Luchino Visconti il cinema melodrammatico

Luchino Visconti (1906 - 1976) è vissuto in una famiglia dove la cultura era, non solo ben vista, ma anche incoraggiata. Egli ebbe un'adolescenza da ribelle: intollerante a vincoli e freni, manifestò spesso una certa inquietudine esistenziale. Un atteggiamento, quello di Luchino, che mal si conciliava con gli obblighi sociali derivanti dall'essere la famiglia Visconti di alta nobiltà e, in seguito, dall'essere l'Italia un paese nel quale il Regime Fascista aveva imposto precise e rigide regole comportamentali. Regole che, non limitandosi a governare la vita sociale, entravano con prepotenza nella sfera privata dei singoli.

Ovviamente, gli appartenenti alla famiglia Visconti, anche proprio per l'alto lignaggio, durante il Regime Fascista, ebbero delle possibilità per solito non offerte ad altri nuclei familiari. Tra tali privilegi, sicuramente va nominato quello di poter viaggiare all'estero e, quindi, poter venire in contatto con altri stili di vita, altre culture e altre forme di governo. Gianni Rondolino sottolinea che


[...] la possibilità di vedere opere proibite dal regime fascista, <e> di leggere libri interdetti dalla censura di regime, sono le tappe di una formazione anche politica, di una apertura sulla società, e sulla sua complessità umana, che Visconti sperimenta di giorno in giorno. In tale contesto, anche l'omosessualità può essere veicolo alla conoscenza di un mondo diverso, fuori dall'ipocrisia e dalla chiusura morale e culturale della società italiana del tempo. Un'apertura che unisce libertà personale e discorso politico [...][1]

E va ricordato che, tra i paesi visitati da Luchino Visconti ve ne furono due i cui stili di vita, sicuramente, influenzarono profondamente il giovane: gli Stati Uniti e, soprattutto, la Francia dove Luchino si recava spesso e dove venne in contatto con molti esponenti della cultura più progredita (tra cui, Marlene Dietrich, Jean Cocteau e Coco Chanel dei quali divenne molto amico) e, soprattutto, entrò in contatto con il grande regista Jean Renoir di cui, poi, divenne assistente. Lo stesso Visconti ha riconosciuto una decisiva funzione formativa ai suoi soggiorni francesi e alla sua collaborazione professionale con Renoir. Egli, infatti, ricorda:


Furono proprio il mio soggiorno in Francia e la conoscenza di un uomo come Renoir che mi aprirono gli occhi su molte cose. Capii che il cinema poteva essere il mezzo per avvicinarsi a certe verità da cui eravamo lontanissimi, specialmente in Italia. [...] Il gruppo di Renoir era schierato nettamente a sinistra e Renoir stesso, anche se non era iscritto, era certamente molto vicino al partito comunista. In quel momento ho veramente aperto gli occhi: venivo da un paese fascista dove non era possibile sapere niente, leggere niente, conoscere niente, né avere esperienze personali. Subii uno choc. Quando tornai in Italia, ero veramente molto cambiato.[2]


In Italia, Visconti entrò in contatto con il gruppo che ruotava attorno alla rivista diretta da Vittorio Mussolini: «Cinema». Il gruppo era composto da persone come Pietro Ingrao, Giuseppe De Santis, Gianni Puccini e Mario Alicata che tentavano di fare un po' di fronda al Regime e alla sua cinematografia, proprio scrivendo per il quindicinale «Cinema». Fu in tale contesto di giovani antifascisti e di sinistra che maturò il progetto di realizzare un film sostanzialmente diverso da quelli prodotti dalla cinematografia di Regime. Il film era tratto da un romanzo americano, Il postino suona sempre due volte si James Cain, ma il gruppo di giovani aveva deciso di ambientarlo proprio in Italia, o meglio, nella provincia italiana desolata e povera, al fine di poter veristicamente descriverne la realtà quotidiana. La sceneggiatura e i dialoghi erano affidati a Visconti, Alicata, De Santis e Puccini con la collaborazione di Alberto Moravia e Rosario Assunto e la regia affidata a Luchino Visconti. Protagonisti ne erano Clara Calamai e Massimo Girotti. Il titolo del film esplicito e in qualche modo provocatorio: Ossessione.


