Omosessualità e informazione

28 gennaio 2005, Prove tecniche di comunicazione, a cura di Igor Righetti, Milano, Guerini e Associati, 2003, pp. 198-204.

L'indagine sui rapporti fra omosessualità e informazione impone da subito un allargamento di campo.

L'informazione è troppo sensibile alle sollecitazioni ambientali perché possa essere trattata autonomamente. E' assai più utile collegarla al contesto più vasto della comunicazione.

La "questione omosessuale" non fu imposta dall'informazione che seppe coglierne in anticipo o registrarne tempestivamente la nascita e lo svilupparsi, ma al contrario arrivò sulle pagine dei giornali spinta a forza soprattutto dal cinema.

Il cinema americano, o più genericamente anglosassone, degli anni '70 fu il primo a cogliere non tanto l'esistenza dell'omosessualità, in fondo già registrata dalla letteratura, quanto la volontà degli omosessuali di organizzarsi, di rivendicare i propri diritti e di vivere la propria esistenza apertamente.

Per la prima volta il cinema rappresentava non solo l'omosessuale eccentrico, personalità straordinaria, essenzialmente "sola", ma l'omosessuale contemporaneo, individuo "normale" con propri gusti e soprattutto con una socialità consolidata. L'esistenza dell'"omosessuale moderno" riconosciuta innanzitutto dal cinema, costrinse l'informazione ad occuparsene. Solleticava in particolare il rapporto fra omosessuali, vita notturna, cultura del divertimento e trasgressione di massa.

L'omosessuale divenne un protagonista dell'informazione soprattutto in rapporto all' emergere della disco music e di nuove modalità di socialità e intrattenimento.

Si passò, seppure gradualmente, e non senza contraddizioni, dall'idea dell'omosessuale "vizioso" e "pervertito" a quella di omosessuale "edonista", cultore del piacere, capace di costruire un universo del divertimento caratterizzato da una forte libertà sessuale.

Nell'informazione l'omosessualità contemporanea cominciò ad essere raccontata innanzitutto nella sua dimensione collettiva, anche per il mutamento epocale che essa stava vivendo. Si era infatti passati da una socialità gay spesso confinata ai marciapiedi, ai parchi, insomma ai luoghi all'aperto, a una socialità più visibile, più aperta, assai meno clandestina, anche se realizzata in locali, club e discoteche.

Questo carattere "edonista" dell'omosessuale e dello stile di vita omosessuale era ovviamente vissuto e raccontato dall'informazione con un duplice segno. Da un lato con curiosità benevola e ammirazione, talvolta con esplicita invidia: tra le righe si riconosceva ai gay un'elogiata capacità di divertirsi e di creare divertimento. Dall'altro con severità moralistica e a volte pietistica: si pensava che con la loro eccessiva anarchia sessuale i gay non avrebbero mai fatto parte a pieno titolo della società e non avrebbero mai rappresentato un'alternativa concreta alla famiglia tradizionale.

Questa lettura o tendenza, nell'informazione, fu smentita paradossalmente negli anni '80 proprio di fronte ad una realtà che avrebbe potuto vanificare battaglie politico-culturali di due decenni. Stiamo parlando dell'Aids.

Quando cominciò a prendere concretezza quella che si profilava come una minaccia di vera e propria epidemia che colpiva soprattutto (nella sua fase iniziale) gli omosessuali americani, molti temettero che i più vieti pregiudizi potessero rafforzarsi nella società, scatenando nella peggiore dell'ipotesi una caccia all'untore o, nella migliore, una esplicita censura di comportamenti ritenuti contro natura.

Fu invece la leadership omosessuale americana, ma anche europea, che seppe assumere "la debolezza" di un momento assai critico per ribaltarla in "forza".

Da una parte essa brandì l' emergenza Aids per esigere maggiore attenzione da parte delle istituzioni, con particolare riferimento alle politiche di prevenzione. Non ci fu un passivo ripiegamento, alimentato da prevedibili sensi di colpa, ma una sempre più consapevole rivendicazioni di diritti alla cura e al rispetto.

D'altra parte, essa costrinse l'informazione ad occuparsi della malattia, ma anche degli individui che ne erano colpiti. Entrò per tale via nelle pagine dei giornali e sugli schermi televisivi l'individuo omosessuale, spesso raccontato nel suo quotidiano, nella sua vita professionale, nel suo rapporto con gli amici.

Per la prima volta l'omosessuale si esprimeva, spiegava se stesso e il proprio mondo, oltre che ovviamente parlare della malattia.

Acquisiva in tal modo un'umanità e una concretezza, probabilmente legata anche alla fragilità della condizione di malato, che sapeva infrangere tabù e stereotipi.

Ma la leadership omosessuale non fu soltanto efficace nell'imporre la presenza degli omosessuali nell'informazione, ma impose anche le modalità di comunicazione.

