Un privilegio di autonomia

Omosessualità e arte in "Colori proibiti"

2 giugno 2005, "Rose e cenere. Studi e ricerche su Mishima Yukio", a cura di Daniele Del Pozzo e Luca Scarlini, Bologna, CLUEB, 2004

1. Premessa: benché io nutra da tempo un interesse per il Giappone e per certi aspetti della cultura e della storia giapponese, tanto da aver appreso qualche rudimento della lingua, tremo all'idea di parlare della rappresentazione dell'omosessualità in un'opera di Mishima.

Le coordinate culturali a questo riguardo sono ben lontane da quelle occidentali. Provo a accennarle per sommi capi. Riferendosi al passato (più che al presente) dell'Europa occidentale, il sociologo Marzio Barbagli ha descritto una strutturazione omosessuale detta "modello pederastico classico" fondata su una differenza di età e di posizione sociale tra i partner. Spesso il partner anziano ha un ruolo "magistrale" e il rapporto si conclude quando il giovane diventa adulto (e magari dà inizio ad altri rapporti come partner anziano). Questo modello appartiene anche alla tradizione giapponese - dove però, con il nome di shudo, gode di una legittimità assai maggiore che nei paesi di tradizione cristiana. Basti pensare al legame tra monaco buddhista e novizio, o all'omoerotismo dei samurai. Quest'ultimo ha certamente affascinato Mishima negli ultimi anni della sua vita, fino alla formazione della milizia Tate no kai e al seppuku (suicidio rituale) compiuto insieme al suo discepolo prediletto.

Ma nel Giappone moderno questo modello tradizionale "alto", che era celebrato anche in una letteratura di stampo erotico-sublime, pur continuando a esercitare un certo richiamo ha ceduto il passo a una realtà omosessuale per così dire secolarizzata e occidentalizzata. La vita gay di Tokyo, così com'è descritta in Colori proibiti, è molto simile - per situazioni, ambienti, tipi umani, pratiche - a quella di qualsiasi metropoli europea o americana degli stessi anni Cinquanta (il romanzo è del 1951-53). Basti dire che il capitolo 12 si intitola "Gay party", non per un arbitrio del traduttore ma riproducendo alla lettera l'espressione giapponese gei pati, di chiara origine inglese.

Infine, a complicare ulteriormente le cose, entra in gioco (benché non in Colori proibiti) anche un terzo modello, quello dell'onnagata, l'attore che oltre a interpretare parti femminili nel teatro kabuki assume un'identità femminile nella sua vita quotidiana. Mishima era profondamente coinvolto da questa figura e strinse relazioni personali con diversi onnagata.


2. Insomma, il panorama dei ruoli omosessuali è piuttosto intricato. Però vorrei provare ugualmente ad affrontare il tema che dà il titolo al mio intervento. In fondo, di queste differenze sono consapevole, e poi Mishima stesso era uno scrittore profondamente immerso nella cultura occidentale. Ma soprattutto, la letteratura si fonda sull'ipotesi di una leggibilità diffusa, anche "incompetente", che gli eccessi di relativismo culturale rischiano di soffocare.

Certo correrò qualche rischio, ma mi sento sorretto dalle qualità letterarie del libro di cui voglio parlare. Colori proibiti è un romanzo bellissimo, un romanzo con una solida spina dorsale: il patto tra Yuichi e Shunsuke, attorno a cui si organizza la trama e di cui cercherò di mostrare sia la dimensione sociale e culturale, sia quella artistica. A questa colonna vertebrale si congiungono poi diverse articolazioni: aspetti della riflessione esplicita o implicita di Mishima che mi sembrano particolarmente urgenti, interessanti e provocatori anche per noi oggi. Per gli scrittori che decidono di parlare di omosessualità, e per chiunque voglia riflettere su questioni di identità e cultura legate all'omosessualità.


