Freddie Mercury, Zarathustra e lo strudel

15 marzo 2019

Non promette granché bene un film biografico di cui tutti vanno ripetendo compulsivamente che il protagonista assomiglia in modo impressionante alla persona che deve ritrarre, per quanto il caso contrario possa risultare fastidioso. La vicinanza fisionomica tra Ashton Kutcher e Steve Jobs è certamente più “tollerabile” di quella tra il fondatore di Apple e Michael Fassbender, ma Jobs (2013) è un film meno digeribile di Steve Jobs (2015), per quanto neppure quest’ultimo possa vantare grandi pregi.

Ecco, è vero quello che tutti vanno dicendo: Rami Malek assomiglia a Freddie Mercury. Ma forse anche Fassbender con la protesi dentaria giusta avrebbe fatto al caso nostro. Ora, nei rari momenti in cui sono riuscito a distogliere lo sguardo dagli incisivi posticci di Malek, non ho trovato granché d’altro che meritasse attenzione in questa agiografia calmierata di un Freddie Mercury per famiglie più o meno esemplate sulla sua. Ovvero su quel padre e quella madre zoroastriani che sembra non facciano molto più che stare seduti a tavola o in poltrona a guardare la tv. Immagino che l’essere seguaci di Zarathustra comporti anche altro, altrimenti lo saremmo tutti. Mi chiedo se gli zoroastriani, dal canto loro, guardando Bohemian Rhapsody si chiederanno se l’essere omosessuali comporti qualcos’altro che guardare orsi che vanno al cesso o baffe leather in locali fumosi, visto che di più il film non mostra.

Ci ritroviamo così con la solita ascesa per aspera ad astra di un sottoproletario che scarica valigie all’aeroporto di Heathrow e arriva a cantare al Live Aid. Dove ovviamente, nonostante la presenza di mezzo Gotha della musica (nomi che conosco persino io, che quando sono in vena di trasgressioni musicali ascolto Renata Tebaldi), sono i Queen quelli che fanno incassare i milioni a telefonisti fino a due minuti prima prossimi al suicidio, perché nessuno chiamava per fare donazioni. Singer tratta insomma Mercury più o meno come uno dei suoi X-Men, che quando scopre come controllare il suo superpotere parte alla conquista del mondo.

Questo Mercury bambinone, innocente e vulnerabile, mi ricorda in modo inquietante l’immagine vulgata di Michael Jackson, salvo che le sue preferenze sono indirizzate agli adulti (o così sembra di capire appunto da certe sue occhiate). Vero è che, come tutti i ragazzi un po’ discoli, si concede qualche intemperanza (a cominciare dallo sdilinquirsi quando la fidanzatina gli mette per la prima volta il mascara), ma noi non lo vediamo mai fare nulla di disdicevole. Nulla, ad esempio, ci dice che quei bicchieri ancora mezzi pieni di un liquido che potrebbe essere alcol e quella polvere bianca tutta intorno, che potrebbe essere droga, non siano in realtà gli avanzi del tè delle cinque con una fetta di strudel. E io, che sono goloso, lo strudel avrei voluto vederlo.

Quando si viene a droga a sesso, tutto si limita al prima (gli amici radunati per quella che dovremmo immaginare un’orgia) e al dopo (la casa per l’appunto un po’ in disordine). A onor del vero bisogna dire che Mercury qui non combina nulla nemmeno con la moglie, con cui si limita a scambiare qualche bacio. La questione della sua omosessualità si risolve semplicemente in un breve dialogo cui segue l’acquisto di quella specie di Neverland in miniatura dove il nostro Peter Pan spera di poter conservare la donna al suo fianco per giocarci al telefono e con segnali luminosi (vedere per credere).

Lo stesso si può dire per l’AIDS (non si va oltre i primi sintomi, perché il film si ferma sul trionfo del 1985, ben prima che la malattia si aggravi) o per il passato di Mercury, che dice di essere tormentato dalle ombre della sua infanzia ma tutto quello che noi vediamo è un padre neanche così rigido che gli dà tutto sommato un buon consiglio e una madre che gli ha già perdonato tutto, anche se un po’ inturgidita dall’atmosfera di casa.

Se le cadute mancano e vanno immaginate, viceversa le risalite sono ritratte con una puntualità che diventa inevitabilmente pedante, perché sovrabbondante rispetto al nulla che le ha precedute. Il film può così fingere di non essere stato reticente (in fondo ci dice tutto: che Mercury era gay, che si drogava, che è morto di AIDS) pur essendolo al quadrato perché appunto si limita a dire. Di conseguenza, questo Mercury bonaccione può compiacere chiunque, le famigliole di Raiuno così come i fluido-queer di nuova generazione, che immagino apprezzeranno la battuta sul non voler essere un “uomo manifesto” con cui si liquida la controversa questione dell’immagine pubblica del cantante e del suo rifiuto di rilasciare dichiarazioni sulle sue preferenze (si trattasse di uomini o di dolci tirolesi). E le conseguenze non sono così irrilevanti, visto che gli omosessuali di questi anni Ottanta sono proprio come quelli che dipingeva il cinema istituzionale degli anni Ottanta: infantili, nevrotici, erotomani, irriconoscenti, o peggio infidi, cattivi consiglieri e vendicativi (come il braccio destro di Mercury), con la sola eccezione di un cameriere dignitoso quanto basta da non farsi mettere le mani addosso mentre lavora, ma che entra davvero in scena quando il film è finito.

Insomma, scomparso il sesso e scomparsa la droga, della triade canonica rimane solo il rock 'n' roll. Bohemian Rhapsody, così subdolamente debitore della tradizione maestra della Hollywood classica (in cui i musicisti gay notoriamente diventavano per incanto eterosessuali, come nella famigerata biografia di Cole Porter), si riduce infatti alla fine a una (lunga, lunghissima) antologia dei Queen che non ha nulla da raccontare ai fan di Renata Tebaldi, condannati a passare due ore ad ascoltare gli acuti posticci di Mercury/Malek avendo davanti agli occhi il ricordo costante del “Gugliemo il dentone”/Alberto Sordi dei Complessi.

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