Di fatto sottopose l'informazione a un “ricatto” culturale e morale, e la orientò in un senso moderatamente “politically correct”: uno sviluppo favorito non tanto da un moralismo di facciata e superficiale, quanto da una forte consapevolezza del rischio che stava correndo il modello "democratico-liberale", rispettoso delle minoranze di fronte all'emergere dell'Aids.

L'informazione politica e di costume dimostrò per lo più notevole senso di responsabilità e accettò di comunicare con il maggiore rigore possibile. Se esigenze di mercato imponevano qualche notizia gridata o sensazionalistica, era sempre in relazione alla scoperta del vaccino o qualche cura miracolosa individuata nei superlaboratori americani, quasi mai in relazione alla categoria "negletta" degli omosessuali. Anzi, l'intraprendenza della leadership omosessuale e la sua insistenza sui tema della prevenzione costrinsero in qualche misura a modificare anche lo stereotipo dell'omosessuale edonista e dissipatore di sé. Alla comunità omosessuale non fu mai attribuita la colpa della diffusione dell'epidemia, ma anzi essa cominciò ad essere presa ad esempio per la risposta consapevole che aveva saputo dare all'emergenza.
Come detto, l'Aids impose sui mezzi di informazione l'individuo omosessuale, e in qualche misura mostrò la normalità e magari la banalità della sua esistenza.

La triste epopea della malattia si accompagnava infatti con la "incredibile" scoperta dell' esistenza di persone normali, con impieghi normali, dedite a una vita normale.

Questo processo di "normalizzazione" della figura dell'omosessuale nei mezzi di informazione toccò il suo apice negli anni novanta, epoca in cui, buona ultima, anche la televisione italiana dedicò la sua prima trasmissione di informazione in diretta agli omosessuali (condotta da Gad Lerner).
Furono gli anni in cui l'informazione accettò e registrò l'affettività degli omosessuali.

Di nuovo sotto lo stimolo delle battaglie politico-sociali intraprese dalla comunità gay, tese al riconoscimento giuridico delle coppie dello stesso sesso, l'informazione si concentrò sempre di più sull'omosessualità e l'omosessuale nel rapporto di coppia. Fioccarono, così, su riviste, quotidiani, dei reportages e ritratti di coppie gay e lesbiche. L'affettività omosessuale gradualmente uscì dalla categoria dell'eccezionalità. In occasione di eventi come la morte di Gianni Versace, si cominciò a citare senza ipocrisie il "compagno" dello stilista.

Ma gli anni '90 furono anche gli anni dell'esplosione dell'informazione fatta dagli omosessuali per gli omosessuali. Grazie anche alla rivoluzione digitale, fiorirono quotidiani e siti on line di argomento omosessuale.

Per quanto riguarda il cartaceo, oltre alla rivista storica “Babilonia”, ha riscosso uno straordinario successo "Pride", mensile con sede a Milano e distribuito gratuitamente nei locali di tutta Italia.

A questo si aggiunga “Aut”, mensile romano, “Guide Magazine” e “Rainbow” [che oggi non esiste più, ndr.] sempre in distribuzione gratuita. Ma il caso più eclatante è il sito Gay.it, principale punto di riferimento su Internet per la comunità omosessuale.

E' il primo media on line gay e lesbico italiano e vanta oltre 170.000 visitatori certificati al mese. Sito di informazione e di servizi, ma soprattutto il primo media gay italiano ad essere riuscito nella difficile impresa di ottenere la pubblicità di moltissime grandi industrie nazionali solitamente refrattarie a pubblicizzarsi sui media gay, timorose di infastidire il mondo cattolico, ritenuto componente molto più cospicua del mercato di riferimento.

Il duemila si è aperto con un consolidamento di questo processo. Proprio quest’anno si sono inaugurate due nuove realtà che rafforzano la presenza della comunicazione fatta dagli omosessuali per gli omosessuali.

Mi riferisco a “Good as you”, per Canal Jimmy, prima trasmissione interamente gay su un canale satellitare italiano e alla nascita di Gay.tv, prima tivù satellitare italiana interamente dedicata all'universo gay, che in pochi mesi sì è collocata in una fascia d’ascolto di dimensioni non trascurabili.

“Il torbido mondo degli omosessuali”: gli “omicidi gay”.

La vera nota dolente sull'omosessualità nell'informazione è costituita dalla cronaca nera.

Se è vero che la notizia per eccellenza è rappresentata dalle 3 “S”, sesso, soldi, sangue, il “delitto gay” - come incredibilmente la maggior parte dei media continua a titolare le notizie riguardanti gli omicidi di omosessuali (cioè i delitti “antigay”) - è la notizia perfetta per il cronista che intende vellicare la morbosità dei lettori.

I delitti che coinvolgono omosessuali riguardano quasi sempre anziani vittime di prostituti immigrati, che non si considerano neppure gay, perché, nella loro cultura di provenienza, l’omosessualità non è definita dal sesso del partner, ma dal ruolo nel rapporto erotico: di qui equivoci e frequenti “culture clashes” fra prostituti e clienti, che spesso hanno epiloghi tragici.

