Il mondo di Elizabeth Bishop

Saggio di Nadia Agustoni.

Il gruppo

Mary McCarthy nella sua autobiografia smentì di essersi ispirata a Elizabeth Bishop per uno dei personaggi ritratti ne Il gruppo [1], il suo romanzo del 1963, ma la Bishop si riconobbe in Lakey, una delle ragazze descritte.

Probabilmente la cosa non le piacque. L'America della caccia alle streghe non era troppo lontana e cominciavano appena a trapelare altre narrazioni e il suo nome fu accostato al libro della McCarthy in più occasioni.

È noto che Il gruppo racconta gli anni al Vassar College della scrittrice e di alcune sue amiche, che negli anni Trenta vi fondarono anche una rivista letteraria "Con spirito", a cui collaborò anche la Bishop.

Non ci interessa qui ricostruire l'ambiente cui McCarthy prestò la voce, ma il libro a tre anni dalla pubblicazione ebbe una versione cinematografica [2]. La regia di Sidney Lumet si sofferma sui rapporti di amicizia, quasi congelandoli nelle forme di uno stile intellettuale, che fu invece trasgressivo e nella realtà diventò complicità e sostegno anche nella distanza dei decenni e dei cambi di continente.

Il volto algido della Bergen in due delle scene del film, (l'arrivo dall'Europa e le sequenze finali del funerale dell'amica suicida) è l'emblema di un certo tipo di donna che deve la sua fortuna al modernismo. Da H. D. a Bryher, da Nancy Cunard a Lee Miller (che, fotografata nuda nella vasca da bagno di Hitler nel bunker in cui si è appena ucciso con i suoi intimi [3], pare sbeffeggi la pesantezza nazista con un impeto di vita) queste donne lasciano il segno e sconfinano con il corpo e l'arte in cerca di una verità personale, ma anche di una felicità che alcune troveranno, altre meno.

In tal senso le parole che Elizabeth Bishop consegnerà all'amico poeta Lowell sono chiare:


"Quando scriverai il mio epitaffio, di' che sono stata la persona più sola al mondo." [4]

"Unica e sola"

Fu libera nella propria arte la Bishop e, come ci ricorda Nadia Fusini, "fu unica e sola" [5].

Fin dall'inizio il suo carteggio con Marianne Moore svela le tracce di un'affinità di ricerca che non è mai però somiglianza.
Elizabeth Bishop accetterà nei primi tempi i consigli e le revisioni suggerite dalla Moore e dalla madre di questa, poi seguirà il proprio intuito senza che il suo linguaggio perda precisione e profondità.

Scrive Fusini:


"Si capisce che le piace osservare spassionatamente quel che la circonda, non le piace abbellire alcunché a suon di metafore; vuole semmai raggiungere il paesaggio, o l'animale, o l'oggetto che ha di fronte, nel rispetto di una sola aura, quella del riserbo.

Ma come si fa a toccare senza afferrare? A comprendere senza prendere?

Lei lo sa fare. E' la sua grandezza." [6]

E se la sua grandezza è evidente nei testi poetici, il suo ragguardevole epistolario con Marianne Moore svela, dipanandosi come una sorta di diario poetico, l'autenticità dei giudizi d'ammirazione che molti intellettuali le hanno tributato.

Come per Ralph Waldo Emerson, il cui diario è uno zibaldone americano, così l'epistolario Bishop-Moore è una mappa della fedeltà poetica e di vita di due donne rare per misura, integrità e intensità.

Del resto un severo critico quale è Harold Bloom colloca l'opera di entrambe tra i risultati più alti raggiunti nell'ambito della letteratura americana.

Miracolo a colazione

L'opera della poeta americana è reperibile in traduzione italiana negli Adelphi con il titolo Miracolo a colazione [7] e tre traduttori (Damiano Abeni, Riccardo Duranti, Ottavio Fatica) hanno lavorato sui testi e reso "il miracolo dell'incarnazione in italiano della lingua" di Elizabeth Bishop [8].