3. Il patto, dunque. Colori proibiti inizia raccontando di Shunsuke, uno scrittore anziano e celebre ma profondamente deluso da ciò che ha scritto. Shunsuke non nega validità alle sue opere complete rilegate: eppure le considera morte, depotenziate, impotenti. Morte e impotenza: infatti l'altro versante della sua crisi nasce dalla coscienza di essere, oltre che un artista, un vecchio, un brutto vecchio che ha avuto una vita sessuale intricata e dolorosa (molte relazioni, tre matrimoni finiti male o malissimo) e ha ormai perso ogni suo potere di seduzione. Senza concedere troppo al versante psicologico - perché questo non è fondamentalmente un romanzo psicologico - è esatto dire che tali esperienze hanno alimentato in Shunsuke una consapevole misoginia.

A questo punto incontra Yuichi, un giovane prossimo al matrimonio che tuttavia confessa allo scrittore di avere desideri esclusivamente omosessuali, finora mai realizzati. Profondamente colpito dalla bellezza del ragazzo, Shunsuke gli propone un patto misogino. Yuichi dovrà sposarsi, ma al tempo stesso impegnarsi a far soffrire le donne, in primo luogo la moglie (si può immaginare quale sarà la loro vita coniugale) e poi altre con cui intreccerà relazioni. E' perfetto per questo ruolo, perché le donne in realtà non gli interessano; ma per evitare che per pigrizia si affezioni, nel frattempo dovrà dedicarsi ai rapporti che davvero gli premono, quelli omosessuali maschili. Visiterà i bar gay, parteciperà ai gei pati, e così via. Quanto alle donne, dovrà perseguitarle con ogni mezzo a sua disposizione e con il sostegno e la guida assidua di Shunsuke, che inoltre gli fornirà il denaro (cinquecentomila yen) necessario a saldare un ammanco di cassa che sta mettendo in serie difficoltà la famiglia d'origine di Yuichi. Il ragazzo accetta. Il romanzo seguirà il nugolo di rapporti etero e omosessuali che ne derivano.


4. Al centro dei romanzi che trattano di omosessualità molto spesso c'è un accordo, benché spesso informale o solo parzialmente formalizzato. In Ernesto di Saba c'è l'accordo tra il ragazzo e l'operaio con cui ha rapporti; negli Occhiali d'oro di Bassani qualcosa di simile lega Eraldo Deliliers e il dottor Fadigati; e così via. Ciò che contraddistingue Colori proibiti è che qui il patto unisce un gay e un eterosessuale.

Certo, in Shunsuke agisce un'attrazione omosessuale per Yuichi: in questo senso il loro legame è una forma di shudo. Ma Mishima sa bene (forse lo dimenticherà negli ultimi anni?) che l'omosessualità ormai è quella dei bar gay, e che riproporla nelle forme quasi feudali dello shudo sarebbe solo un neoclassicismo anacronistico e compiaciuto. Perciò l'eros di Shunsuke rimarrà prima di tutto eterosessuale, e il rapporto tra i due sarà casto. Casto, ma ricco di sfumature omoerotiche e volto a regolare anche l'instancabile vita omosessuale di Yuichi, che ben presto avrà un turbine di amanti. Il racconto, per quanto attiene alla sua dimensione omosessuale, si muoverà sul filo teso tra questi due punti di riferimento: un quasi-shudo e un ambiente gay contemporaneo. E' come un passaggio di testimone, dalla poetica omosessualità del passato a quella prosaica del presente.

Noi oggi ci poniamo (non abbastanza spesso, a dir la verità) il problema del rapporto tra un'identità gay sempre più globalizzata e le diverse identità omosessuali tradizionali (dal femminiello napoletano al fa'afafine samoano, dal bakkla filippino al mugawe kenyota). Già cinquant'anni fa Mishima affrontava questo problema, inserendolo entro una questione ancora più ampia: il rapporto tra l'omosessuale e l'eterosessuale.

(Non vorrei confondere il lettore descrivendo Shunsuke ora come un etero, ora come parzialmente omosessuale. Tra poco chiarirò come mai il vecchio scrittore, pur essendo eterosessuale, sia attratto dall'omosessualità, finisca nella sua orbita.)


