La "tristezza" di Pietro di Vinciolo

Note per una lettura della novella V 10 del Decameron

Di Domenico Conoscenti


Riedito per gentile concessione dell'autore.




Nella Rubrica della novella V 10 gli avvenimenti ruotano attorno a una donna sposata che riceve un giovane a casa:

"Pietro di Vinciolo va a cenare altrove; la donna sua si fa venire un garzone, torna Pietro, ella il nasconde sotto una cesta da polli; Pietro dice essere stato trovato in casa d'Ercolano, con cui cenava, un giovane messovi dalla moglie; la donna biasima la moglie d'Ercolano; uno asino per isciagura pon piede in su le dita di colui che era sotto la cesta, egli grida, Pietro corre là, vedelo, cognosce lo 'nganno della moglie, con la quale ultimamente rimane in concordia per la sua tristezza".[1]

Sembrerebbe una delle tante novelle di adulterio del Decameron, se non che la "tristezza" si riferisce alle preferenze omosessuali di Pietro, e la "concordia" si tradurrà in un ménage fra Pietro, la moglie e il giovane trovato in casa. L'omosessualità [2], indicata genericamente come "tristezza" [3] e solo alla fine, resta del tutto invisibile nella Rubrica, come se non fosse determinante nell'intreccio o non fosse per l'Autore elemento da evidenziare: il lettore si renderà conto di che cosa si tratta solo dalla lettura della novella.


È questo uno dei casi in cui, ben al di là di una (naturalmente impossibile) neutra sintesi del plot, la Rubrica propone una lettura particolare dell'intero testo. Nonostante sia una delle più lunghe del Decameron [4], essa infatti tralascia più di un terzo della novella, cioè l'incipit, il soliloquio della moglie del protagonista, il monologo della vecchia mezzana e il conclusivo accordo fra le due (§§ 6-25); e attacca direttamente con l'azione, cioè con il momento in cui Pietro va a cenare altrove, cui segue quello che già sappiamo. Il confronto con le Rubriche immediatamente precedenti di V 8 ("Nastagio degli Onesti, amando una de' Traversari, spende le sue ricchezze senza essere amato; vassene pregato dai suoi a Chiassi; quivi vede...") e di V 9 ("Federigo degli Alberighi ama e non è amato, e in cortesia spendendo si consuma e rimangli un sol falcone, il quale, non avendo altro, dà...") rende esplicita la differenza; queste, infatti, riportano la situazione di partenza prima del fatidico "Avvenne che...". Ma i riferimenti, per analogia e opposizione, con le novelle della V giornata, specialmente con 8 e 9, sono più numerosi di quanto non sia stato fin qui messo in luce [5].

Fonte largamente citata della novella è stata a lungo Apuleio (Metamorfosi IX 14-28), "scrittore amato, utilizzato e quasi trascritto" da Boccaccio [6]. Nel 1963 Pastore Stocchi avanza la tesi che, per la composizione della novella, l'autore abbia "contaminato" l'episodio di Metamorfosi con una anonima "commedia elegiaca" in latino, nota col titolo di De Cavichiolo, in cui

"una donna [...] si rammarica col marito perché questi, distratto in infami amori, la trascura" [7],

tesi ripresa in seguito da quasi tutti gli studiosi [8]. Bruni tuttavia segnala [9] un lavoro del 1987 [10], in cui vengono fornite indicazioni interessanti sul testo anonimo e sulla cronologia, che potrebbe essere posteriore al Decameron.

Per tornare all'unica fonte finora accertata, basta portare all'indietro il tempo (all'incirca al II secolo dopo Cristo), spostare il luogo (in una non meglio specificata località della Tessaglia), mettere un mugnaio (pistor) al posto di Pietro, un tintore (nacca) al posto di Ercolano e i fatti sono praticamente gli stessi. Tranne il finale: scoperto il giovane amante della moglie, il mugnaio per vendetta lo sodomizza, lo fa frustare e buttare fuori di casa, quindi ripudia e scaccia la moglie.