A vedere oggi in film - dichiara Rondolino - [...] l'aspetto implicitamente ideologico e politico può sembrare molto tenue, quasi inavvertibile, rispetto all'esplicito contenuto «immorale» della storia e dei personaggi.[3]


Non va dimenticato, però, che proprio quel contenuto «immorale» era in qualche modo antifascista, in quanto dipingeva la società italiana in modo totalmente differente da quanto fatto dalla propaganda di Regime.


E in effetti - ricorda Lino Micciché - Ossessione fu una clamorosa opera di rottura per il suo esclusivo fondarsi su sanguigne passioni e per l'inedita sua proposta d'un paesaggio non armoniosamente riposante; per la laica chiusura della vicenda entro un ambito realisticamente umano che rifiutava ogni consolazione [...]

Assolutamente inediti nel cinema italiano di quegli anni, <erano il> sangue, <il> sesso, <la> passione, <il> delitto, <l'> oscurità etica e <l'> incertezza esistenziale [...][4]

Dopo la prima proiezione pubblica avvenuta a Ferrara nel maggio del 1943, il film ebbe vita durissima nelle sale italiane, osteggiato e boicottato dai gerarchi fascisti che a Roma ne impedirono perfino qualsiasi proiezione pubblica. Era, ad ogni modo, nato il neorealismo.

Visconti tornò dietro la macchina da presa nel 1945 per girare il documentario Giorni di gloria e nel 1948 per realizzare, con pochissimi fondi, il film La terra trema, liberamente tratto dai Malavoglia di Giovanni Verga, e interpretato da attori non professionisti che recitavano parlando uno stretto dialetto siculo.

Ma è Bellissima, del 1951, il film su cui vale la pena spendere qualche parola in più. Il soggetto era di Cesare Zavattini, un neorealista doc e la sceneggiatura di Visconti, Suso Cecchi D'Amico e Francesco Rosi. Si potrebbe, dunque, credere che il film fosse in qualche modo un manifesto della cinematografia neorealista. In realtà non è così. Visconti era lontano dal pensare a se stesso come a un esponente più o meno significativo di una scuola o di una corrente. Egli rivendicava per sé (e per gli altri) la massima libertà espressiva, al di là di qualsivoglia etichetta. E, infatti, Bellissima, più che essere un film neorealista, è un film che del neorealismo fa un'analisi impietosa, una vera e propria satira. Si pensi, infatti, alla trama del film: il regista Alessandro Blasetti sta cercando una bambina per un film. Una madre popolana (strepitosamente interpretata da Anna Magnani), con la testa piena dei sogni che il cinema le propina, tenta in tutti i modi di instillare il "sacro fuoco dell'arte" nella figlioletta, la quale, lontana dalle aspirazioni materne, è del tutto refrattaria agli insegnamenti che le vengono faticosamente impartiti. La madre arretrerà dal proposito di imporre al regista la figlia solo dopo aver assistito, non vista, alla proiezione in sala di regia del provino della bambina che provoca l'ilarità generale dei presenti.

La satira al neorealismo che prende gli attori direttamente dalla strada è palese; ed essa «è estesa a tutto un ambiente che specula sui sogni, dalla lirica al varietà, dalla radio al teatro di piazza, dal circo al balletto, dall'insegnante di danza a quella di recitazione [...]»[5].


<Dunque, Visconti,> [...] uno dei "padri" storici del neorealismo bolla [...] il cinema come il luogo dell'intorpidimento favolistico, dell'illusionismo irrealistico e dei Dulcamara che imbrogliano le animi semplici. [...] Insomma, lungi dall'essere strumento di coscienza e di crescita, il cinema, tutto il cinema, è solo viatico di vane illusioni e di sogni regressivi, da cui è giusto, doveroso staccarsi: Bellissima - conclude Micciché - è uno dei primi e dei più consapevoli atti di morte dell'utopia neorealista[6].