5. Il patto dunque non sigilla, almeno in prima istanza, un'intesa omosessuale, ma un'intesa omosociale maschile.

La parola "omosocialità" - un termine molto utile - definisce, nell'accezione più frequente, tutto l'insieme dei rapporti sociali non erotici tra persone dello stesso sesso, per esempio quelli che si intrecciano tra maschi nelle forze armate e nello sport. Certo queste due dimensioni, in particolare, vanno diventando sempre più miste. Ma ogni società e ogni cultura prevedono tuttora spazi omosociali destinati all'uno o all'altro sesso: spazi che erano ancora più rigidi nel Giappone di cinquant'anni fa.

L'omosocialità maschile ovviamente è molto spesso un luogo di riaffermazione del potere patriarcale sulla donna. Nel rapporto tra Shunsuke e Yuichi il primo è "padre" del secondo, perché gli fa da guida, ma in un altro senso sono tutti e due "padri-padroni" rispetto alle loro vittime femminili.

Nei romanzi di Saba e Bassani la declinazione patriarcale dell'omosessualità maschile non è del tutto assente (in Ernesto, soprattutto, c'è il rapporto del protagonista con la madre e con la prostituta), però non è neppure messa in piena luce; nel libro di Mishima, invece, è impossibile non coglierla. Il territorio sconosciuto che Colori proibiti intende esplorare non è semplicemente l'omosessualità, ma il modo in cui essa si inserisce in un contesto patriarcale. Di qui la centralità del rapporto tra un gay e un etero.


6. Ma facciamo una controprova, rovesciando l'ottica. Consideriamo Colori proibiti un romanzo sulla misoginia del patriarcato, e chiediamoci perché vi si inserisca l'omosessualità. In fondo, il patto antifemminile poteva benissimo venire stretto tra due eterosessuali! E' ciò che accade, per esempio, nelle Relazioni pericolose di Laclos, o nel Così fan tutte di Mozart e Da Ponte: opere in cui l'accordo misogino coinvolge addirittura delle donne (rispettivamente la marchesa di Merteuil e Despina), a confermare la trasversalità egemonica del patriarcato.

Qui occorre tenere presente una contrapposizione profondamente radicata nella logica del libro: un'antitesi che certamente si declina in forme proprie della cultura giapponese, ma che al tempo stesso è ben nota anche a noi occidentali. Da una parte la donna è natura, carnalità, sentimentalismo, relazione; dall'altra, l'uomo è individualismo, solitudine, spiritualità, e su questi caratteri si fonda la supremazia patriarcale. Un esempio tra mille: a un certo punto Yuichi si dice che l'omosessualità maschile non può avere come esito un rapporto di coppia duraturo: essa deve necessariamente concludersi, "dopo l'atto, in una semplice e casta amicizia", perché il suo scopo è proprio di restituire i maschi (non i gay, si noti bene: i maschi in generale) alla loro condizione naturale di "individui" - e in questo si esprime "qualcosa di simile a un anelito metafisico" (314).

Ora, alla luce di questa architettura di valenze, vediamo la scena in cui Shunsuke propone il patto. Nel momento cruciale, Yuichi si volta verso uno specchio posto nella stanza dello scrittore e per la prima volta vede ciò che Shunsuke aveva visto in lui: riconosce la propria bellezza. "Seguendo un'abitudine comune agli uomini, si era proibito di considerarsi bello... In quel momento si permise, per la prima volta, di considerarsi così bello" (38). Da quel momento comincia a cedere, e poco dopo accetterà. (Il capitolo si intitola proprio "Il contratto dello specchio".) E' chiaro: se Yuichi non desidera le donne, se desidera solo se stesso, potrà agire ignorando qualsiasi forma di legame morale.

L'omosessuale è l'elemento chiave del patto misogino perché (nella logica del romanzo) è chiuso attorno al proprio narcisismo. Attenzione però: questo misto di ricerca del piacere effimero, solitudine, individualismo, è predicato (l'abbiamo visto) come caratteristicamente maschile. L'omosessuale narcisista non fa che renderlo esplicito e portarlo alle sue estreme conseguenze. Respinge, sì, l'"abitudine comune agli uomini", ma solo per giungere così a incarnare l'essenza della virilità. Il gay è il supermaschio, e se un romanzo vuole parlare di patriarcato non può non averlo tra i suoi protagonisti. Questo, almeno, sembra suggerirci Colori proibiti.