In tali casi, l' informazione si dimostra non di rado, nei confronti degli omosessuali, apertamente razzista oltre che incredibilmente volgare. Anni di evoluzione civile e di maturazione democratica della società italiana (in buona parte ascrivibili anche a un ruolo sostanzialmente positivo svolto dai media e soprattutto dalle televisioni negli ultimi vent’anni) tendono a scomparire quando si entra nel campo della cronaca nera.

Quasi sempre è sufficiente che un omosessuale sia vittima di un omicidio perché si parli di "delitto gay" o di "delitto a sfondo omosessuale".

Così si diffonde l'opinione che esista un "mondo omosessuale", portatore di valori e visioni del mondo antitetici al resto della società, all'interno del quale ogni regola etica universalmente accettata non ha alcun valore e non vi è quindi da stupirsi che anche stupri e omicidi siano all'ordine del giorno.

Nel caso dell'assassinio di un ebreo, a nessuno oggi verrebbe in mente di parlare di "delitto ebraico" o di "pista ebraica", e ciò neppure nel caso che ad uccidere un cittadino ebreo fosse stato per ipotesi un altro ebreo.

Un linguaggio del genere sarebbe giustamente considerato intollerabile, offensivo e incivile: evocherebbe Goebbels, le pagine più nefande della storia di questo secolo. Nei confronti degli omosessuali, certe manifestazioni di elementare rispetto per la dignità umana non sono ancora considerate ovvie e doverose.

Ancor oggi, come negli anni cinquanta, nella cronaca nera dei giornali italiani anche progressisti, capita che si fantastichi su "ambienti omosessuali" per loro natura "torbidi", su amicizie "particolari", frequentazioni "ambigue"; banali o anche frettolosi rapporti sessuali fra due persone diventano inesplicabilmente “festini”, definizione che nessuno si sognerebbe di applicare neppure ai più eccentrici tipi di rapporto eterosessuale.

E' in questo ambiente di fantasia giornalistica che maturano i "delitti gay", per i quali è d'obbligo seguire la "pista omosessuale" nel sottobosco delle "relazioni pericolose" intrinseche al “mondo omosessuale”. Insomma: se un fatto di cronaca nera coinvolge una persona omosessuale, si scatena una furia macellaia e morbosa che distrugge l’onorabilità di tutte le persone coinvolte o anche solo testimoni, e su tutti i giornali compaiono titoli ad effetto sul "delitto a sfondo omosessuale". Ma se la cosa riguardasse un eterosessuale nessuno parlerebbe di omicidio maturato nel torbido mondo eterosessuale (qui si usano locuzioni più delicate, come "delitto passionale").
Come detto, questo malcostume è di solito confinato nella cronaca nera, ma vi sono anche altri modi, più sottili, attraverso cui i media spesso contraddicono le loro stesse intenzioni, che in questa materia sono state negli ultimi anni per lo più “civilizzatrici”.

Così, di manifestazioni gay che talvolta potrebbero apparire quasi cortei sindacali di bancari, vengono divulgate solo le poche (percentualmente di solito pochissime) immagini capaci di confermare gli stereotipi tradizionali (formatisi nelle epoche in cui solo gli omosessuali il cui aspetto rispondeva alle attese del pubblico eterosessuale venivano riconosciuti come tali).

Così, se un personaggio noto si dichiara gay, si dice che “ammette” la sua omosessualità: ma si “ammette” la propria responsabilità in un delitto, si “ammette” una colpa; a nessuno verrebbe in mente di “ammettere” qualcosa di moralmente neutro, come avere i capelli rossi o gli occhi verdi.

Così, ma questa non è certo una caratteristica che riguardi solo questa materia, vi è spesso molta superficialità e mancanza di conoscenze sull’argomento di cui si parla.

In un ipotetico (ben nutrito) dizionario dell’inglese inventato dai giornalisti italiani andrebbe inserito l’uso invalso di “outing” al posto di “coming out” (mentre il primo termine in inglese designa la denuncia pubblica dell’omosessualità praticata di nascosto da personaggi che sostengono politiche discriminatorie ai danni degli omosessuali, il secondo è quello con cui si indica la dichiarazione di essere omosessuale effettuata dal diretto interessato).

Più grave ancora, si attribuiscono al movimento gay obiettivi prioritari “decisi” dai loro avversari, come dimostra l’ossessivo interesse per la questione delle adozioni, neppure inserita nella maggior parte dei progetti di legge propugnati in Italia dalle maggiori organizzazioni gay.

Ma questi ultimi rilievi rimandano a un problema più generale: nella società italiana, a differenza che in tutto il resto dell’Occidente, non si è ancora capito che la questione omosessuale non è una questione di costume o di frivole mode erotiche o “trasgressive”, ma una tipica questione di diritti umani.

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