Ikea gay horror story

21 ottobre 2018

Nel 1988 il primo ciclo di horror slasher, sviluppatosi tra gli anni ’70 e l’inizio degli ’80, era ampiamente esaurito ma ne era stato avviato un secondo, successivo alla fortuna di Nightmare. Il principio era sempre lo stesso: prendere un gruppo di ragazzini, isolarli dalla comunità adulta, lasciarli per tutto il film in balia di un killer più o meno squilibrato in modo da avere occasioni per esibire effetti speciali, fino allo scontro finale. Campeggi isolati, case abbandonate, miniere, treni, intere periferie urbane: un’infinita teoria di luoghi claustrofobici erano serviti allo scopo. Evidentemente iniziavano a scarseggiare se Michael Kelly – lo sceneggiatore, cui è attribuito un solo altro film, quindici anni prima, e fortunatamente nessuno dopo – non sa inventarsi niente di meglio che rinchiudere il nuovo gruppo di adolescenti in calore in un negozio di mobili per una notte. Il problema è che al piano superiore abita appunto il serial killer, ma il contesto ha un suo vantaggio indubbio essendo pieno di letti, di modo che ragazzi e ragazze possano spogliarsi generosamente. È in effetti un vantaggio notevole anche per lo spettatore, considerato non tanto quello che gli viene mostrato, ma quello che gli è risparmiato, cioè gli abiti degli anni ’80.

Anche le variazioni sull’origine e sulla natura delle turbe del serial killer erano più o meno state già sfruttate tutte, sicché qui non si fa altro che esplicitare quanto altrove era lasciato implicito, dal modello di Norman Bates sino all’evidente sottotesto omoerotico del secondo capitolo della saga che fa da nuovo modello, Nightmare 2 (1985). Doppio delitto sembra andare nella stessa direzione introducendo due dei protagonisti mentre sollevano pesi insieme. Dopo un paio di movimenti svogliati e scoordinati, uno invita l’altro a fare la doccia insieme, per due volte, mentre mangia una banana che gli rivolge allusivamente.

Nonostante ciò, per il resto il film è una stanca ripetizione della struttura narrativa degli slasher del primo ciclo, con qualche efficace momento di tensione ma recitato con crudele insipienza e scritto presumibilmente nell’arco di una sola pausa pranzo. Inoltre The Slumber Party Massacre (1982), diretto da una donna e sceneggiato da una femminista gay con ambizioni di decostruzione militante, aveva già dimostrato che era impossibile mutare il senso di una tradizione profondamente conservatrice e vincolante come quella degli slasher per farne qualcosa non dirò di militante, ma anche solo di politicamente corretto.

Forse per questo Kelly e il regista nemmeno ci provano, sicché non danno nessun seguito a banane già avviate e millantate docce, prendendo invece molto sul serio il loro killer omosessuale, in linea con quanto prescritto dalla crisi dell’AIDS. Lo introducono così subito all’inizio, di spalle (la rivelazione del volto, come da convenzioni, è rinviata al finale), mentre si trucca doviziosamente, in modo talmente pesante da disgustare persino le prostitute (e due prostituti) tra cui va cercando la sua prima vittima.

L’unica novità che riescano dunque a concepire è l’esplicitazione di elementi intorno ai quali ruotava una ormai lunga tradizione, tramite un tentativo addirittura grottesco di aggiornare quell’omofobia hollywoodiana da poco messa alla berlina (con molte semplificazioni) da Vito Russo ma indubbiamente al fondo della rilettura che la tradizione slasher aveva fatto del modello di Psycho (se qualcuno fosse interessato ad approfondire la questione, lo rinvio a un mio libro di qualche anno fa). Kelly accumula allo scopo una quantità paradossale di luoghi comuni, aggiungendo al travestito psicotico e omicida del prototipo la nuova suggestione ansiogena della cultura leather. Il decennio si era del resto aperto con il discusso Cruising (1980), e bisogna ammettere che William Friedkin aveva saputo spaventare di più con il cuoio sulla pelle nuda che con la crema di piselli vomitata in gran quantità dalla povera Regan sette anni prima nell’Esorcista (all’epoca non si era molto sensibili alle intolleranze alimentari).

Se dunque il killer è un mostro, è semplicemente perché questo è il risultato della sovrapposizione delirante di tutti i luoghi comuni possibili e immaginabili coltivati dall’immaginario eterosessuale e familista in merito alla mostruosità degli omosessuali: è infatti stato in una clinica psichiatrica, in prigione (dove gli uomini, si sa…: e lì ha trovato pure fidanzato), si trucca da donna ma veste leather, è sentimentalmente instabile (uccide perché il fidanzato, quello trovato in carcere, l’ha poi piantato, chissà perché…). Il tradizionale confronto dei giovani con il mostro è anzi qui soppiantato proprio dal dover assistere con comprensibile perplessità a un litigio coniugale tra i due ex fidanzati, prima che passino alle mani. Quello più sano di mente finisce con un coltello piantato in gola, sicché a doversi occupare del killer sono, come da regole del genere, proprio i ragazzini, o meglio una ragazzina. Ma non deve fare molto: basta che prenda in mano un rasoio e il travestito leather ex carcerato da manicomio, impegnato a mandare bacini a distanza al ragazzo in mutande, si spaventa e scivola sul sangue di una delle sue vittime cadendo per tre piani.

Sarebbe poi vano commentare l’inutile finale aperto di un film per il quale, nonostante la buona fede patriarcale, nemmeno Reagan (Ronald, non quella della crema di piselli) avrebbe auspicato un seguito e di fronte al quale possiamo solo chiederci come abbiamo fatto a sopravvivere agli anni ’80.

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