(Ora capiamo anche come mai anche il personaggio di Shunsuke, per quanto etero, ha una sua dimensione omosessuale. L'equazione omosessualità-narcisismo fa del gay un'ipostasi tanto potente della condizione virile, che anche il maschio eterosessuale non può che gravitare verso il nucleo-fantasma omosessuale.)


7. Il maschio omosessuale come narcisista; la sua supervirilità; la misoginia; ma anche, per esempio, l'impossibilità (l'impensabilità) del narcisismo femminile (la donna può essere narcisista solo per gli uomini, come nei film porno in cui rapporti lesbici servono ad appagare lo spettatore maschio) e "quindi" del lesbismo. Fatte salve le debite differenze culturali, tutto questo castello di idee lo conosciamo bene: se non altro dagli studi, svolti entro un contesto occidentale, di George Mosse. E' uno dei possibili inquadramenti culturali del fenomeno omosessuale. E ci sembra un ritratto deforme, aberrante. Contro di esso sono state giustamente combattute battaglie durissime, senza peraltro che si sia giunti a una vittoria definitiva.

Ma un romanzo (dirò forse qualcosa di ovvio) non coincide con le idee che contiene, e che l'autore può condividere o meno. Abbiamo a che fare con una rappresentazione. Colori proibiti ci propone una versione radicale dell'essenza del patriarcato, e ci costringe in particolare a rivedere e complicare (non dico: smantellare) il luogo comune secondo cui i gay sarebbero semplicemente vittime di un patriarcato eterosessuale. Oggi che siamo divenuti (per fortuna) molto più sensibili alle differenze e alle specificità identitarie, riconoscendo discriminazioni elementari (come hanno potuto sfuggirci così a lungo?) ma anche rimarcandole con trincee ingombranti, rischiamo di non interrogare a fondo il rapporto - che esiste sempre - tra omosessualità maschile e eterosessualità maschile. Colori proibiti ci propone questo tema proprio attraverso il diabolico patto patriarcale tra Shunsuke e Yuichi.

Chiederci se Mishima aderisca a questo patto, o addirittura lo legittimi, significherebbe porsi una domanda sul rapporto tra biografia e scrittura, dunque non un interrogativo futile. Ma esiste indubbiamente uno spazio di lettura entro cui una simile domanda è fuori luogo, è ancora di là da porsi. Finché restiamo entro questo spazio (e io non ho le competenze necessarie per uscirne) dobbiamo fermarci al fatto che Mishima riconosce il patto, lo presenta e rappresenta. Per omofobia, forse? Quell'omofobia che paradossalmente passa attraverso un'esaltazione dell'eros omosessuale? Può essere. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un altro paradosso, quello dell'omofobia letteraria, e in generale della "scorrettezza" della grande letteratura, che può disgustarci e al tempo stesso, proprio in quanto ci disgusta, nutrirci. Darci pane per i nostri denti.


8. Omosessualità maschile e eterosessualità maschile, dunque. Ma quella che potremmo chiamare la "questione omosociale" non si colloca solo nel punto di partenza del romanzo, nel patto. Colori proibiti la analizza ampiamente. Mi fermo solo su un paio di scene molto efficaci, due sacre rappresentazioni. Vediamo la prima.

Yuichi, che - sempre seguendo le istruzioni di Shunsuke - ha fatto innamorare di sé la signora Kaburagi, si convince a un certo punto di provare davvero dei sentimenti teneri per lei. Naturalmente rimane di sasso, perché non gli è mai capitato prima, né con un uomo né con una donna (è evidente che la concezione dell'omosessualità maschile che abbiamo esposto non contempla la possibilità di innamorarsi). Poi però, in una conversazione con Shunsuke - ecco il momento cruciale - si corregge e dichiara di non essersi innamorato della Kaburagi, ma di sentirsi semplicemente vicino a lei, perché entrambi (lei e Yuichi) amano la stessa "persona": l'immagine di Yuichi. Non solo: nello stesso incontro il giovane rivela al vecchio che anche lui, Shunsuke, è innamorato di quella immagine. (Shunsuke resta stupefatto: non aveva ancora preso coscienza fino in fondo della propria dimensione omosessuale.)