L'accostamento fra novella e Metamorfosi, evidenziato fin dal Cinquecento [11], è stato approfondito da Sanguineti White [12] attraverso l'analisi comparata, dal punto di vista tematico e stilistico, dei due testi, e i cui risultati saranno qui ripresi occasionalmente per ulteriori approfondimenti.

Nell'appropriarsi di Metamorfosi IX 14-28, Boccaccio avvicina la vicenda al proprio tempo e, diversamente da Apuleio, la determina nel luogo e nel nome del protagonista. L'incipit, che contiene in sé lo svolgimento di tutta la storia, recita:

"Fu in Perugia, non è ancora molto tempo passato, un ricco uomo chiamato Pietro di Vinciolo, il quale, forse più per ingannare altrui e diminuire la generale oppinion di lui avuta da tutti i perugini che per vaghezza che egli n'avesse, prese moglie" (§ 6).

Non è affatto ingenua questa trasposizione della vicenda in un altro tempo e in un altro spazio, che provoca, infatti, un cambiamento essenziale.

Il mugnaio eterosessuale [13] che si vendica dell'adulterio sodomizzando l'amante della moglie, nell'Italia comunale della prima metà del XIV secolo è diventato quel Pietro di Vinciolo connotato per "la sua tristezza", probabilmente il primo personaggio omosessuale della narrativa italiana a essere rappresentato come tale nell'intreccio narrativo [14]. Cenni all'omosessualità si trovano nel Decameron fin dalla prima novella [15], ma si riferiscono ad aspetti secondari delle trame: anche nel caso di ser Ciappelletto l'omosessualità non è che una fra le tante caratteristiche del ritratto di questo personaggio, il quale è poi rappresentato mentre organizza e mette in scena la sua stravolta confessione.

Il mugnaio che abusa dell'amante della moglie, scrive Di Francia nel 1904, vive solo "un momentaneo sfogo di vendetta" [16] che non ha nulla a che vedere con il suo naturale orientamento sessuale. Sulla scia di questa interpretazione, Pastore Stocchi afferma:

"l'abuso sodomitico fatto seguire dalle vergate che lo riducono a mal partito era, in epoca romana, il castigo più consueto per i moechi sorpresi in flagrante contro cui i mariti non intendessero valersi del diritto di vita e di morte che la legge concedeva loro" [17].

E più recentemente Walters:

"se il marito aveva reagito come sappiamo, era per difendere il suo onore e per riaffermare la sua virilità, non perché egli avesse una particolare inclinazione sessuale" [18].

Tuttavia, nota Sanguineti White,

"un aggettivo come gratissima che qualifica la vindicta, i due compiaciuti epiteti di mollis ac tener con cui il mugnaio si rivolge al giovinetto dopo aver giaciuto con lui ed infine l'aspro rimprovero che gli rivolge - defraudatis amatoribus aetatis tuae flore - , 28, gettano una notevole luce di dubbio o per lo meno di ambiguità sulla "momentaneità" di quello sfogo" [19].

Il senso di quel rimprovero era stato preannunciato fin dalla comparsa in scena del giovane amante: puer admodum et adhuc lubrico genarum splendore conspicuus, adhuc adulteros ipse delectans ('solo un ragazzino, che attirava l'attenzione per la bellezza del volto ancora liscio, ed era piuttosto lui che poteva ancora far la gioia degli amanti', IX 22) [20].

In Apuleio, il mugnaio eterosessuale può godersi "la più piacevole delle vendette per il suo matrimonio violato" [21] all'interno di una cultura che permetteva il rapporto sessuale attivo fra un uomo adulto, anche sposato e padre di famiglia, e un ragazzo.

Al di là dello specifico della flagranza del tradimento, nel mondo greco-romano [22] la componente omosessuale - nella forma della "pederastia" - della bisessualità maschile adulta era infatti percepita dalla società come "secondo natura" [23], e di essa erano partecipi le stesse divinità. Allorché Boccaccio traspone nella società trecentesca il racconto di Apuleio, l'accostamento dei due testi ci mostra immediatamente la profonda frattura che nel corso del tempo si era andata determinando fra Ellenismo e Medioevo a proposito delle relazioni personali e dei costumi sessuali, grazie soprattutto all'affermarsi del cristianesimo.

