The Queen's Throat

7 gennaio 2015

La figura dell’opera queen, del melomane gay che idolatra come divinità una grande cantante lirica (o più di una: esistono anche in subiecta materia i monoteisti e i politeisti), il quale assiste a un melodramma come a un rito e a un’esperienza mistica che lo fa quasi uscire da sé stesso, è familiare a molti appassionati di musica operistica, sebbene gli studiosi se ne occupino di solito a livello meramente aneddotico, a mo’ di curiosità un po’ frivola. Il saggista americano Wayne Koestenbaum, egli stesso gay e innamorato dell’opera, dedica invece al fenomeno un intero libro, cercando di sceverare a fondo l’argomento, leggendolo da una pluralità di prospettive. Nato nel 1958, e cresciuto quindi già in epoca di esplosione del movimento omosessuale, egli sembra partire da esperienze proprie ma anche e soprattutto d’un’epoca più antica; e la trattazione ruota intorno alla domanda se la divinizzazione della diva del canto, da Adelina Patti ad Amelita Galli-Curci, da Nellie Melba ad Anna Moffo, sino alla diva delle dive, Maria Callas, cui non a caso è dedicato un intero capitolo, non dipenda in realtà dall’istituzione del closet: non è, insomma, che il gay costretto alla dissimulazione da una società che ne impedisce o ne scoraggia il coming out proietta e investe nella figura eccessiva, libera e sopra le righe della “diva” le sue aspirazioni di fuga e libertà? Detta così, un po’ alla buona, sembra una teoria semplicistica, ma l’autore la sviluppa con eleganza, sebbene in modo desultorio: e secondo me si tratta anche d’una teoria del tutto condivisibile; del resto, Koestenbaum la condivide con altri studiosi. Egli peraltro non si limita a ciò: uno dei nodi che cerca di sciogliere dandone una lettura in prospettiva gay è la natura ibrida del melodramma, sintesi di parola e canto; fin dai tempi della Camerata de’ Bardi, il problema è sempre stato quello di assicurare un equilibrio fra questi due elementi, ciò che poi, di fatto, si risolve nell’assegnare il primato a uno dei due. Koestenbaum individua nella parola l’aspetto normativo, maschile, e nella musica il principio femminile che mette in discussione e in dubbio ponendosi come alterità: ecco il perché della natura ambigua dell’opera, che tanto attrae il gay e ne fa, in certo qual modo, sia pur di solito a livello inconsapevole, un’opera d’arte eminentemente gay. Mi limito a ricordare questi due punti centrali della trattazione, perché mi sembrano quelli più rilevanti, ma il saggio, con la sua scrittura spesso irta ed estrosa, ne introduce molti altri, a volte anche solo in modo fugace. Se non riesco a trovare del tutto persuasivo questo libro è invece per il metodo usato dall’autore: non che si pretenda, soprattutto su argomenti siffatti, la seriosità accademica, ma un approccio molto meno personalistico sarebbe stato davvero necessario; Koestenbaum sembra guardare costantemente attorno al suo ombelico, scrive sempre in modo personalistico ed esagitato, ed anche quando potrebbe fornire una base argomentata alle sue osservazioni preferisce procedere solo per accostamenti suggestivi. Ciò inficia non poco il valore intrinseco dello scritto, il cui stile sovente si presenta oltretutto enfatico e ripetitivo. Quanto ai gusti musicali dell’autore, non li discuto, sono i suoi: ma il commento ad alcuni passi operistici celebri contenuto nell’ultimo capitolo è bruttarello davvero.
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