Calavrisella mia, facimmu 'amuri?

La storia delle lesbiche contadine italiane attraverso le tradizioni orali

26 ottobre 2004, Quir: mensile fiorentino di cultura e vita lesbica e gay, e non solo..., 11, 1994, pp. 23-26, poi su Babilonia

Per quanto riguarda la storia lesbica e gay, in Italia la cultura e le tradizioni popolari sono un campo di studio inesplorato che puáoá riservare molte sorprese. Sappiamo qualcosa delle lesbiche celebri, aristocratiche od artiste appartenenti ad una determinata classe sociale perchè hanno potuto lasciare documenti scritti, e conosciamo le descrizioni delle "invertite" ricoverate in manicomio grazie al fatto che gli psichiatri ne descrissero i casi clinici.

Ma non sappiamo quasi nulla delle esperienze e della vita sessuale e affettiva della stragrande maggioranza delle donne, in particolare di quelle che vivevano lontane dalle città, appartenevano a comunità contadine, agrarie e pastorali e non avevano accesso alla scrittura. La loro storia può essere invece, almeno in parte, recuperata con lo studio delle tradizioni orali: credenze, valori e atteggiamenti morali venivano diffusi e trasmessi di generazione in generazione attraverso canti, proverbi, riti magici, favole, ecc.

Possiamo così scoprire che in comunità relativamente isolate dalla cultura dominante i rapporti sessuali tra donne erano considerati comuni, e che potevano anche essere accettati grazie ad una strategia che considerava questa (ed altre) trasgressioni come dovute a strani accadimenti o a malie, che in qualche modo giustificavano la donna che ne era oggetto, e ne impedivano la condanna totale.

Giovanni de Giacomo [1] nel 1889 ascoltò da Teresa Sarsale, anziana vedova di un ricco pastore (che cioè possedeva greggi proprie), nata a Cerchiara in provincia di Cosenza, alcuni canti erotici delle comunità pastorali del basso Pollino, un massiccio montuoso ai confini della Basilicata.

In essi si afferma il primato dell'appagamento fisico rispetto alla tensione del desiderio, e si rispecchiano norme diverse da quelle esistenti nella cultura dominante, messe in parola e socializzate dalle donne. Questa letteratura erotica femminile fortemente trasgressiva fece sicuramente parte della cultura delle donne che ascoltarono i canti e li tramandarono, ma per sopravvivere attraverso generazioni essa dovette godere anche del consenso della comunità (che altrimenti l'avrebbe censurata o cancellata) fino quasi ai giorni nostri, quando fu "interamente distrutta quasi senza essere stata notata".

Leggendo questi testi si può rilevare che le donne anziane ritenevano la sessualità un loro diritto, e la praticavano in tutti i modi possibili, dai rapporti con uomini, adolescenti e donne, alla masturbazione e ai rapporti con gli animali. Ed erano loro, le anziane, a trasmettere i principi della morale sessuale e ad avere una conoscenza approfondita delle tecniche sessuali, che controllavano anche tramite pratiche magiche.

Una ragazza sarebbe stata destinata ad amare le donne se il suo primo sangue mestruale non fosse stato mescolato al becchime e fatto mangiare alle galline, e se in seguito un galletto non avesse beccato dei chicchi di grano posti sul pube della giovane. Nello sfortunato caso: "chi fuocu ardenti, fimmini ccu fimmini! chi furori!" (che fuoco ardente donna con donna! che furore!).

Un rapporto sessuale tra donne, seppure ingannevole e strumentale al matrimonio, fa calmare la collera di Dio suscitata da un rapporto eterosessuale prematrimoniale. Una ragazza poteva infatti riacquistare la verginità perduta, ma per ottenere che il marito "trove chiusa la porta ch'è stata aperta e la collira di Dio è carmata", doveva penetrare col pollice della mano destra un'amica ancora vergine, e raccoglierne il sangue in una pezzuola.

