Contessa sanguinaria, La - Una fantasia lesbo-sadica su Erzsébet Báthory

19 luglio 2008

Definire "sconcertante" questo racconto/fantasia lesbo-sado del 1965 è poco.

L'autrice ha solo preso a pretesto la figura della contessa Erzsébet Báthory, condannata nel 1610 con l'accusa di avere torturato nel modo più atroce e poi ucciso quasi 650 ragazze.

Ciò che le interessa non è però la vicenda storica (che sarebbe pur sempre legittimo materiale di analisi), quanto l'occasione per scatenarsi nella descrizione di fantasie sadiche in cui il sangue scorre a fiumi, le vittime sono torturate senza pietà, mentre lei, la contessa, assiste glaciale e bellissima al massacro, biancovestita e in preda a frenesia erotica.

Personaggio che oggi ci appare a metà fra Dracula e Sade, la Báthory come la si conosce di solito è effettivamente un "personaggio", e appartiene allo stesso reame dei due appena citati: la letteratura, non certo la storia.

Le accuse contro di lei furono, alla pari di quelle contro Gilles de Rais (anch'egli evocato dalla Pizarnik, nelle ultime righe di questo scritto) in gran parte una montatura politica per privare la ricca e potentissima vedova del suo eccessivo potere.

E la sua stessa figura d'inquietante genio del male è anch'essa creazione letteraria, "personaggio letterario" per l'appunto, frutto della propaganda degli scribacchini al servizio del re, per giustificarne la condanna e renderla un atto dovuto.

La Pizarnik non si preoccupa minimamente di sollevare questo velo, questo ambiguo gioco in cui i letterati "creano" traendole interamente dalla loro fantasia le "storie vere" per poi spacciarle (e sempre a sostegno del Potere) per realtà. Per lei la letteratura è effettivamente la realtà, e la realtà esiste solo come pretesto per fare letteratura...

Presa dalle sue ossessioni sadiche e dalle sue fantasie masturbatorie, la Pizarnik non prova la minima compassione per le vittime, meri oggetto di divertimento, giocattoli sessuali, addirittura "donatrici" (p. 32) di sangue con le loro emorragie, mai però esseri umani.

Particolarmente imbarazzante risulta col senno di poi il fatto che l'argentina Pizarnik ripubblicò in forma di libro questo racconto nel 1971, un anno prima di suicidarsi, alla vigilia dell'orgia di violenza sadica scatenata dalla dittatura militare argentina. Un segno di quanto possa diventare imbarazzante, appunto, la letteratura fine a se stessa, incurante della realtà.

Perchéimbarazzante è il pensiero che può essere ripetuto dei torturatori argentini tutto quanto la Pizarnik ha detto qui sulla "convulsa bellezza del personaggio" (p. 5), arrivando a ripetere per loro che

"nella sala delle torture del suo castello medievale (...) la sinistra bellezza delle creature notturne si riassume in un pallore silenzioso e leggendario, in occhi folli, in capelli del sontuoso colore dei corvi" (p. 6).

Non ci siamo proprio.

Nella bella e intelligente postfazione di Alessandra Lazzaretto, uno studio critico che costituisce da solo la metà di questo librettino (pp. 39-59), la questione è ovviamente presa di petto.

La risposta migliore al quesito mi sembra la sua citazione di una recensione scritta dall'argentino Eloy Martinez, citato a p. 56:

"Forse perché l'immaginazione vola sempre più veloce della realtà, ogni volta che una società è sul punto di cambiare, i primi sintomi appaiono non nei discorsi dei politici o negli editti dei militari, ma nelle pieghe segrete della letteratura. Nella poesia, nel teatro e soprattutto nei romanzi è possibile scoprire i modelli di realtà che si avvicinano e che ancora non sono stati formulati in modo cosciente".

In realtà, questa considerazione non è valida in astratto. Ad esempio, Sade è il cantore delle fantasie di una società sul morire, quella del possesso fisico dei corpi dei più da parte di una minoranza cui per nascita era garantito il diritto ad ogni piacere, a qualsiasi costo.

La società che venne dopo di lui abolì il possesso legale sui corpi, per sostituirlo con i legami esterni del bisogno economico, della "mano invisibile del mercato" delle "ragioni imprescindibili" dell'economia borghese.

Tutt'altra direzione, insomma.

Eppure, il discorso di Martinez alla Pizarnik si addice. A questa scrittrice e poetessa, per conquistati meriti letterari, si vuol risparmiare l'accusa d'essere stata sulla stessa lunghezza d'onda sociale e culturale che rese possibili le torture dei militari quale "male minore", quale "quasi-bene" desiderabile per preservare dalla minaccia delle rivendicazioni delle classi popolari.

Così, oggi che l'entità del massacro argentino è nota a tutti, è imbarazzante osservare la contiguità del piacere esibito da questa scrittrice, e quello dimostrato dai torturatori suoi connazionali solo pochi anni dopo nell'escogitare sempre nuove torture. Ovviamente di "convulsa bellezza".

Certo, ammetto senza difficoltà che forse la Pizarnik è stata semplicemente sfortunata. Sfortunata perché a pochi anni dal suo suicidio qualcuno mise in pratica le sue teorie estetiche, che immagino lei avesse messo su carta giusto per épater le bourgeois e rubare qualche fremito alle vite annoiate di persone troppo assuefatte (per interesse) al male vero per riuscire a percepirlo se non in forma estetizzante.

Altri invece, più fortunati di lei, han potuto dilettarsi in questo giochino, magari per decenni, senza che la cronaca contingente svelasse apertamente come la Bellezza del Male sia sempre stata solo un altro nome per definire la Banalità del Male.

Non consiglio in conclusione la lettura di quest'opera (la cui traduzione giudico superflua) a meno di essere eccitati dalle fantasie masturbatorie saffico-sadiche.

Peccato, considerata la cura impeccabile e l'amore filologico (a mio parere, degni di miglior causa) con cui è stata presentata al mercato editoriale italiano.

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