Un difetto di famiglia

22 gennaio 2016

Di fronte a un film televisivo benintenzionato, è cosa saggia accantonare buona parte delle proprie puzze sotto il naso e chiudere gli occhi di fronte a inestetismi più o meno irritanti, dai font scandalosi dei titoli di testa alle solarizzazioni turpi dei flashback, più altre approssimazioni tecniche a cui la nonnina teledipendente o la casalinga che stira davanti alla TV probabilmente non fanno caso.

In un prodotto come Un difetto di famiglia, diretto quindici anni or sono da Alberto Simone per la RAI, i contenuti contano molto più dei vistosi guasti nelle immagini girate con l'ausilio del green-screen (ogni volta che Nino Manfredi si mette al volante, la sua fronte diventa tutt'uno col panorama che si vede dal finestrino).

La storia di Un difetto di famiglia è quella di molti road movies, fondata sul principio che viaggiare vuol dire conoscere e quindi migliorare. In questo caso i due viaggiatori sono i due fratelli Gammarota, cioè Lino Banfi e Nino Manfredi, costretti dalle disposizioni testamentarie della madre defunta ad accompagnare i suoi resti mortali fino in Puglia (peccato che la voce della cara estinta fuoriesca di continuo dalla bara, grondando melassosamente su tutto il film sotto forma di commento onnisciente).

I fratelli Gammarota sono praticamente due estranei, al momento della narrazione; questo perché, alla fine degli anni Sessanta, il più grande dei due, Francesco (Nino Manfredi), si era dichiarato gay di fronte agli studenti del liceo del suo paesello, suscitando uno scandalo che aveva sopraffatto il fratello minore, Nicola (Lino Banfi). Francesco aveva colto l'occasione per lasciare l'Italia, girando per il mondo per quarant'anni senza dare notizie di sé, mentre Nicola, umiliato e offeso, l'aveva pubblicamente rinnegato.

Va da sé che al viaggio dei due, col carro funebre al seguito, sia delegato il compito di ricucire ferite apparentemente insanabili, ma ciò che l'ignoranza ha diviso, la conoscenza reciproca saprà ricongiungere.

Questa tesi è sicuramente abusata, ma è sempre efficace, senonché Alberto Simone e la sua co-sceneggiatrice Silvia Napolitano conoscono fin troppo bene i loro polli (cioè gli spettatori della televisione generalista, incarnati nel film dal personaggio di Banfi) e sanno che le lezioni di tolleranza vanno farcite come tacchini, con tutti gli stratagemmi pietistici del caso. Per esempio: se le due trans spagnole rigonfie di botulino a cui Manfredi dà un passaggio fossero andate semplicemente in villeggiatura, sarebbero state orrende creature meritevoli della deprecazione di Banfi e dello spettatore; ma poiché stanno andando a trovare un amico moribondo allora sono anche loro figlie di Dio.

Simone e la Napolitano scelgono dunque di “aiutare” la riconciliazione dei Fratelli Gammarota ricorrendo a uno sproposito di stratagemmi a dir poco fiabeschi: bare in fuga, rivelazioni postume, malattie terminali (ma non troppo), tentati suicidi e figli segreti.

Figli segreti, proprio così: Manfredi ha avuto una figlia dalla sua migliore amica, che gli ha chiesto di metterla incinta durante una notte ad alto tasso alcolico. Anche in questo caso gli sceneggiatori hanno tentato sfacciatamente la strada della circonvenzione dello spettatore medio/grezzo, assecondando i suoi presunti pensieri: un gay potrà essere omoaffettivo quanto gli pare ma, per farsi prendere sul serio e imporsi come un personaggio a tutto tondo, dovrà rivelare di aver giaciuto almeno una volta con una persona del sesso giusto e di “aver fatto centro” al primo colpo, cosa non da tutti.

Detto questo ci si chiederà: ma almeno Banfi e Manfredi sono bravi? Ma certo che sì, anche se Manfredi (allora più che ottantenne) parla al rallentatore, aggravando un po' il tono didascalico dello script. Il suo personaggio, infatti, parla come un libro stampato ed è più bidimensionale di quello di Banfi, che – man mano che cresce interiormente – cede a quel sentimento di sudditanza nei confronti del fratello maggiore che l'aveva caratterizzato anche da piccolo.

Proprio a Banfi è affidata, nel finale, una scena di grande soddisfazione: come segno di sfida nei confronti del consuocero bigotto e di solidarietà nei confronti del fratello, afferma di essere gay lui stesso («Dev'essere un difetto di famiglia...»). Si intravede allora, nel suo portamento e nella sua mimica, il fantasma del repertorio di mossette a cui aveva tante volte fatto ricorso quando ancora era un interprete disimpegnato che poteva scheccare nella maniera più plateale e senza (pensare di) offendere nessuno, prima dell'avvento del politically correct.

Ma immediatamente Banfi si ricompone, quasi pudibondo: non è più tempo di macchiette.

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