». Lo diceva Bukowski, o Jim Morrison, o la foto di un gattino su Facebook: non importa. Quel che è sicuro è che Del Santo è un'artista, come conferma anche la sua idea di kalokagathia contemporanea. In un'intervista illuminante, Del Santo ha dichiarato: «Scelgo degli attori bellissimi così, se il messaggio che voglio trasmettere non viene compreso, almeno ci sono degli attori bellissimi!». Si può essere legittimamente distanti dalla visione delsantiana della vita e del cinema, ma è inevitabile riconoscere che The Lady sia un'opera genuina e unica nel suo genere. Io non ci ho visto né Kubrick, né Lynch, né tantomeno Ejzenštejn: ci vedo Lory Del Santo, che basta e avanza.

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