La nostra novella conclude la giornata in cui si è ragionato "di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse". Se nelle novelle precedenti la felice conclusione coincideva sempre col matrimonio [24], la 10 al contrario pone quest'ultimo come punto di inizio.

Si parte qui da un matrimonio privo di motivazioni affettive e sessuali e voluto per un fine autodifensivo, dimostrativo nei confronti della società. La situazione, in sé squilibrata e quindi potenzialmente generatrice di una storia, viene forzata dalla "fortuna" (dal narratore-demiurgo), conforme così sarcasticamente all'"appetito" di Pietro da fargli trovare una moglie non altrettanto indifferente né genericamente desiderosa, ma una giovane "la quale due mariti piuttosto che uno avrebbe voluti" (§ 7).

Acquisita consapevolezza della propria situazione, la donna nel suo soliloquio afferma fra l'altro:

"Questo dolente abbandona me per volere con le sue disonestà andare in zoccoli per l'asciutto, e io m'ingegnerò di portare altrui in nave per lo piovoso" (§ 9) [25];

il detto popolare che contrappone le pratiche sessuali dell'asciutto e del piovoso mette più a fuoco l'orientamento del marito ed evidenzia al tempo stesso il meccanismo narrativo di azione e reazione: all'abbandono di lui "per l'asciutto" si contrappone la seduzione di lei, "per lo piovoso", di un sostituto del coniuge.

Meccanismo portante, ribadito dall'incoraggiamento che apre il monologo della vecchia a cui la donna ha esposto i propri pensieri: "Figliuola mia, sallo Idio, che sa tutte le cose, che tu molto ben fai" (§ 15), e confermato nella parte centrale: "da capo ti dico che tu fai molto bene a rendere al marito tuo pan per focaccia" (§ 19).

E Dioneo, che conclude dicendo:

"Per che così vi vo' dire, donne mie care, che chi te la fa, fagliele; e se tu non puoi, tienloti a mente fin che tu possa, acciò che quale asino dà in parete tal riceva" (§ 64),

ribadisce ancora una volta tale meccanismo che avvicina la novella a quelle di beffa [26].

Prima di approdare a V 10, il tema dello squilibrio all'interno del matrimonio era già emerso in II 10 e IV 10.

"Dopo l'impotenza-debolezza del giudice Riccardo di Chinzica [...] e la senilità ovvia nell'anziano medico salernitano [...] la devianza omosessuale diventa la cifra ultima in cui si condensa l'aprioristica inefficienza erotica di una figura di marito per altro indefinita sul piano socio-professionale" [27].

È facile estendere il riscontro ad alcune novelle della III giornata, in cui è presente

"l'esistenza, all'interno del matrimonio, di un disordine creato dal marito (qui è omosessuale, nelle altre avaro, geloso, bigotto) e di conseguenza il bisogno, da parte della donna, di ricomporre questo ordine ricercando all'esterno una compensazione" [28],

situazione che ritorna in molte novelle della VII giornata, anche se il tradimento può avere come molla il puro desiderio di avventura [29].

Ma l'impotenza/debolezza e la senilità, come le caratteristiche degli altri personaggi, non escludevano il desiderio sessuale, per quanto non all'altezza delle rispettive consorti, così come l'errore maschile di sopravvalutare le proprie capacità sessuali o la scarsa attenzione alle esigenze della moglie in ogni caso non escludevano la "legittimità" del matrimonio. Nessuno di quei personaggi - impotenti, vecchi, avari, gelosi, bigotti, disamorati, di condizione inferiore, sciocchi - ha sentito il dovere di prendere moglie, col che, forse, a essere messa in gioco è non tanto l'omosessualità di Pietro, quanto la sua scelta di sposarsi.