E si noti che il richiamo a Dulcamara compiuto dal critico e storico del cinema non è improprio, dato che la colonna sonora di Franco Mannino è composta proprio su temi dell'Elisir d'amore di Gaetano Donizetti, opera nella quale, come ben si sa, Dulcamara è il ciarlatano venditore dell'elisir.

Si è ora accennato al fatto che la colonna sonora di Bellissima è legata a un melodramma di Donizetti in modo non episodico: la colonna sonora, come sempre in Visconti, è veicolo, infatti, di significati e in Bellissima essa si fa chiave di lettura del film. È, però, con Senso, del 1954, che il melodramma entra prepotentemente, si potrebbe dire, nel cinema di Visconti e non solo perché il film è tratto dal racconto omonimo dell'architetto verdiano[7] Camillo Boito, fratello del ben più noto compositore e librettista Arrigo Boito. Ma perché, fin dalla prima sequenza del film, ambientata nel Teatro La Fenice di Venezia, il melodramma si impone all'attenzione dello spettatore, sia quello reale chiuso nella sala cinematografica, sia quello della finzione chiuso in teatro: sul palcoscenico (e, di conseguenza, sullo schermo), infatti, si canta Il trovatore di Giuseppe Verdi. La scelta dell'opera verdiana non è casuale ed è Visconti stesso a confermarlo, quando afferma che in Senso ha voluto trasferire «i sentimenti espressi dal Trovatore di Verdi dalla ribalta in una storia di guerra e ribellione»[8]. In realtà, Senso più che essere una «storia di guerra e ribellione» è una storia di passione e di morte ambientata durante il periodo risorgimentale e resa con gli stilemi caratteristici del melodramma.


Visconti <infatti> carica i protagonisti di istinti e rabbie e passione cui conferisce un'esasperazione [...], ma soprattutto un'esplicitezza, tipicamente melodrammatiche, dividendo e ponendo a contrasto, in modo assai pronunciato, i ruoli: per esempio quello diabolicamente negativo di Franz, bello e dannato, l'amante-corruttore di Livia, e quello angelicamente generoso di Ussoni, bello e sacrificale, sorta di amante-asessuato della contessa; mentre anche tra i personaggi minori abbondano le rigide assegnazioni di ruolo, da cast melodrammatico-operistico.[9]


E Gianni Rondolino avverte che


Solo attraverso il filtro d'un testo che si basa tanto sul dialogo quanto sulla musica, ma soprattutto su una struttura drammatica che, attingendo alla tradizione del melodramma italiano, è costruita su arie e duetti e cori, con recitativi e melodie, e anche su una recitazione volutamente sopra il rigo, appunto «melodrammatica», il contenuto del film si manifesta appieno.[10]


E, pare giunto il momento di citare direttamente il regista a proposito di cosa egli pensasse del melodramma, ricordando che nel 1954 il Maestro firmò sia Senso, sia, invitato dal Teatro alla Scala, la sua prima regia d'opera lirica: La Vestale di Gaspare Spontini con Maria Callas nel ruolo principale.


La forma più completa di spettacolo, secondo me, resta ancora il melodramma, dove convergono parole, canto, musica, danza, scenografia. [...] È un lavoro cui mi dedico con entusiasmo, dopo un po' di cinema. Fare uno spettacolo d'opera per me è sempre un'attività molto gradevole e mentalmente riposante: poche cose mi rasserenano più della musica.[11]


Una posizione, quella di Visconti assertore del melodramma come forma di spettacolo totale, che è debitrice della nota definizione di Wagner. Giorgio Tinazzi, forse non immemore di tale dichiarazione di Visconti, in una sua analisi di Senso, significamene titolata Un melodramma in abisso, sembra allargarla. Partendo, infatti, dalla constatazione che nel film ci sono troppi elementi tipici del linguaggio teatrale[12] per passare inosservati, egli afferma:


