Jean Cocteau (1889-1963) e il Libro bianco [1927]

28 dicembre 2004

Scrittore, poeta, regista, pittore, Jean Cocteau è nato a Maisons-Laffitte, nel Seine-et-Oise nel 1889 ed è morto a Milly-la- Forêt, a Fontainebleau, nel 1963.

Verso la fine del 1927 - secondo Milorad Pavic[1] - Jean Cocteau "seppelliva vivo"[2] Le Livre blanc ("Il libro bianco") considerato il suo “manifesto” omosessuale.

Pubblichiamo quest’opera – si legge in apertura - perché in essa il talento supera di gran lunga l’indecenza e perché ne scaturisce una sorta di morale che vieta a una persona onesta di collocarla nel novero dei libri libertini. L’abbiamo ricevuta anonima e priva d’indirizzo.

Poche righe, stampate dalla casa editrice secondo le indicazioni dello stesso autore.

Secondo i suoi biografi Kihm, Sfrigge e Béha [3], Cocteau decise, per sua stessa ammissione, di non rivendicare la paternità dello scritto, per “non dare una pena alla madre”. Eppure nel suo Journal, in data 11 ottobre 1929, André Gide annota: “Letto Le livre blanc di Cocteau avuto in prestito da Roland Saucier [librario], in attesa della copia promessa dallo stesso Cocteau[4]”, non rispettando più l’anonimato[5].

Numerose generazioni si sarebbero passate Le Livre blanc sottobanco: “generazioni d’omosessuali, di ammiratori dell’autore degli Enfants terribles e di cultori di letteratura[6]”.

Il testo, autobiografico, racconta aneddoti e memorie degli amori, tutti, di Cocteau. Ci interessa evidenziare, in questa sede, l’avanguardia di questo scritto, pionieristico rispetto alla coscienza e alla consapevolezza dei gruppi di omosessuali credenti nati in Italia – pensate - negli anni Ottanta, oltre cinquanta anni dopo la pubblicazione de Le livre blanc!

Cocteau mette a nudo la sua anima, palesando le prime difficoltà incontrate con “il dogma”.

Sono sempre stato credente. La mia fede era confusa. Frequentando un ambiente puro, leggendo tanta pace sui volti, comprendendo la stoltezza dell’incredulità, mi sarei incamminato verso Dio. Certo, mal si accordava il dogma con la mia decisione di permettere ai sensi di seguire il loro corso, ma quegli ultimi tempi mi avevano lasciato un’amarezza e una sazietà in cui troppo presto volli scorgere le prove di essermi sbagliato di strada [7].

Cocteau, tuttavia, non smette di amare la sua Chiesa. Ci racconta il suo essere “dentro” questa realtà, quando decise di intraprendere un percorso di fede che lo avrebbe segnato profondamente.

Che stagione divina! La Chiesa mi cullava. Mi sentivo il figlio adottivo di un’antica ed immensa famiglia. Quel pane che si canta, quel pane che incanta, vi trasforma le membra in neve, in sughero. Balzavo così verso il cielo come un tappo nell’acqua.

Durante la messa, quando l’astro del sacrificio sovrasta l’altare e le teste si curvano, pregavo fervidamente la Vergine di prendermi sotto la Sua santa protezione: ‘Vi saluto, Maria’ mormoravo. ‘Non siete Voi la purezza in persona? Si può trattare con Voi di convenzioni o di mode? Ciò che gli uomini credono indecente Voi lo guardate come noi guardiamo gli scambi amorosi dei pollini e degli atomi! Obbedirò ai comandi dei ministri di Vostro Figlio in terra, ma so bene che la Sua bontà non si ferma di fronte ai cavilli di un padre Sinistrarius qualunque, né alle norme di un antiquato codice penale. Amen [8].

È un periodo delicatissimo per l’autore. “Salvarsi a Parigi", scriveva "è impossibile [9]”.

Dopo una crisi religiosa l’anima ricade. È un frangente scabroso. Il vecchio uomo non si spoglia con altrettanta facilità delle serpi, non ha come loro una veste leggera da lasciar sulle rose di macchia (…)

In principio tutto si fa in una sorta di estasi. Uno zelo prodigioso signoreggia il neofita. A freddo, diviene duro alzarsi e andare in chiesa. I digiuni, le preghiere, le orazioni si trasformano in tirannide. Il diavolo che era uscito dalla porta rientra dalla finestra, mascherato da raggio di sole.

Mi detestavo. Tentavo di riprendermi. Infine, la mia preghiera si riduceva a domandare a Dio che mi perdonasse: ‘Voi mi perdonate, mio Dio, Voi mi capite. Voi tutto capite. Non siete stato forse Voi a tutto volere, a tutto creare: i corpi, i sessi, le onde e il sole, quel sole che, amando Giacinto, lo tramutò in un fiore? [10].

Poi l’amore, quello vero, fa capolino e rischiara l’orizzonte. “All'obbedienza passiva io contrappongo l’obbedienza attiva”, consiglia l’amato, l’“eretico” H., perché “Dio ama l’amore[11]”. Leggiamo.

