Gino e l'Alfetta, di Daniele Silvestri (2007)

Il video tratto da questa canzone è paradigmatico del "panico da omosessualità" che il solo nominare la parola scatena nel mondo dei cinematografari italiani. Il quale, a giudicare dalle prove negative che ha continuato a collezionare in tutti questi anni, per omofobia è secondo solo alla Chiesa cattolica, e precede, sa pur di poco, il mondo della moda. (E quando uno si chiede cos'abbiano in comune queste tre realtà la risposta è semplice: attirano come calamite i froci incapaci di accettarsi come tali, e che quindi odiano con ferocia chi non è represso come loro: da qui la loro pervicacia nel cercare di dare la peggiore immagine possibile di "quelli là").

La canzone in sé è perfettamente ok: il testo racconta d'un uomo, non è chiaro se gay represso o bisessuale, che finalmente sembra rendersi conto del fatto che un certo Gino possa "dargli di più".
Un po' meno ok è il modo in cui si relaziona con la sua ragazza, che rassicura: "Maria, sei sempre mia, / sei l'unica possibile", salvo poi aggiungere l'inevitabile "ma": "ma di Gino io mi fido un po' di più: / lui mi conquista / e mi rilassa; / Gino ha i miei stessi punti di vista, / e per adesso mi basta". Occorrerebbe capire se ciò "basti" anche a Maria, ma è notorio che della sorte e del punto di vista delle donne che hanno avuto la sfortuna d'inciampare in un uomo gay velato o "bisex", come partner, la canzonetta italiana s'è disinteressata, diciamo, fino al 2010/2011.

L'io narrante comunica ai presenti che deve andare, che ha fretta, perché questo Gino lo aspetta dentro la sua Alfetta, sfuggita miracolosamente alla rottamazione, ma a lui va bene così:
"Vado di fretta: / (...) / Gino mi aspetta / dentro un'Alfetta / piena di muffa".
Naturalmente questa rivelazione porta con sé le ovvie domande da parte degli amici con cui si sta parlando l'io narrante, che se non altro hanno il diritto d'essere stupiti, dato che l'io narrante continua a tenere il piede in due scarpe, per via di Maria.
Lui comunque, che ha ancora la testa non troppo lucida relativamente a quel che è, non sa dare una risposta, ma si produce nel numero del "sono gay, cazzi miei, va bene? Anzi non lo sono, anzi sì, anzi no, anzi sì".
Ok, abbiamo capito che il ragazzo ha ancora bisogno di un attimino di tempo per riflettere chi sia e cosa voglia. Augurandogli che non faccia la fine, tipicamente italiana, di chi conclude che froci sono coloro che vanno a letto con lui, mentre lui è normalissimo o "al massimo, biseccs".
Per ora si difende però abbastanza bene, fatto salvo l'ipocrita rassicurazione a Maria sulla sua "unicità":
"Mi dirai: "Come fai? / Come mai non lo sai, cosa sei? / Sei diverso da noi!" / Ma che vuoi? Sono gay, fatti miei, / che disturbo ne hai? / (...) /
No, non sono gay, ma vorrei. / (...) / Preferisci pensare / che un gay sia una sorta di errore / (...) / e lo tollererai solo in televisione? /
Lo chiamano gay, / e tu pensi ricchione!".
Diciamo che il punto di vista espresso dall'io narrante è piuttosto chiaro, per quanto riguarda i diritti delle persone gay, e che Maria è stata infilata nella canzone come "donna dello schermo", come omaggio all'ideologia dell'eterosessualità obbligatoria.
La canzone ha insomma alcuni punti d'ombra, ma è la vita stessa ad averne.

Se però si passa al video, l'ombra dilaga e conquista lo schermo.
Perché la storia d'amore con Gino svanisce nel nulla, e si trasforma in una storia di furto d'automobili ai danni dell'Alfetta. Sì, avete letto bene.
La storia per immagini vede due colleghi (secondo Wikipedia, due poliziotti in borghese di pattuglia assieme) che evidentemente praticano il car sharing, uno dei quali va a prendere al mattino presto l'altro con l'Alfetta, e un Daniele Silvestri che si rassetta in una stazione di servizio. A un certo punto due "donne", alle sue spalle si mettono a urinare in piedi negli orinatoi, e già questo "butta male".

Fra i due amici esiste una tensione latente, dato che uno dei due palesemente innamorato dell'altro, Gino, e trasalisce ogni volta che l'amato lo tocca in un gesto amicale, che per lui è qualcosa di più.
A Daniele Silvestri viene rubata l'auto, e allora che fa? Ruba a sua volta l'Alfetta, lasciando i due a piedi. (Due poliziotti che lasciano l'auto aperta e con le chiavi inserite? Mah!).
I due colleghi trovano una borsa dimenticata dal ladro, che contiene il manifesto con il quale Silvestri aveva annunciato che avrebbe partecipato al Roma Pride di quell'anno (e qui l'innamorato-di-Gino ha un sorriso di sollievo nel vedere dove stanno per andare) per girare le riprese di questo video.
I due amici vanno al Pride, trovano Silvestri, lo tirano fuori dalla macchina e l'innamorato-di-Gino ha un gesto d'intimità col ladro bevendosi l'aranciata che Silvestri aveva in mano mentre guidava l'Alfetta al Pride. Gino lo guarda sconcertato, e l'innamorato sorride soddisfatto di sé e della propria "prodezza".

Come si vede, il video contraddice completamente il testo della canzone. Com'è d'abitudine nei clip italiani di canzoni che potrebbero anche lontanamente essere sospettate d'essere gay-friendly.
Da seduttore che "conquista" l'amico, Gino è trasformato in ignaro oggetto d'un amore inconfessato e inconfessabile.
Da strumento che facilita gli amori fra i due, l'Alfetta è trasformata in refurtiva.
Da persona che affronta gli amici per ammettere con loro quel che è, l'io narrante diventa uno che si tiene dentro tutto e lo nasconde.

Ovviamente, a questo punto, restava il problema non piccolo di spiegare il ritornello "sono gay, sono gay, sono gay", e qui è entrato in gioco il Roma Pride 2007, che visto così è una roba che non si capisce cosa c'entri. E infatti non c'entra, ed è stato infilato per negare quel che la canzone affermava. Gli altri, quelli del Pride, sono gay, ma Gino e l'io narrante, no...

Non ho voglia di perdere tempo a commentare queste scelte di regia. Che si riducono tutte ad una sola: il regista aveva per le mani una relazione gay, con i suoi problemi, ma anche col necessario coraggio per mostrarsi al mondo. Ha scelto di censurarla. Come al solito.

L'Italia è una nazione in cui i dirigenti televisivi teorizzano apertamente il dovere di censurare qualsiasi riferimento alle coppie e ai matrimoni gay. Anzi, è l'unica nazione europea in cui ciò avvenga.
I registi italiani, per quante arie di "artisti liberi" si diano, non sono più liberi, e più degni di dirsi artisti, di quanto non lo siano questi dirigenti televisivi, che a tutti gli effetti possono essere considerati fascisti, perché gestiscono la televisione come ai tempi del MinCulPop: a colpi di veline dal Palazzo (per chi se lo fosse scordato, le "veline" erano esattamente questo, e non vallette televisive).

Può darsi che un Paese alla fine abbia sempre "i politici che si merita", tuttavia a volte riesce almeno a consolarsi con "gli artisti che non meritava". Ma palesemente, purtroppo, questo non è il caso dell'Italia.
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