Seguirò quindi la traccia di parole scritte alla Moore e mi riferirò ad alcune poesie per toccarne il mondo, per coglierne l'ideale.

Una nota brevissima, come prima cosa, per fermare un gesto della Bishop, forse insospettabile.

In One art: letters [9] c'è una sua lettera a Marianne Moore del 5 gennaio 1937 da Keewaydin, Naples, Florida, in cui Elisabeth scrive che le invia a New York non soltanto il resoconto del suo soggiorno in Florida con Louise Crane (un'amica del Vassar che sembra presa dalla pesca in modo appassionato) ma le spedisce persino frammenti dei suoi vagabondaggi, in questo caso conchiglie e una noce di cocco.

Gesti minuti, intimi quasi, che raccontano a lato quel "miracolo" che fu la Bishop.

Miracolo che partecipò della vita con una curiosità e un'intelligenza mai belligerante, anzi quasi mistica.

Forse avrebbe apprezzato le anacorete del primo cristianesimo, un'Alipiana o una Sara, nella loro povertà e fermezza di propositi [10].

Eppure Elizabeth Bishop visse apertamente la sua vita fuori dai canoni e pur appartata seguì le correnti letterarie, tenne i contatti con molte personalità del tempo e insegnò.

I suoi anni in Brasile con Lota de Macedo Soares non furono anni di dispersione ma di lavoro e progetti.

Uscì proprio in quel periodo il suo secondo libro di poesie A cold spring [11] e incominciò la traduzione del diario ottocentesco di Helena Morely. Una terza raccolta è datata 1965.

La depressione e l'alcolismo furono però un tormento per la Bishop. La pazzia della madre, che morì in manicomio, e l'affidamento di lei bambina (prima ai nonni materni, poi paterni e quindi a una zia) la segnarono profondamente e forse spiegano quella sua capacità di immersione senza "toccare", senza "possedere" che Nadia Fusini ci ricordava.

Le sue descrizioni della Florida meritano questo passaggio dalla lettera già citata a Marianne Moore:



"Dai pochi stati che ho visto, ora sceglierei subito la Florida come il mio preferito.

Non so se lei c'è stata oppure no - è così selvaggia, e quello che esiste qui di coltivato sembra piuttosto in rovina e sul punto di ridiventare selvaggio.

Lungo la strada abbiamo preso un treno molto lento da Jacksonville a qui.

Per tutta la giornata è andato avanti attraverso paludi e campi trementina e foreste di palme e in una bella sera rosata ha cominciato a fermarsi in parecchie piccole stazioni." [12]

Nella stessa lettera parlando di una poesia, Elizabeth Bishop riconoscerà il debito con la Moore, l'aiuto, l'ispirazione e il sostegno di questa:



"Questa mattina ho lavorato a "The sea & its shore" o piuttosto ho fatto uso del lavoro suo e di sua madre e all'improvviso ho paura che alla fine ho rubato qualcosa da "The Frigate pelican" [13].


Sulla porosità e permeabilità della scrittura, su quei margini mai netti e quegli sconfinamenti nell'altro, letto, ammirato, assimilato, Harold Bloom ha parlato diffusamente a proposito di molti poeti.

Ralph Waldo Emerson sentiva così intensamente gli scritti di Montaigne da non staccarsene mai e a sua volta sarà egli stesso una presenza rimossa per Walt Whitman.

Uno dei capitoli più interessanti di Poesia e rimozione di Bloom è quello su Shelley, poeta con un debole per Bloom fino a che nell'inverno del 1814-15

"lesse a fondo Wordsworth e Coleridge (...) e fu in grado di scrivere Alastor e le poderose poesie del 1816" [14].


Ma anche per la Bishop arriva un momento critico nei rapporti con la Moore.

A partire dalla pesante revisione della poesia Roosters che la Bishop non accettò.