Se il suggerimento, implicito fin dalla Rubrica, di accostare la novella a quelle di tradimento-beffa appare pertinente [30], è pur vero che qui l'adulterio viene scoperto prima di essere commesso, senza che la donna sia in grado di risolvere comunque a proprio vantaggio la situazione o che l'inganno si ritorca poi contro di lei. Manca il tradimento, non c'è beffa e non c'è beffato (almeno fra i protagonisti): la soluzione inaspettata di Pietro finisce per accontentare tutti (del terzo non ci viene detto nulla), sorprendendo molti lettori.

Il narratore pone come sigillo alla narrazione "acciò che quale asino dà in parete tal riceva", massima già adoperata in II 9, 6 e successivamente in VIII 8, 3, ma qui del tutto ridondante rispetto alle affermazioni immediatamente precedenti: in realtà estremo ammicco di Dioneo al lettore, con quel richiamare en passant un elemento determinante nello sviluppo della storia - l'asino - e più ancora un omaggio al protagonista-narratore dell'amata e ammirata fonte letteraria.

Il proverbio a conclusione può essere certamente una chiave di lettura per l'episodio di Apuleio: un uomo scopre il tradimento della moglie e si vendica ("chi te la fa, fagliele") abusando del suo amante e cacciando di casa entrambi. Se dobbiamo credere che sia questa la chiave di accesso anche della novella, allora essa qui è presente in una duplice accezione: si riferisce certo "agli amorosi inganni della donna", decisa a procurarsi degli amanti emulando la condotta del marito, come ci viene più volte detto durante la narrazione, ma può riferirsi altresì alla speculare reazione di Pietro che ripaga a sua volta la moglie con la stessa moneta, cioè con lo stesso amante. Qui tuttavia la ritorsione non ha niente di aggressivo, non è nemmeno una vendetta [31], ha a che fare piuttosto con altre molle emotive.

Al soliloquio della moglie risponde il monologo della vecchia mezzana (§§ 15-23), che ripropone su un piano ora più generale, ora più personale, i temi e gli argomenti esposti dalla giovane, soprattutto la contrapposizione fra giovinezza e vecchiaia, lette alla luce della differenza sociale fra maschile e femminile: gli uomini

"nascono buoni a mille cose, non pure a questa, e la maggior parte sono da molto più vecchi che giovani; ma le femine a niuna altra cosa che a fare questo e figlioli ci nascono, e per questo son tenute care" (§ 18).

Il monologo risulta costruito sulla consapevolezza: "sapere" è più volte ripetuto, come anche "vedere" e "avvedersi". Le immagini della cenere e dell'impossibilità di trovare il fuoco, di là dall'uso realistico, possono avere un rimando simbolico - la fiamma come equivalente della passione amorosa e la cenere come suo residuo/ricordo - che tornerà, variato, nella seconda parte della novella. La vecchia è l'incarnazione del futuro che attende la moglie di Pietro - un futuro che la accomuna ad altre donne, ma che qui scaturisce dall'esperienza particolare di essere andata moglie "a uno che molto più a altro che a lei l'animo avea disposto" (§ 7).

L'ipocrita bigotta sembra quasi evocata dall'ipotesi che la giovane aveva appena concepito nel soliloquio:

"Se io non avessi voluto essere al mondo, io mi sarei fatta monaca [...] e quando io sarò vecchia, ravedendomi, indarno mi dorrò d'avere la mia giovanezza perduta" (§ 12).

Il procedimento di mettere in contatto un personaggio con il possibile sviluppo della sua attuale esistenza era stato attuato nella novella 8, con la visione della caccia infernale che si manifesta a Nastagio.

Anche nella 10, con tonalità e stile molto differenti, l'imbattersi di un personaggio (la moglie di Pietro) nel virtuale destino che lo attende (la vecchia ipocrita) come esito della sua vita presente ha la funzione di scongiurare quel destino, di innescare cioè il cambiamento o di confermare la decisione del cambiamento. Il personaggio della vecchia ha il compito di legittimare le preoccupazioni espresse dalla giovane, soprattutto attraverso l'exemplum negativo che essa rappresenta.