La teatralità si presenta dunque come componente privilegiata del linguaggio cinematografico; si aggiunge però la pittura, dal momento che il film è ricco di citazioni ma tende soprattutto, attraverso la mediazione pittorica, a ricreare il clima di un'epoca. E certamente, come vuole la tradizione melodrammatica, la musica è il primo fattore di sostegno della teatralità. La suggestione pertanto che anima Visconti è quella del cinema come spettacolo "totale", con chiare ascendenze wagneriane.[13]


Visconti, in Senso, come in molti altri suoi film, del melodramma adotta i meccanismi rappresentativi della passione: essa è sempre assoluta, totalizzante, devastante e luttuosa. I personaggi sono dominati dalla loro passione e corrono dritti verso il loro drammatico (o, meglio, melodrammatico) finale. Sesso e violenza, amore e morte sono i temi viscontiani per eccellenza.


È chiaro come violenza ed erotismo, per la loro carica dirompente e per le modalità estreme di rappresentazione che Visconti sceglie, si rivelino pienamente funzionali a mettere a nudo le componenti più recondite dell'animo umano; [...][14]

E, a proposito del sesso rappresentato da Visconti nelle sue pellicole, Micciché ricorda che «È un sesso passionale, irregolare, talora proibito (incestuoso, a pagamento, omosessuale [...] vizioso [...] mai vissuto come norma»[15]. Eccessivo, si potrebbe affermare, come eccessive sono le passioni che squassano l'anima dei personaggi viscontiani. E, per quanto attiene al melodramma strettamente inteso, va ricordato come Visconti in esso trovasse «la risposta a due fondamentali esigenze artistiche: la passione per la musica [...] e un repertorio di drammi a forti tinte che ben si adattava alla sua ricerca di casi e situazioni estreme in quanto rivelatori dell'interiorità dell'individuo»[16]. Con Visconti non si è mai nel campo del gratuito: il sesso, la violenza, la passione sono sempre funzionali, dunque, alla definizione del personaggio, del singolo individuo, motore della storia complessivamente narrata dal regista.

Ovviamente, non tutti i film di Visconti vedono una presenza del melodramma tanto eclatante come si è visto avvenire, invece, in Senso. Il melodramma, ad ogni modo, permane nei film realizzati da Visconti, pur in modo meno vistoso, o meglio, trasfigurandosi in una marcata teatralità. Ecco, allora, che nel cinema del Maestro, è possibile ricollegare agli stilemi melodrammatici o teatrali in genere


[...] la struttura in «atti» della sceneggiatura, la presentazione dei personaggi, spesso incatenati dal principio alla fine del film in un loro ruolo, la struttura dei dialoghi <a mo' di quanto avviene nei libretti d'opera>, il loro rapporto con la musica e con i silenzi, la rappresentazione di una realtà spettacolare con situazioni e sentimenti estremi, [...] la forza e la significazione di simboli e metafore, che si materializzano nei colori e nelle fogge dei costumi e degli arredi, usati come materia di narrazione.[17]


La teatralità permane anche in pellicole che - a una prima visione - possono apparire molto lontane sia dal teatro di prosa, sia dal melodramma e molto più vicine al neorealismo del primo Visconti. È il caso di Rocco e i suoi fratelli, film del quale, però, Gianni Rondolino ha scritto in modo significativo che in esso


[...] Visconti punta tutto il suo discorso sulle cosiddette scene madri, sui contrasti violenti, sui dialoghi a due personaggi, come se volesse costruire all'interno della struttura narrativa alcuni blocchi prettamente teatrali, compatti, fortemente caratterizzati sul piano della recitazione.[18]


E che il film in questione non sia una pura cronaca dell'immigrazione interna italiana degli anni del Boom economico lo dicono sia le molteplici fonti letterarie[19] cui la trama e la caratterizzazione dei personaggi devono più di un debito, sia il fatto che Visconti narra la storia dei fratelli Parondi dando ad essa i caratteri dell'epopea moderna, dell'epica e del mito e, inevitabilmente, ciò riporta l'attenzione sul teatro tragico e sul melodramma.