Da quel momento non sottopose più i suoi testi all'amica. inviandoglieli solo pubblicati.

Uno dei versi revisionati e poi ripristinato dalla Bishop è:


"Cries galore

come from the water-closet door

from the dropping-plastered henhouse floor..." [15].

L'uso della parola water-closet non era accettabile per Marianne Moore, che nel linguaggio apprezzava un certo ritegno.

Questo ci fa sorridere, ma ci dice quanto a lungo si è discusso su cosa dire e su come dirlo e su cosa si può o non si può dire.

Una vita appartata

Il Brasile significò per Bishop una vita appartata.

La casa in cui per sedici anni visse con Lota a Ouro Preto fu dove scrisse la raccolta di poesie Interrogativi di viaggio, pubblicata nel 1965. In totale, nell'arco di cinquant'anni completò quattro raccolte, circa ottanta poesie.

Interrogativi di viaggio contiene tra le altre "Brasile" e "Arrivo a Santos".

"Brasile, 1 gennaio 1502" [16] inizia evocando un "loro", a cui segue una descrizione della natura da osservatore attento ad ogni particolare, come copiasse da un libro di botanica:


"In gennaio la natura si offre al nostro sguardo

così come dev'essersi offerta allora al loro:

ogni centimetro quadrato fitto di fogliame...

foglie grandi, foglie piccole e foglie gigantesche,

azzurro verdazzurro, verde oliva,

con venature o bordi un po' più chiari,

o il lembo rovesciato di una foglia

come raso";

Continua quindi a soffermarsi minuziosamente su felci e fiori visti come ninfee e i loro colori:


" violacee, gialle, due tipi di giallo, rosa,

rosso ruggine e biancoverdolino";

e poi il simbolismo della seconda parte:


"i grandi uccelli simbolici in silenzio

che esibiscono solo una mezza pettorina

(...)

Ma in primo piano c'è sempre il peccato

cinque draghi fuligginosi".

Maliziosi in modo delicatissimo i versi in cui compaiono le lucertole:


"Le lucertole respirano appena; tutti gli occhi

sono puntati sulla più piccina, la femmina, di schiena,

la coda con malizia arricciolata in su

rossa come un filo rovente".

E il finale in cui il "loro" dell'inizio, un po' misterioso, si svela:


"Proprio così i cristiani, duri come chiodi,

come chiodi minuscoli e lucenti

nel cigolio delle armature";

e proprio "loro" trovano un che di "famigliare" all'arrivo, qualcosa che:

"rispondeva

a un vecchio sogno di lusso e di ricchezza

(...)

ricchezza più un nuovissimo piacere."

La poesia diventa quindi, nell'ultima strofa, in modo quasi impercettibile, uno specchio in cui i sogni d'esotismo e d'erotismo dell'Homme armé prendono corpo:


"Subito dopo la messa, magari canticchiando

L'homme armé o un'altra aria del genere,

si sono avventati a squarciare il tessuto appeso,

ognuno a caccia della propria indiana...

(...)

quelle donnine esasperanti che si lanciavano richiami

(...)

per poi ritirarsi sempre sempre più dietro l'arazzo".



C'è nella precisione della Bishop una consapevolezza della vita che è partecipe.


L'anglosassone, che ha in sé il vecchio mondo del nord, smitizza in "Brasile, 1 gennaio 1502", non senza grande ironia, i miti della conquista e dell'armata, ma rendendo concreta la terra di cui parla, raccontandola come se la dipingesse e riportandoci al suo mistero, alla sua inafferrabilità.

La sua ironia si coglie anche nell'altra poesia sul Brasile, "Arrivo a Santos" [17], dove i versi:


"Oh, turista,

è tutta qui la risposta di questo paese

alle tue smodate richieste di un mondo diverso",

possiamo farli nostri e associarli al moderno viaggiatore occidentale, alla sue finzioni e spogliazioni dell'esotico.