Il sole affretta l’evoluzione dei sentimenti. Bruciammo le tappe, e grazie ai ripetuti incontri in piena natura, lontani dalle cose che distraggono il cuore, finimmo con l’amarci senza aver mai parlato d’amore.

H. lasciò la sua locanda e si trasferì nel mio hotel. Egli scriveva. Credeva in Dio, ma ostentava una puerile indifferenza verso il dogma. La Chiesa, ripeteva quell’amabile eretico, esige da noi una prosodia morale equivalente a quella di un Boileau. Avere un piede nella Chiesa, che pretende di restare immobile al suo posto, e l’altro piede nella vita moderna, significa aver la volontà di vivere lacerati.

All’obbedienza passiva io contrappongo l’obbedienza attiva. Dio ama l’amore. Col nostro amore dimostriamo a Cristo di essere capaci di leggere fra le righe della necessaria severità del legislatore. Rivolgersi alle masse obbliga a proibire ciò che alterna il volgare e il prezioso.

Si faceva beffe dei miei rimorsi, che trattava alla stregua di debolezze. Disapprovava le mie riserve. Vi amo, ripeteva, e sono ben lieto di amarvi [12].

La tenerezza di quest’ultima frase, dal “tono curiosamente settecentesco [13]” vale, per chi scrive, il senso dell’intero libro. La gioia d’amore spinge Cocteau a confidarsi con il suo abate.

Ne esce fuori un quadro di vita simile agli odierni coming out nella Chiesa cattolica. Chi ne ha fatto esperienza ne comprenderà meglio il senso.

Esistono, è vero, sacerdoti illuminati. Ma sono costretti al silenzio, pena il loro “licenziamento”, la sospensione a divinis.

Era la vigilia di una solennità religiosa. Avevo l’abitudine, prima di accostarmi alla Comunione, di andare a confessarmi dall’abate X. Era come in mia attesa. Ancora sulla porta lo avvertii che non andavo a confessarmi, ma a raccontarmi; e che, ahimè! il suo verdetto già lo conoscevo.

‘Reverendo,’ gli chiesi ‘mi amate?’. ‘Vi amo’.

‘Sareste lieto di sapere che mi sento finalmente felice?’.

‘Lietissimo’. ‘Ebbene, seppiatelo, sono felice, ma in una maniera che la Chiesa e il mondo disapprovano, poiché a rendermi felice è l’amicizia, e l’amicizia per me non ha limite alcuno’.

L’abate m’interruppe: ‘Ritengo’ disse ‘che siate vittima di qualche scrupolo’.

‘Reverendo, non farò alla Chiesa l’oltraggio di crederla accomodante e ipocrita. Conosco la questione delle amicizie eccessive. Chi vogliamo ingannare? Dio mi guarda, ed io dovrei misurare al centimetro lo spazio che mi separa dal peccato?’.

‘Caro figliolo', mi disse l’abate nell’anticamera, ‘se non si trattasse che di rischiara il mio posto in cielo, non sarebbe un gran rischio, dal momento che credo che la bontà di Dio vada ben oltre la nostra immaginazione. Ma c’è il mio posto in terra. I Gesuiti non mi perdono d’occhio’ [14].

Cocteau ci racconta di un abbraccio. Rincasando, lo scrittore giunge ad una conclusione:

(…) pensai a quanto sia mirabile l’economia divina. Essa elargisce l’amore dove e quando difetta e, onde evitare un pleonasmo del cuore, a quanti lo possiedono lo nega [15].

Si tratta di una fede ragionata, di una fede, in altri termini, che non inganna la ragione.

Nella mia spaventosa solitudine non mi sfiorò il pensiero di ritornare alla Chiesa; troppo facile usare l’ostia come un farmaco e cercare nella Comunione una capacità di ripresa negativa, troppo facile ricorrere al cielo ogni qual volta perdiamo quello che ci allettava qui in terra [16].

Quando tutto sembra andare per il meglio, lo sconforto ritorna. Le incomprensioni offendono l’intelligenza, la dignità, l’onorabilità di un uomo fiero. Cocteau ci suggerisce una via d’uscita: l’amore va reinventato.

Sì, il monastero mi scacciava, come tutto il resto. Bisognava dunque partire, imitare quei Padri bianchi che si consumano nel deserto e il cui amore è un devoto suicidio. Ma Dio permette davvero che lo si ami in quel modo?

Comunque sia, partirò e lascerò questo libro. Se verrà trovato, lo si pubblichi. Forse aiuterà a capire che, esiliandomi, non mando in esilio un mostro, ma un uomo al quale la società non permette di vivere, poiché considera errore uno dei misteriosi meccanismi del capolavoro divino.

Invece di adottare il vangelo di Rimbaud: Ecco il tempo degli assassini, la gioventù avrebbe fatto meglio a ricordare la frase: L’amore va reinventato (…) È un vizio della società che fa della mia rettitudine un vizio. Io mi ritiro. In Francia, questo vizio non porta in prigione, grazie alle consuetudini introdotte da Jean-Jacques de Cambacérès e alla longevità del Codice napoleonico.

Ma non accetto d’essere tollerato. Il mio amore dell’amore e della libertà ne rimane ferito [17].

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