Il curatore del libro in cui è riportato questo rito ci rassicura dicendoci che l'amica troverà poi modo di vendicarsi della malvagia che per salvare sè stessa le ha fatto perdere la verginità, e descrive una scena di seduzione in cui è evidente la partecipazione erotica di entrambe le donne: la prescelta "folle, accecata, dimentica delle parole di avvertimento della mamma [!], perduto ogni pudore, eccola nelle braccia di lei, sotto il nudo convulso petto" mentre la mano dell'altra "dapprima lieve come fiocco di neve, diventa nel momento opportuno, quando cominciano a scorrere brividi nelle ossa ed un fremito corre nelle carni, forte e crudele..."

L'esistenza di rapporti sessuali tra donne era quindi ben nota anche sui monti più isolati della Calabria del 1850-1890, dove le leggi civili e religiose che li condannavano non erano un deterrente sufficiente. E su queste montagne abitavano anche dei singolari personaggi, le "sbraie", che a noi appaiono come la versione montana e selvaggia delle "lesbiche maschili".

Queste donne eccezionali, che non avevano rapporti sessuali con uomini, erano infatti

"alte, secche, tutte nervi, forti 'cumi Luciferu'; giovani querce con pochi rami e poche foglie; la voce grossa di maschio, gli occhi che incantano, la bocca che ha parole senza sorriso; pochissimi e ispidi capelli sulla testa; bassa la fronte; le carni brune e senza mammelle... Molte donne sono destinate a mettere sotto, ad esse istigando sfrenate passioni. Una notte ed un giorno, per quanto fossero lunghe le ore, non basterebbero al loro amplesso furente, mai soddisfatto".

Il loro destino era stato deciso alla nascita, quando erano cadute battendo la testa, e la placenta nella quale erano avvolte era stata mangiata da un gatto e da un cane. Vengono maledette: "le sbraie vicini e luntani... chi moranu accisi!", ma erano utili alla comunità, perchè il sangue raggrumato che si diceva producessero dopo il rapporto sessuale aveva la proprietà di guarire convulsioni e malattie di nervi: "sangu acquagghiatu di zitella sbraiata da malanni e matruni t'ha sarvatu" (il sangue cagliato di vergine sbraiata ti ha salvato da malanni e isterismo).

Potevano anche guarire "'u mali asciuttu", grave malattia che colpiva gli organi genitali delle donne, attraverso una curiosa procedura: la "sbraia" e la malata, entrambe nude e in stretto contatto pube contro pube, dovevano rimanere insieme a letto per otto giorni, bevendo latte, e mangiando peperoni 'brucenti'. Il liquido non meglio identificato emesso dalla "sbraia" in questa occasione faceva guarire l'inferma: "è simenta fuornici sbraiata, è acqua chi sane e chi ristore, è iazzu chi stute lu furori, è fuocu chi l'acqua ti addissicche; biniditta chini l'ha criata, biniditta 'a donna chi la tene" (è seme di sbraia, è acqua che sana e che ristora, è gelo che spenge i furori, è fuoco che l'acqua dissecca; benedetta chi l'ha creata, benedetta la donna che ce l'ha).

I sessuologi avrebbero potuto facilmente classificare le "sbraie" come "invertite", ma in quel periodo queste definizioni ancora non esistevano, e comunque le isolate comunità di montagna delle quali queste donne facevano parte le avrebbero ignorate. Questo è un caso dove donne che hanno rapporti sessuali con altre donne vengono percepite come un gruppo di individui con caratteristiche proprie, che meritano un nome particolare e alle quali dunque viene attribuita una specifica identità, quella di "sbraia".

Qui la distinzione corre non tra pratiche sessuali (come abbiamo visto anche donne "normali" potevano avere rapporti sessuali con altre donne), ma tra persone con un persistente e determinato orientamento sessuale, considerato una categoria specifica della loro esperienza.

Le "sbraie" sono quindi un esempio di come, contrariamente a quanto affermato dalla corrente "invenzionistica" o "nominalistica" della storiografia gay e lesbica, una diversa specie di individui caratterizzati dalla trasgressione di genere e dal comportamento omosessuale (nel nostro caso quella delle protolesbiche calabresi), era già esistente e riconosciuta prima che ciò venisse stabilito dagli scienziati alla fine del 1800.

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