Il soliloquio della moglie e il monologo della mezzana ipocrita sostituiscono l'adulterio raccontato dalla vecchia di Metamorfosi alla moglie del mugnaio, IX 16-21. Aiutanti vecchie e buone si sono trovate, con molto minore spazio narrativo, nelle novelle 2, 3 e 5 della stessa giornata.

Lo stereotipo negativo della vecchia di Apuleio e della tradizione antica, che era già passato a quella medioevale, è trasformato da Boccaccio in una figura più articolata e "comica", connotata con felice perfidia in senso antifrasticamente religioso, nella quale a una religiosità esibita e tutta esteriore corrispondono un'etica e una visione della realtà totalmente mondane.

L'iniziale "pareva pur santa Verdiana che dà beccare alle serpi" è il primo ammicco al lettore per l'uso di "beccare" - al posto del meno equivoco "mangiare" [32] - già adoperato in senso sessuale nella "novella di Filippo Balducci" in IV Introduzione, 28-29. Personaggio originalissimo scaturito dalla riscrittura [33], quello della vecchia è il più evidentemente ambiguo della novella, machiavellico ante litteram ("di questo mondo ha ciascuno tanto quanto egli se ne toglie", § 20) [34], benché di lei non si faccia cenno nella Rubrica.

Il suo linguaggio, da sentenzioso e solenne del periodo iniziale, precipita di colpo a quel "E da che diavol siam noi poi, da che noi siam vecchie..." e si assesta su espressioni proverbiali, domestiche, popolari.

Simile in questo al linguaggio della giovane [35], che tuttavia nel soliloquio risulta più impetuoso e diretto, certamente in relazione alla differenza d'età, e improntato poi a un piglio aggressivo e sfrontato nei dialoghi col marito.

Tutta la prima parte (incipit, soliloquio della moglie, monologo della vecchia e accordo fra le due) si riferisce a un arco di tempo non definito ma certamente ampio, anche perché fatti, discorsi e riflessioni si intendono ripetuti più volte. L'azione che stacca questo quadro, statico nella sua ripetitività, dà l'avvio a un'unica sequenza temporale, distinta in due momenti (§§ 26-47 e §§ 48-63), in cui l'ordine narrativo coincide con quello cronologico, tranne che per il racconto di Pietro (§§ 32-41), che porta il lettore a conoscenza di fatti accaduti altrove, ma contemporanei a quanto si stava svolgendo a casa del protagonista in sua assenza (§ 26).

Pur essendo uno dei protagonisti, Pietro entra in scena a circa un terzo della novella, e lo fa da narratore, attraverso il resoconto della serata a casa di Ercolano. Racchiusa fra un "Dirolti" e un "come io dissi", la narrazione nella narrazione si svolge secondo un'ottica tutta interna che espone i fatti nell'ordine in cui si sono mostrati a Pietro, con l'eccezione di rapidi flash-back che recuperano frammenti narrativi in un primo tempo taciuti per impedire al lettore di immaginare quel che sarebbe accaduto ("Ercolano, che alquanto turbato con la moglie era per ciò che gran pezza ci avea fatti stare all'uscio senza aprirci", § 33) [36].

Pietro riporta direttamente le frasi furiose dell'amico, quelle di spiegazione della moglie e le minacce finali, col conseguente parapiglia tutto gesti e azioni frenetiche, in cui si inserisce egli stesso, fino ad allora solo testimone/narratore:

"Ma io, temendo per me medesimo la segnoria, levatomi, non lo lasciai uccidere né fargli alcun male, anzi gridando e difendendolo fui cagione che quivi de' vicini traessero, li quali, preso il già vinto giovane, fuori della casa il portarono non so dove" (§ 41).

Il suo racconto tutto oggettivo si contrappone ai monologhi delle due donne, impegnate più o meno sinceramente ad argomentare, a spiegare il proprio vissuto e le proprie intenzioni.

