La gatta da pelare

22 giugno 2016

Nei manicomi, accanto al ben più celebre reparto dedicato ai sedicenti Napoleoni o Gesù, c'è una sottosezione riservata a coloro che si credono Woody Allen. Nel 1981, mentre scriveva La gatta da pelare, Pippo Franco avrebbe dovuto far visita agli ospiti di tale sottosezione, così da rendersi conto che, con il film che aveva in cantiere, si stava praticamente autodenunciando come un candidato perfetto per l'internamento.

La gatta da pelare prefigura l'amena incursione di Allen nel genere del giallo-rosa di Misterioso omicidio a Manhattan, ma c'è da essere ben strambi per affermare che il cineasta di Brooklyn si sia ispirato a Pippo Franco. Meno rischioso è ipotizzare che il sacco a cui il comico romano ha attinto a piene mani – per infarcire il suo unico film da regista di battutine sulla psicoanalisi e di umorismo self-deprecational – sia proprio quello di Woody Allen.

Purtroppo Pippo Franco non può fare molta strada con il maltolto. I suoi motti di spirito di non vanno quasi mai a segno perché appesantiti da troppe parole; ogni piccola eccezione («In questo momento mi sento come Rodolfo Valentino... morto da cinquant'anni») pare un'oasi nel deserto. Va anche peggio con la presa in giro della psicoanalisi, molto meno efficace e dettagliata che in certe vignette che si trovano sulla Settimana enigmistica (il succo è «chi va dallo strizzacervelli, se non è già matto lo diventa»).

Il riferimento alle vignette non è casuale: Pippo Franco veste i panni del disegnatore umoristico di un giornale, anche se la sua arguzia è molto meno acuminata del suo leggendario naso. Per una singolare coincidenza è un vignettista anche l'odioso personaggio interpretato da Enrico Montesano in un filmaccio coevo, sempre dell'81, diretto (ahilui) da Steno: Quando la coppia scoppia.

In entrambi i film il vignettista ha: 1) uno spirito di patata al cento per cento; 2) un rapporto problematico con la consorte e una tendenza alla gelosia che gli crea incalcolabili problemi; 3) un vicino di casa vistosamente omosessuale, fatto oggetto di qualche irrilevante battuta.

Se in Quando la coppia scoppia troviamo il leggendario Franco Caracciolo nei panni (o meglio, nella vestaglia a cuoricini) di un inquilino che tuba con un marinaretto afroamericano, nel caso de La gatta da pelare abbiamo una specie di custode con un pesante accento veneto (Franco Bisazza) che svolazza in grembiule per i pianerottoli; tempo dieci minuti e si è già offerto di sorvegliare il passerotto di Pippo Franco quando questi sarà in viaggio (a riprova del fatto che, nell'ottica del cinema italiano, i gay non sono esattamente degli esteti, a meno che non si chiamino Gustav von Aschenbach). A un certo punto il nevrotico Pippo si lamenta in sua presenza del fatto che l'antifurto della sua macchina suoni esclusivamente quando è lui stesso ad aprire l'auto. Su queste basi definisce il clacson “invertito”; ma poi, accorgendosi di non aver portato a termine la gaffe, specifica: «Scusi, non volevo dire frocio». Invece di dargli lo scopettone sulle gengive, il custode abbozza mitemente, ma del resto perché dare risalto a certe “bagaglinate” con reazioni eclatanti? Questo marginale personaggio sembra essere sul punto di essere promosso a un grado più elevato quando viene inquadrato con un'espressione sospetta in occasione dell'omicidio dello psicoanalista odiato da Pippo Franco. Che ci sia o meno una precisa strategia registica per far sospettare di questa docile checca, non lo sapremo mai perché tanto non la incontriamo più; il finale – prevedibile anche per chi non riesce a venire a capo delle inchieste di Topolino – ne attesta la (purtroppo) inevitabile innocenza.

Come regista Franco non sbalordisce in negativo, men che meno in positivo. Sa far recitare gli attori che sanno recitare (Orso Maria Guerrini e Tuccio Musumeci), mentre abbandona al loro destino gli interpreti dotati di scarsa autonomia: ho visto vongole (ma anche cassette della posta) dialogare in modo più animato rispetto a Janet Agren e Daniela Poggi, lasciate incautamente sole in qualche scena di raccordo. Le due bellone incarnano rispettivamente la “complice” e la moglie di Franco: entrambe, entro la fine, si rivelano talmente infide che lo sfiduciato Pippo urla agli infermieri dell'ospedale dov'è rinchiuso «Trasferitemi al Reparto Froci!», una battuta memore del «Perché non siam nati tutti finocchi?», grido di battaglia di Gastone Moschin in Amici miei.

Firmando perlomeno una colonna sonora rispettabile, Pippo Franco si sottrae a malapena dal ricovero in un ennesimo ipotetico reparto manicomiale, destinato a quelli che – senza averne le capacità – recitano, dirigono, sceneggiano e musicano, manco fossero Charles S. Chaplin.

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