La neve nel cuore

13 dicembre 2014

La pietra di famiglia del titolo originale non è altro che il tradizionale anello della nonna da passare alla fidanzata del primogenito. Ma è solo un MacGuffin, avrebbe detto Hitchcock, cioè un pretesto per far girare la storia, di per sé privo di importanza. Il fatto è che l’intero film sembra essere costituito di MacGuffin: cioè tutto sembra essere pretestuoso, accumulato tanto per far quadrare i conti.

E il risultato è privo di sorprese, non tanto perché si tratta di un film di genere, anzi di un filone preciso della commedia (quella malinconico-psicologica su un numero x di parenti che si ritrovano tutti insieme in occasione di una festività), ma perché è concepito e girato in modo volutamente didascalico. Ci sono cioè inquadrature che hanno il preciso e inequivocabile scopo di far capire allo spettatore cosa succederà nei successivi 100 minuti (tolgo giusto i tre dei titoli di testa). Esempio: quando Ben (il fratello che non ama stare vestito) vede per la prima volta Meredith (la legnosa fidanzata di Everett, il fratello in carriera di Ben), è chiaro dal modo in cui sbarra gli occhi, e dal modo in cui la macchina da presa lo mostra sbarrare gli occhi per lunghi secondi, che si è innamorato di lei, così come è chiaro dall’imbarazzo di lei che è già ricambiato. Ecco allora che si è già capito che i due alla fine si metteranno insieme. Quando poi Everett incontra Julie, la bionda sorella di Meredith, e la cosa si ripete, è chiaro che il film si chiuderà su uno scambio reciproco di fratelli e sorelle tra le due famiglie. Il problema è che il grande evento del film è tutto qui, bruciato in due inquadrature maldestre: se lo spettatore deve capire tutto alla terza inquadratura, le altre potevano essergli risparmiate. Ad esempio, tutta la questione che ruota intorno alla pietra dello scandalo (quella della nonna che la madre non vuole dare a Meredith perché, come tutti, ha capito che non è la donna giusta per Everett) non appassiona proprio perché tanto sappiamo già che il matrimonio non s’ha da fare.

Si dirà: ma c’è anche Susannah, la figlia adolescente. La situazione però non cambia, perché Susannah non è una adolescente, e la adolescente, che in quanto tale non può che essere su di giri e aggressiva, ovviamente con la povera Meredith. Anche Susannah serve quindi solo a far girare l’intreccio principale, quello rivelato sin dall’inizio. In più, anche lei si ritroverà a cambiare radicalmente alla fine, non senza che sin dall’inizio si sia capito che è in realtà una fanciulla buona e dolce, solo in piena crisi ormonale.

Infine ci sono la figlia incinta (giusto perché è bene che nasca qualcuno quando qualcuno muore, per non dare l’impressione che tutto finisca con la morte) e David, il figlio gay. Ma il punto è lo stesso: se mamma Sybil è stata tanto prolifica in vita sua non è perché amava il marito o aveva una vocazione alla maternità, ma è solo perché agli sceneggiatori servivano giusto cinque figli per far girare il meccanismo, nel contesto del quale David serve per dimostrare correttezza politica.

Vero è che David è tanto equilibrato e soddisfatto, con il suo compagno Patrick, da non necessitare di alcun ribaltamento lungo il percorso narrativo. Ma in un film in cui tutti i protagonisti subiscono rivolgimenti, più che un segno positivo questo è un sintomo di inessenzialità. David non cambia perché non interessa e non ha davvero importanza: vive alla periferia del sistema dei personaggi e c’è solo perché non poteva mancare in una commedia della Hollywood che vuole essere al passo coi tempi e in cui Diane Keaton fa la mamma. Poi, siccome in un film didascalico è sempre meglio caricare tutto per bene, sicché troppo è meglio di troppo poco, allora perché non metterci anche un nero e un invalido? E siccome David e il compagno Patrick servono proprio a questo solo scopo, la cosa più semplice è mettere tutto insieme, anziché aggiungere altri fratelli: e così i due non formano solo una coppia gay, ma anche interrazziale; e in più David è pure sordo. Ma concentrare in un personaggio solo tre livelli di diversità non fa che metterne in luce il ruolo di semplice amplificatore: è un megafono per urlare senza grazia la propria dichiarazione di correttezza politica.

Lo capiamo particolarmente bene durante l’unica scena in cui il personaggio sembra assumere un ruolo di peso, la cena in cui Meredith ha un’uscita infelice sostenendo che le madri non potrebbero che augurarsi un figlio eterosessuale, potessero scegliere. Detta così la battuta è effettivamente aberrante, ma la poverina intendeva solo dire che una madre non potrebbe che augurare al proprio figlio di essere etero non perché la cosa in sé abbia importanza, ma perché la società lo accetterebbe e una madre non può che augurare al proprio figlio una vita che sia la meno difficile e sofferta possibile. Per quanto Meredith non si esprima proprio così, il senso di quello che vuole dire è ovvio, e non potrebbe non esserlo (insieme al motivo per cui non riesce a esprimersi meglio) per una famiglia composta da individui così aperti, disinvolti e progressisti, senza contare che il padre dovrebbe pure essere uno psicologo. Di conseguenza l’offesa percepita da David e Patrick, nonché l’intervento estremamente aggressivo di entrambi i genitori in loro difesa, appaiono talmente eccessivi (anche rispetto alla pacatezza dimostrata da tutti in tutto il resto del film) da rendere la scena a sua volta didascalica, pretestuosa, urlata. Sarebbe stata commovente vent’anni prima. Nel 2005 infastidisce per quanto è mal gestita e per come David viene usato solo come megafono marca MacGuffin & Co.

E poi diciamoci la verità, quale gay sano di mente era davvero pensabile che fosse disposto a dare addosso a Sarah Jessica Parker proprio a ridosso della chiusura di una serie di culto come Sex and the City? Una serie che oggi apparirà pure un po’ invecchiata, ma che allora era, come si suol dire, un must, oltreché (maldestramente) gay friendly?

Resta la vicenda della madre e della sua malattia, ma le cose non vanno diversamente: si tratta di un’altra sorpresa assai poco sorprendente, giacché la prima inquadratura in cui compare Diane Keaton indugia a mostrarcela seduta a fissare il vuoto, come una madre amorevole non farebbe mai se avesse cinque figli che non vede da mesi in arrivo a minuti per festeggiare il Natale. Salvo che non abbia un male incurabile.

La neve nel cuore è insomma una commedia innocua, che a tratti diverte ma che lascia nella sostanza indifferenti: se la si guarda dalla prima all’ultima sequenza è solo per vedere se davvero va a parare dove dice chiaramente di voler andare a parare, o se invece riserva qualche sorpresa e qualche trucco. Ma qui non ci sono sorprese né trucchi.

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