Pietro è un personaggio sempre detto da altri, a partire dall'incipit del narratore - che sembra, con quel "forse", riferire un pettegolezzo diffuso, anziché esprimere la coscienza del personaggio attraverso una focalizzazione interna -, fino alla moglie (sia nel soliloquio, sia quando parla con lui). E detto quasi sempre dall'esterno: il narratore non sa o non vuole riportare i suoi pensieri e le sue intenzioni, compreso il finale: "quello che Pietro si divisasse a sodisfacimento di tutti e tre m'è uscito di mente" (§ 63).

Nel suo resoconto, tutto centrato su "un fatto", Pietro non lascia affiorare alcuna considerazione personale, alcun commento o giudizio [37]; l'unica espressione con cui dice qualcosa di sé è quel "temendo per me medesimo la segnoria", che si può leggere solo come la preoccupazione di evitare il proprio coinvolgimento in uno scandalo pubblico. Pure quando parla direttamente, si direbbe che voglia restare chiuso in sé stesso, elusivo, opaco. Fino alla fine, quando il lettore è indotto a pensare che nella mente del personaggio si sia delineato un piano, un progetto, Pietro dice l'essenziale, a conferma che la sua è anche una strategia narrativa (come si diceva già per il suo racconto): egli parla senza scoprire le proprie intenzioni, preoccupato di organizzare solo l'immediato cioè la cena, "Or non più, donna: di questo ti contenterò io bene; farai tu gran cortesia di fare...", § 59; segue, dopo la risposta piccata della moglie, una ripresa speculare alla prima affermazione (§ 61), con le frasi disposte in chiasmo, dove gli elementi esterni riguardano le rassicurazioni alla donna e quelli centrali sono relativi alla preparazione della cena.

Il narratore non ci ha detto nulla del suo aspetto, della sua età, della sua occupazione, mentre ha abbozzato un ritratto della moglie, benché ella resti priva di nome, come del resto la moglie di Ercolano.

Entrambe esistono solo in quanto "mogli di", laddove nella V giornata tutte le donne sono fornite di un nome, sia pure detto alla fine (5), o almeno di un cognome (8), anche quando dal punto di vista narrativo hanno un ruolo poco rilevante, al contrario della moglie di Pietro.

La stasi precaria che segue all'invettiva della donna viene interrotta dal nuovo "Avvenne che", con cui il narratore rimette in moto l'azione. L'asino pesta le dita del garzone nascosto, "tanta fu la sua ventura, o sciagura che vogliam dire" (§ 49), e l'urlo di dolore ne svela la presenza. Nella Rubrica si era parlato solo di "sciagura", qui maliziosamente viene presentata un'altra possibilità interpretativa. L'asino/uomo/narratore di Metamorfosi si è trasformato, sotto la penna di Boccaccio, nell'umile animale domestico realisticamente rappresentato [38]; un animale vero, dopo l'usignolo/metafora di V 4, i cani infernali di V 8 e il falcone status symbol di V 9; a conferma di essere in un'ottica diversa di realtà.

Del "giovanetto", "giovane", "garzone", come viene variamente denominato, poi non sappiamo nulla, né udiamo la sua voce: le scarne risposte alle domande di Pietro - espresse invece direttamente - sono riferite e sintetizzate dalla voce del narratore. È lasciato sulla scena, anche in seguito, come una presenza inerte, con la funzione di un bell'oggetto ("un garzone [...] de' più belli e de' più piacevoli di Perugia", § 26), di catalizzatore - suo malgrado - dell'antagonismo all'inizio e dell'avvicinamento alla fine fra Pietro e la moglie, che restano il centro esclusivo dell'interesse del narratore.

Meno che mai poi il lettore è a conoscenza delle sue reazioni al progetto di Pietro "a sodisfacimento di tutti e tre": vittima sacrificale? complice curioso? terzo indifferente, magari ricompensato con un regalo? In fondo, dopo avere capito dalla reazione di Pietro che la propria vita non è a repentaglio, il garzone avrebbe più che mai via libera per portare a compimento il suo progetto iniziale.