Ecco che si disegna una sorta di piccolo presepio della cultura patriarcale: il giovane, la donna e l'uomo maturo, tutti in cerchio, adorano l'immagine della bellezza maschile. Si pensa subito alle statue dei kouroi greci, e all'importanza della cultura greca per tutto il pensiero di Mishima.


9. La situazione che ho descritto è omosociale? Sì, perché la Kaburagi appare come catturata in un triangolo maschile (il giovane, il vecchio, l'immagine del giovane). Ma la seconda scena, un'altra sacra rappresentazione, mostra l'omosocialità in modo ancora più icastico.

Yuichi si trova di nuovo a sedurre una donna, Yoko, su istruzioni di Shunsuke. Lavora per un lungo pomeriggio - c'è un bellissimo resoconto graduale della conquista di questa donna molto frivola, molto leggera e molto simpatica. Di sera finalmente riesce a portarla in un alberghetto, fanno l'amore, lei si addormenta e quando si sveglia c'è un corpo maschile accanto a lei. Ma non è Yuichi, è Shunsuke. I due si erano accordati per sorprenderla con questo umiliante scambio.

E' una delle forme più abiette del patto: io prendo questa donna, te la dono come pegno del legame fra me e te, e tu ne fai quello che vuoi: ciò che Lévi-Strauss chiamava lo scambio delle donne. Però è anche un trucco che permette ai due uomini di fare l'amore tra loro (metaforicamente, per interposta persona). Infine, è anche un trucco che permette loro di non far l'amore (realmente).

Quale visione complessiva è sottesa a questo episodio? Il rapporto omosociale non è mai lineare, diretto: deve sempre passare attraverso il rapporto eterosessuale. I maschi che vanno insieme al bordello o partecipano a uno stupro di gruppo o agiscono come Shunsuke e Yuichi (dal patto allo scambio di letto) non fanno che radicalizzare il male bonding, il sigillo dell'amicizia virile, che nella maggior parte dei casi si attua semplicemente nel "parlare di donne". Di converso, il rapporto eterosessuale non è mai in sé concluso: è quello spezzone di un rapporto omosociale che passa attraverso il corpo delle donne.


10. Due riflessioni su quanto appena detto.

In primo luogo: le posizioni che ho esposto - ricavandole da Colori proibiti - non sono nulla di nuovo. Sono state enunciate più volte nell'ambito del pensiero femminista. Colpisce trovarle in un romanzo degli anni Cinquanta, ma soprattutto vedere quanto facilmente esse si integrino in una teoria dell'omosessualità maschile. Di qui una domanda: fino a che punto si possono oggi dire risolte le tensioni, potenziali o reali, tra femminismo e movimento gay? Non ci sono delle zone oscure, dei terreni scivolosi, che (con l'aiuto di un generale e forse necessario ammorbidirsi, mi pare, della riflessione teorica su questi temi negli ultimi vent'anni) abbiamo preferito ignorare?

Secondo spunto. Un motivo ricorrente nella riflessione sull'omosessualità è che occorrerebbe interrogarsi anche su un altro fenomeno, ancora più misterioso: l'eterosessualità. Ma in realtà si finisce per farlo poco. Le teorie della differenza, in fondo, permettono di pensare l'omosessualità come qualcosa di semplicemente giustapposto all'eterosessualità, e di concentrarsi sulla prima. E questo approccio separatista si diffonde ben al di là dei luoghi dedicati alla riflessione teorica. I sostenitori del matrimonio gay, per esempio, hanno spesso argomentato che esso si limiterebbe ad affiancarsi al matrimonio etero, senza modificarlo affatto.

Non dovremmo invece riconoscere che, come la maternità surrogata cambia anche la nostra concezione della maternità "naturale", il matrimonio gay muta l'idea stessa del matrimonio, e in generale l'insorgere della questione omosessuale costringe a (ri)pensare l'eterosessualità - sia attraverso il lavoro teorico, sia con la scrittura letteraria (come ha fatto Mishima)? E' vero che in questo modo si offrirebbe al fronte omofobo una graditissima estensione del dominio della lotta. Ma possiamo davvero chiamarcene fuori? Quello che è certo è che il compito di raccontare in modo nuovo l'eros eterosessuale oggi spetta in primo luogo, per un felice paradosso, a chi scrive di omosessualità.


