Gola profonda nera

11 agosto 2016

Gola profonda nera è un film di serie I, non perché stia suppergiù a metà strada tra la A e la Z, ma perché è la I di Imbarazzo a predominare su ogni possibile sensazione. Ma la I può anche stare per Irresolutezza: così come non vanno da nessuna parte le sotto-trame di sapore para-psicologico, investigativo e gialleggiante (veramente quella gialla/investigativa dovrebbe essere la trama vera e propria, ma i vari registi del film succedutisi al transfuga Guido Zurli non sembrano esserne stati informati), non va a segno neppure la dimensione erotica che dovrebbe dare al film il suo perché.

Per colmo di ingiuria, la sceneggiatura di Guido Zurli e Vito Bruschini (degna di un fotoromanzo d'antan) contribuisce a far notare tale fallimento con pretenziosi scambi di battute: «Che cosa ne pensa dell'ondata di erotismo che ha sommerso il nostro cinema?» domanda la giornalista Claudine, cioè Ajita Wilson, con il viso ombreggiato dai suoi monumentali zigomi, unici interpreti della pellicola. «Mah, personalmente non ci trovo niente di male, salvo che troppo spesso si fa più pornografia che erotismo» risponde Ivano Staccioli, caratterista decente per abitudine, ma che qui vaga con l'aria perennemente incredula di chi si è visto addossare indebitamente un personaggio misterioso e carismatico, cioè Josè Depardieu, un regista con il pallino per le orge spericolate.

Depardieu – che dimostra la propria opulenza di ricco playboy con delle vestaglie di magnetica bruttezza – ha ragione da vendere: lo stesso Gola profonda nera è semplice, insipida pornografia, con tanti corpi rotolanti e molti dettagli per niente eccitanti. Questa pellicola si segnala esclusivamente per un'eccezionale presenza di lesbiche, caratterizzate con varietà inusitata.

La protagonista Claudine è fondamentalmente eterosessuale (il transessualismo di Ajita Wilson, di cui vediamo continuamente i genitali nuovi di pacca, è irrilevante ai fini dalla trama) ed è in tal senso si orienta la sua ninfomania, causata da un trauma infantile rievocato da un flashback goffissimo: la Wilson, camuffata da verginella, viene gettata sul letto dal patrigno mentre sua madre urla «È una bambina!». Ma, quando la convenienza lo impone, Claudine si può improvvisare omosessuale in favore delle lesbiche convinte; esse sono rarae aves in un cinema come quello italiano, che non manca mai di suggerire (salvo rilevanti eccezioni, come Perché quelle strane gocce sul corpo di Jennifer?) che di lesbiche non redimibili né bisessuali all'occorrenza non ce ne siano affatto. Il lesbismo infatti non parrebbe un'inclinazione vera e propria, bensì un favore per lo spettatore più lubrico ed “esigente”.

A trarre vantaggio dall'interessata disponibilità di Ajita/Claudine è la ricca Françoise dalla chioma ramata (Agnes Kalpagos), descritta come «lesbica dalla punta dei piedi alla cima dei capelli» da un'esperta in materia, una collega di Claudine chiamata Angelica. L'orientamento di Françoise non le impedisce ovviamente di essere sposata: il suo matrimonio è talmente felice che il premuroso marito le ha procurato una garçonnière e l'ha iscritta a un maneggio dove le ninfomani danarose possono “oziare” proficuamente. In questo maneggio Claudine la irretisce con un contatto visivo tanto intenso da bucarle la cornea, e completa l'opera buttandosi da cavallo e facendosi raccogliere dalla bramosa rossa. Segue un esemplare scambio di battute: «Forse avresti preferito un bel principe azzurro al mio posto» chiede circospetta ma fiduciosa Françoise; «Posso adattarmi benissimo» replica Claudine. Entro l'ultima sillaba ha già cominciato a slacciarle la camicetta.

Lo spirito di adattamento di Claudine viene ribadito in più occasioni: nel suo momento più “basso” si concede alla succitata collega Angelica (Patrizia Webley), la quale è perdutamente innamorata di lei ed è convinta che Claudine utilizzi la ricerca dello scoop come pretesto per sfogare le proprie tendenze saffiche. Povera credulona: dopo una notte infocata, Claudine tenta con noncuranza di estorcerle ventimila franchi, collocandosi in una ricca tradizione di finte-lesbiche utilitariste, molto ricorrenti nei thriller all'italiana (a partire da Orgasmo di Umberto Lenzi).

Il lesbismo abbonda anche tra le figuranti: ninfette «molto giovani e molto innamorate» si rincorrono nella villa del regista Depardieu; una nerboruta sorvegliante del club per pervertiti in cui Claudine si è intrufolata la osserva con solerzia eccessiva mentre si spoglia; nel medesimo club le clienti copulano persino sulla cyclette, pedalando con esasperante lentezza...

A questo film martoriato – di cui si conoscono vari finali tutti inverosimili – si può assegnare una terza I, non più lusinghiera di quelle appioppategli nell'incipit: la I di Inettitudine, presente a ogni livello, tanto nell'apparato tecnico quanto in quello artistico, ma in modo particolarmente sensazionale nella protagonista Ajita, una cera incapace di scaldarsi.

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