Il narratore lascia al lettore la libertà di immaginare le reazioni del giovane, non solo sulla base di quanto suggerisce Dioneo nel finale pseudo-reticente ("la mattina vegnente infino in su la Piazza fu il giovane, non assai certo qual più stato si fosse la notte o moglie o marito, accompagnato", § 63) ma anche sulla base delle due novelle precedenti, dove la giovane de' Traversari e monna Giovanna, renitenti oggetti del desiderio dei due protagonisti, rappresentano il corrispettivo del garzone "a cui Pietro per le sue cattività era andato lungamente dietro" (§ 51) [39].

Alla fine le due donne dicono di sì, accettano il matrimonio (cioè il rapporto) con i rispettivi pretendenti, sull'onda di scelte che non hanno a che fare col sentimento amoroso.

Il matrimonio che nella V giornata appare legato all'eros fino a sovrapporvisi, in 8 e 9 lo lascia fuori [40], trovandosi altri sentimenti, più o meno nobili, e altre ragioni: monna Giovanna "essendo rimasa ricchissima e ancora giovane, più volte fu da' fratelli costretta a rimaritarsi" (V 9, 39).

Ma già in V 4, il matrimonio era stato imposto da messer Lizio da Valbona a un tremante Ricciardo, come soluzione per evitargli la morte e accomodare il possibile scandalo. Il padre di Caterina, a conti fatti, aveva colto al volo l'opportunità di avere come genero un "gentile uomo e ricco giovane", con la motivazione che "noi non possiamo aver di lui altro che buon parentado" (§ 38). Il matrimonio è anche uno strumento per gestire patrimoni e relazioni sociali.

Un altro punto di contatto si può rilevare fra questa e le precedenti novelle: Nastagio "invita i parenti suoi e quella donna amata da lui a un desinare" (V 8, 1); Federigo "non avendo altro, dà a mangiare alla sua donna venutagli a casa" (V 9, 1); "Pietro di Vinciolo va a cenare altrove" (V 10, 1), e "cenare" è ripreso qualche riga più avanti. Il momento del pasto in tutte e tre le novelle corrisponde a uno snodo importante nella vicenda, quello risolutivo del cambiamento.

Nella 10, la cena finale di Pietro con la moglie e il giovane anticipa (facendone già parte) il ménage/scioglimento. Alla cena mancata della moglie col garzone, preludio all'incontro erotico, corrisponde la cena mancata di Pietro a casa di Ercolano, a sua volta coincidente, nei piani della moglie di Ercolano, con l'incontro fra lei e l'amante. In un incrocio di casualità analoghe, simultanee e concatenate, saltano le cene e saltano gli incontri (si è già visto l'uso in chiave sessuale del termine "appetito") [41].

Tutti restano digiuni, nella duplice accezione, a casa di Ercolano, tutti digiuni a casa di Pietro, dove però la "fortuna" e il protagonista preparano congiuntamente il risarcimento del finale.

Al desinare come spettacolo sovrannaturale in V 8 seguono il desinare come conferma della nobiltà estrema di Federigo in V 9 e, infine, la cena come preludio erotico, nella visione dionea tutta sensuale dell'esistenza, che gioca sull'analogia fra cibo e sesso, presente anche in alcune novelle della VII giornata.

Riconosciuto il giovane "come colui a cui egli per le sue cattività era andato lungamente dietro" e rassicuratolo che non gli avrebbe fatto del male, Pietro si fa spiegare come mai si trovi lì, poi lo prende per mano, presumibilmente in segno di affettuosa premura, onore o rispetto [42], e lo conduce nella camera dove l'aspetta la moglie. L'aggettivo "dolente", con cui la donna aveva definito il marito (§ 9), viene dal narratore ora spostato su di lei, in contrasto col "lieto" riferito a Pietro.