11. Ma non ho finito di raccontare il patto. Un suo elemento essenziale, implicito fin dall'inizio, è la caducità. Non durerà per sempre.

Yuichi comincia a incrinarlo nella seconda metà del romanzo. Ha dei segreti che non rivela a Shunsuke. Non è più così certo di volere seguire i dettami dell'altro. Piano piano si allontana sempre di più, inizia ad avere una vita sessuale meno frenetica; di pari passo si rafforza il suo rapporto con la moglie, che nel frattempo ha avuto una bambina, Keiko. E la scena del parto, nel bellissimo capitolo 25, merita un'attenzione particolare.

Breve premessa: un aspetto cruciale del libro è la centralità della ripugnanza e della vergogna come momenti di conoscenza. Ho l'impressione che questo tema sia sottorappresentato, almeno in questi anni, nella narrativa dedicata all'omosessualità (un'eccezione è Meduse di Giancarlo Pastore). Certamente il motivo è che la graduale integrazione dei gay fa accantonare tematiche che possono apparire autopunitive, testoriane, oppure inutilmente trasgressive. Mi sembra comunque che il tema sia più presente nella cultura giapponese: lo si trova in Kawabata, in Soseki, e anche qui in Colori proibiti.

La nascita di Keiko, come dicevo, è fondamentale, un passo decisivo nel percorso che porta Yuichi verso ciò che lui stesso chiama "la realtà": una vita tranquilla da uomo sposato, felice nella sua famiglia (anche se ogni tanto continua ad avere incontri gay). Ma non si pensi che Yuichi si commuova davanti alla tenera frugoletta e sogni ad occhi aperti le gioie della paternità. Accade ben altro. Keiko nasce per parto cesareo. Yuichi chiede di assistere e vede la moglie quasi squartata, la sua carne viva, il sangue. Sente di essere anche lui fatto di carne e sangue. Percepisce per la prima volta che ciò che ci accomuna tutti è questa fisicità ripugnante e dunque indiscutibile, da cui è impossibile chiamarsi fuori. Un argomento potentissimo contro la visione individualista e spiritualista che, nel libro, si accompagna all'omosessualità - e quindi contro il patto stesso. La realtà è ben diversa dalla sublime e demoniaca alleanza tra uomini: è femminile, relazionale, carnale, impura.

A questo punto si può cogliere nel percorso di Yuichi anche un progressivo distacco dal sé. All'inizio del libro egli era, semplicemente, e non aveva neppure la consapevolezza della propria bellezza. Poi l'ha riconosciuta allo specchio. Poi l'ha staccata da sé come una forma, un'immagine che egli stesso adorava (episodio della signora Kaburagi). Ora giunge a mettersi in relazione con gli altri: ciò che lui chiama "diventare reale". Non vedere - vedersi - vedere se stessi - vedere gli altri.

La metamorfosi si compirà per intero? Yuichi, l'individualista assoluto, giungerà a integrarsi in quel mondo relazionale che ha appena intuito?


12. Il momento del parto costituisce una svolta cruciale ma non immediatamente risolutiva. Soltanto nella scena finale Yuichi rifiuta di essere una meravigliosa immagine, il kouros che Shunsuke per primo aveva visto in lui, e si reca dallo scrittore per sciogliere l'accordo.

Entro la logica del romanzo, però, questo non è uno sviluppo del tutto positivo, ascensionale. Per due motivi. Intanto perché non si tratta di un'ascensione ma casomai di una discesa in terra, di una Caduta. L'esito finale è una perdita di presenza assoluta, l'eclisse di quella condizione adamica di cui il ragazzo inconsapevolmente godeva alla sua prima apparizione. La relazionalità è certo reale, ma è comunque ripugnante, e spesso anche volgare e ipocrita (come risulta da diversi episodi su cui non mi soffermerò, come quello di Minoru).