"Ho sempre sentito di aver scritto poesia più non scrivendola che scrivendola". [18]

Una nota dolente

In "Poesia" [19] i ricordi della Nuova Scozia sono vividi. I frammenti famigliari emergono con cauta eleganza. Dice, con poche parole, moltissimo. E l'ambiente descritto con cura appare ai nostri occhi come se si guardasse quel "quadretto fatto in un'ora" [20].

C'è una nota dolente nelle sue poesie nordiche. Nostalgia o dolore per l'infanzia traumatica, o magari solo il sentimento di essere andata troppo lontano senza che si cancellasse quel prima con cui i conti non devono essere stati facili.

A un amico brasiliano che una volta la vide in lacrime disse che stava soltanto piangendo in inglese, come a schernirsi.

Nel 1933 scriveva a Donald Stanford, studente di Harvard:


"Cosa mai intendi quando dici che le mie percezioni sono quasi impossibili per una donna?...

C'è qualche ragione ghiandolare che impedisce a una donna di avere delle buone percezioni, o che cosa? " [21]

Educata in uno dei migliori college degli Stati Uniti, la Baker era andata oltre le premesse che l'avrebbero voluta intellettuale brillante ma poco incisiva nell'opera autentica.

Il suo impossibile occhio, se fermò la forma delle cose in fedeltà completa, seppe trovare il cuneo con cui passare dietro le quinte e comprendere a quali schemi rancidi sottostanno i più e proprio per questo imparò a non farsi corrompere dai livellamenti ideologici.

Tobias Wolff, nel un suo bel romanzo Quell'anno a scuola [22], racconta la storia di un giovane uomo, studente in un prestigioso college, che trovando in una rivista un racconto che potrebbe aver scritto lui, tanto lo sente proprio (ma è invece scritto da una studentessa e narrato in prima persona femminile) che non resiste e se ne appropria. Scoperto, sarà espulso dalla scuola.

Anni dopo vorrà incontrare l'autrice del racconto che ridendo e comprendendo il dramma del giovane gli farà presente che ha smontato col suo gesto l'impalcatura che soggiace al sistema della loro istruzione di lusso.

Con il suo gesto, fatto nella totale identificazione, annulla la linea che vorrebbe uomini e donne stranieri l'uno all'altro. Come Flaubert avrebbe potuto dire: "Madame Bovary, c'est moi".

Verso la morte

Nel 1978 Elizabeth scrive la poesia "North Haven" [23] per l'amico Robert Lowell, in memoriam.

"So distinguere a un miglio il sartiame di uno schooner;

so contare le pigne nuove sull'abete: tutto è immoto";

e nei versi che seguono si dispiega la sua arte della descrizione, le isole, la baia, il vorticoso impeto della stagione:


"i cardellini sono di ritorno, o altri non dissimili".

E

"La natura ripete se stessa o quasi:

ripeti, ripeti, ripeti, rivedi, rivedi, rivedi".

Negli altri versi pare accostare la voce dell'amico, evocandolo in un ricordo e c'è infine la nota struggente, che si coglie nonostante sembri solo una constatazione dell'ineluttabile:


"Non puoi più ricomporre o ridisporre

(...)

le tue poesie.

Le parole non cambieranno più."

Da grande artista la Bishop sigilla la sua opera con un graffio finale che ne rivela la singolarità, il genio e la vena sotterranea di ironia e a tratti di allegria.

E' a un sonetto rovesciato [24] che affida, per l'ultima volta, le sue parole limpide e lucide in quello specchio rimasto vuoto:


In trappola: la bolla

nella livella,

creatura scissa;

e l'ago della bussola

che oscilla

indeciso, che barcolla.

Sprigionati: il mercurio

del termometro rotto

che sguscia via;

e l'uccello-arcobaleno

che dallo smusso

dello specchio vuoto

piglia il volo e scorazza

dove vuole, in allegria!

Elizabeth Bishop, la "Callas della poesia del novecento", come la definì Brodskij, muore a Boston il 6 ottobre 1979.

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