[...] il conflitto messo in scena in Rocco e i suoi fratelli è <infatti> istintuale prima ancora che sociale. Ha a che fare con il desiderio più che con la lotta di classe. Non a caso, non c'è tono di "denuncia" nel film. Anche perché c'è poco da "denunciare": i Parondi a Milano non sono vittime di soprusi, angherie o emarginazioni.[20]


Tutta l'azione trova ragione nelle passioni forti che muovono allo scontro i fratelli. Una famiglia, quella dei Parondi, in un certo qual modo tipica del cinema viscontiano, non tanto per il censo cui appartiene, ma perché al suo interno le passioni dirompenti portano allo scontro tra gli appartenenti al clan familiare, con la conseguente rovina dell'intero nucleo. Una "catastrofe" che allude al declino dell'intera società. «[...] amo raccontare - afferma Visconti - delle tragedie, le tragedie delle grandi famiglie il cui crollo coincide con il crollo di un'epoca [...]»[21] e il pensiero corre inevitabilmente a film come il Gattopardo o, meglio ancora, come La caduta degli dei. Al di là, ad ogni modo, del singolo titolo,


Se il romanzo emerge come [...] punto di riferimento ispiratore del cinema di Visconti, il melodramma e la tragedia classica come serbatoio di motivi e di modelli strutturali, certamente dal punto di vista più propriamente tematico la raffigurazione della famiglia è un punto cardine inamovibile nella filmografia viscontiana.

[...] le storie e i personaggi di Visconti non possono prescindere dal loro legame ad un ceppo familiare, spesso catalizzatore, quando non artefice primo, di conflitti interni ed esterni.[22]


E forse non è da sottovalutare, all'interno del ceppo familiare, la grande importanza che assume nei film di Visconti la figura della madre. Se si fa una rapida carrellata di alcuni titoli del Maestro, emerge chiaramente quale importanza nelle varie pellicole abbia il ruolo affidato alla madre per lo sviluppo della storia. In Bellissima la madre è protagonista indiscussa della vicenda, una madre che proietta sulla figlia i propri sogni divistici; in Rocco e i suoi fratelli campeggia una figura di madre cui l'attrice Katina Paxinou dona un grande spessore tragico; in Vaghe stelle dell'Orsa la malattia mentale della madre rimanda e rispecchia l'anormalità dei sentimenti che uniscono i due fratelli incestuosi; in La caduta degli dei c'è una inquietante madre-dark lady (impersonata da un'algida quanto brava Ingrid Thulin) che finisce per avere un rapporto sessuale con il proprio figlio; in Morte a Venezia c'è la madre di Tadzio: è la madre della bellezza e della morte, una madre che nella mente di Visconti in qualche modo era abbinata alla propria madre e che volle fosse impersonata da Silvana Mangano.

E a proposito della Mangano forse non è un caso che a lei Visconti abbia affidato ruoli di madri: la Mangano era una diva in attesa (dunque madre "in potenza") in La strega bruciata viva; era, appunto, la madre di Tadzio in Morte a Venezia; e, infine, era la madre-"motore primo" dello strana famiglia che si viene a costituire in Gruppo di famiglia in un interno. Parrebbe, dunque, che Silvana Mangano per Visconti potesse rappresentare una sorta di "attrice feticcio". Ad ogni modo, nei film di Visconti c'è un'attenzione alla figura materna che forse può essere legata all'importanza che Carla Erba ebbe per lo sviluppo di Luchino. E quanto Carla Erba sia stata importante nella vita del figlio è lo stesso Luchino Visconti a confermarlo, ricordando l'anno in cui ella morì: «Fu quello uno dei momenti più duri della mia vita. Io adoravo mia madre e senza di lei mi sembrava che la vita non avesse più senso. Ero disperato»[23].

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