In secondo luogo, la "realtà" non può venire abbracciata fino in fondo. Non da Yuichi, comunque. Il giovane resterà sempre nell'orbita narcisista. Per quanto possa avvicinarsi alla fusione con il ciclo della carne, della generazione, della quotidianità, non riuscirà mai a risolversi in esso, a sentirsene pienamente appagato (possono farlo solo personaggi femminili, in primo luogo la moglie Yasuko).

In questo senso, Yuichi non riuscirà davvero a sciogliere il patto che lo lega a Shunsuke, perché lo scrittore ha colto il nucleo esistenziale del ragazzo (il tema della bellezza). Nucleo attorno a cui Yuichi ruotava inconsapevolmente già prima di incontrare Shunsuke, e da cui non riuscirà mai a svincolarsi del tutto. Continuerà sempre a orbitare, in qualche misura, attorno alla propria immagine.

Diversi indizi ce lo provano. Yuichi arriva deciso a sciogliere il patto. E' anche pronto a restituire i cinquecentomila yen ricevuti all'inizio del romanzo. Ma non riesce a parlare con Shunsuke, perché questi lo travolge con lunghi discorsi sulla vita e sull'arte che il ragazzo non comprende. Le parole di Shunsuke sono uno splendido sunto del suo pensiero di artista, e il fatto che Yuichi non le segua dimostra che nel ragazzo c'è ancora quell'elemento di inconsapevolezza e disattenzione che non gli permetterà mai davvero di fondersi con la vita reale - c'è insomma ancora il narcisismo.

Poco dopo, cogliamo di nuovo il giovane mentre si allontana. L'ultima riga del romanzo ci mostra uno Yuichi che pensa, tutto contento, a farsi lucidare le scarpe da uno sciuscià. Il suo è diventato un volgare narcisismo "borghese", ma pur sempre di narcisismo si tratta. Narciso non può che continuare a cadere, con lo sguardo rivolto verso la sua immagine riflessa, senza mai toccare l'acqua.


13. E Shunsuke? Che ne è di lui? Proviamo a ricapitolare il percorso di Colori proibiti nella sua dimensione di riflessione sull'arte.

Il vecchio scrittore considera in qualche modo morta l'opera che ha composto: per questo decide di creare un work of art vivente, Yuichi. Il ragazzo è l'opera perfetta che Shunsuke intende realizzare attraverso l'immoralità. Questa scommessa ha alle spalle illustri modelli letterari: il Faust, La morte a Venezia, ma soprattutto Il ritratto di Dorian Gray, in cui un altro artista maturo fa di un giovane bellissimo un'opera d'arte vivente - e malvagia.

Detto questo, però, ci sono notevoli differenze. Il romanzo wildeano è "simbolista", cioè è in realtà una favola (o meglio un romance) che contrappone essenze assolute - il Bello e il Brutto, il Bene e il Male - per giungere a una morale forte. Il Dorian Gray vive di questa tensione etica spinta fino al melodramma. (Strano che, per quanto ne so, nessuno ne abbia ricavato un'opera lirica!) Colori proibiti, invece, è un vero e proprio romanzo. Per questo mentre in Wilde abbiamo quattro personaggi (Basil Hallward, l'artista geniale e inconsapevole; Lord Henry Wotton, il suo amico consapevole e amorale - in termini wildeani the critic; Dorian, il giovane bellissimo; e il quadro stesso), in Mishima ne troviamo solo due. Il critico e il pittore si fondono in Shunsuke, il ragazzo e il quadro si fondono in Yuichi. Due personaggi più complessi, mutevoli e contraddittori dei quattro di Wilde. Due personaggi che animano una narrazione più tortuosa e imprevedibile, con una conclusione imperfetta, compromissoria come la realtà: questo Yuichi che non è più Narciso, ma che - l'abbiamo visto - è ancora prosaicamente, grottescamente narcisista.


14. Eppure c'è nelle pagine finali un singolo elemento perfetto, pienamente compiuto e concluso: un elemento, diciamo, che sembrerebbe rubato a Oscar Wilde. Durante l'incontro con Yuichi, dopo aver pronunciato quei discorsi forse inutili, Shunsuke si assenta brevemente. E si uccide.

Yuichi lo trova morto, e all'apertura del testamento si scopre erede universale di una fortuna immensa. Sbalordito, esce per la strada, chiedendosi cosa farà di tutto quel denaro - e qui abbiamo l'episodio che ricordavo, "Anzitutto mi faccio pulire le scarpe" (433). Ma perché Shunsuke si è ucciso?

Per portare a perfezione la sua opera. Fosse stato un libro, sarebbe bastato finirlo e consegnarlo a un editore. Ma in questo caso l'opera è il ragazzo, il ragazzo come lui l'aveva sognato attraverso il suo patto: un kouros bellissimo, misogino, perfettamente autonomo. Un'opera d'arte vivente non è un libro, non basta scrivere la parola "Fine": occorre finire per davvero, morire. Per un certo tempo l'opera è stata perfetta: quando essa si allontana per conto proprio è tempo di sciogliere il patto, cioè scegliere la morte.


15. Ma rispetto a questa prospettiva tipicamente decadente, che è presente anche nel Dorian Gray, Mishima introduce due variazioni decisive.

In Wilde, il giovane uccide l'artista, e poi cerca di "uccidere" il quadro, ma ne viene ucciso: l'opera d'arte vivente muore, sopravvive solo l'opera pittorica. In Colori proibiti, invece, Yuichi sopravvive. E abbiamo già visto come questo si inserisca nella logica imperfetta, "aperta", di un libro che è romanzo e non favola.

Ma soprattutto: mentre è Dorian a uccidere Basil, non è Yuichi a uccidere Shunsuke. Certo, la visita del giovane fa scattare la decisione del suicidio. Ma questa decisione, l'artista la prende in modo del tutto autonomo. L'elegante, terribile gesto di liquidazione estetica non viene demandato all'opera: l'artista se ne fa carico in prima persona. Il ritratto di Dorian Gray è un romance sull'autonomia dell'opera d'arte. Colori proibiti è un romanzo sull'autonomia dell'artista.

C'è in questo un certo superomismo; e tutto sommato, Wilde probabilmente "ha ragione" più di Mishima - le opere d'arte in realtà sfuggono al controllo dei loro autori e sopravvivono alla loro morte. Ma nella risposta di Mishima trovo una presa in carico eticamente preziosa, e una radicale percezione dell'opera d'arte come frutto di un operare: una rappresentazione più fedele dell'esperienza artistica, non in quanto esperienza dell'opera d'arte, ma in quanto esperienza dell'artista.


16. Un ultimo punto: quello che è forse l'elemento più provocatorio del romanzo - il vero "colore proibito".

Shunsuke crede nell'autonomia dell'operare artistico e dell'opera d'arte stessa. Eppure la sua opera nasce dal patto stretto con un altro individuo: come è possibile? Il fatto è che l'"altro", Yuichi, è un essere narcisisticamente ripiegato su se stesso. Gode della stessa autonomia di un'opera d'arte: per questo può praticare la crudele misoginia che l'artista gli chiede. Ma allora l'autonomia dell'arte ha la stessa struttura dell'individualismo maschile di una società patriarcale, forse anche la stessa origine.

Questa struttura è il narcisismo: parola carica di valenze psicoanalitiche che potremmo giudicare rigide, sgradite, e datate. Si può allora sceglierne un'altra, di parola. Resta il fatto che la coppia Shunsuke-Yuichi esprime il perfetto sovrapporsi di autonomia artistica e autonomia maschile.

E il problema sta proprio qui. Noi ovviamente respingiamo il patriarcato, ma nell'autonomia dell'arte ci crediamo ancora. Possiamo averla limitata, in questi anni in cui sempre più prendono piede forme d'arte legate a un'opzione di autenticità. Performance, docu-fiction, diario, autobiografia sentono di dover rispondere non solo alla forma interna dell'opera, ma alla realtà. Però nonostante tutte queste trasformazioni l'idea che l'arte goda di uno statuto speciale, di un privilegio di autonomia, resiste.

Ecco, forse Colori proibiti ci suggerisce che questo privilegio vada, non dico abolito, ma ripensato.
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