Ma la relazione fra situazioni, frasi e singoli termini che ritornano ripresi, variati o capovolti, rispetto ai personaggi e alle situazioni contestuali, appare una costante nella novella, e non solo nei dialoghi fra Pietro e la moglie, costruiti esplicitamente come un puntuale contrasto.

Assume una luce più netta adesso, nell'economia della novella, il racconto nel racconto fatto da Pietro a proposito di quanto era avvenuto in casa di Ercolano. Di nuovo si ripresenta l'associazione con la visione di Nastagio, qui per la tecnica del racconto racchiuso nel racconto, oltre che per il significato che esso assume. In V 8 il mondo ultraterreno irrompe in quello terreno e mostra al protagonista il suo potenziale destino, risultato di un'esistenza avviata a dilapidare i propri beni e la propria vita.

La visione ha la funzione attiva di far prendere consapevolezza al protagonista e, in più, finisce per essere strumento oggettivo, oltre che soggettivo, di cambiamento reale della situazione, nell'uso che Nastagio, abilmente, ne saprà fare. Qui, in V 10, tutto è risolto sul piano terreno. Lì il destinatario della visione è Nastagio: il lettore sa quello che sa lui e scopre insieme a lui cosa accade. Qui il destinatario principale della scena di adulterio a casa di Ercolano non è Pietro, ma inizialmente il lettore che, a differenza di lui, sa cosa sta accadendo a casa sua: esattamente l'equivalente di quello che Pietro sta raccontando e di cui è del tutto all'oscuro.

Questa spiazzante mise en abîme, che Boccaccio trova uguale in Apuleio, anzi forse più esplicita, allorché il narratore dice che il marito ignarus suorum, domus alienae percenset infortunium ('prende a raccontare per filo e per segno i guai di casa altrui, completamente all'oscuro dei suoi': Metamorfosi IX 23), ha inoltre la funzione, narrando due volte pressoché "lo stesso fatto", di metterne in risalto le differenze.

In Apuleio, nella prima scena di tradimento, il mugnaio convince il tintore a non uccidere l'amante della moglie, dicendogli che questi sarebbe morto in ogni caso da lì a poco per le esalazioni dello zolfo; nella seconda, quando scopre a sua volta l'amante della propria moglie, la differenza di comportamento viene sottolineata dallo stesso mugnaio: nec ad exemplum naccinae truculentiae sulpuris te letali fumo necabo ('non ti ammazzerò col fumo velenoso dello zolfo, seguendo l'esempio di quel feroce tintore': IX 27), prospettando in maniera esplicita il confronto prima di reagire diversamente.

In Boccaccio le due scene di adulterio sono già in partenza diverse, per qualcosa di più che per "un'enfatizzazione dell'effetto di jeu" [44]. Il primo è l'adulterio di una moglie in una coppia eterosessuale, il secondo in una coppia in cui il marito manifesta desideri omosessuali. Si tratta, per quanto riguarda l'episodio di Ercolano, di un'anticipazione, di ciò che si sarebbe proposto come termine di confronto: virtuale possibilità di quello che sarebbe potuto, o dovuto, accadere. Del racconto di Ercolano ci viene mostrata quindi una ripetizione/variazione di cui risalta ancora di più l'originalità se la si mette a confronto con la prima scena, posta lì come termine di paragone della "norma".

Nell'esperienza raccontata da Pietro, egli è stato testimone, ma non solo: poiché Ercolano "correva per un coltello per uccidere" il giovane che non era in grado di difendersi, l'intervento di Pietro ha impedito che l'amico commettesse un delitto d'onore. Il racconto di ciò che avviene a casa di Ercolano sotto gli occhi di Pietro (intervento di lui a parte) è l'esito possibile di un matrimonio "secondo natura": sia nella possibilità dell'adulterio, sia nelle conseguenze della scoperta di esso da parte del marito tradito.

Nel caso di quello che sta avvenendo a casa di Pietro, le cose si svolgono in maniera differente: innanzitutto per l'assenza di coinvolgimento affettivo nei confronti della donna, sposata per "diminuire la generale oppinion di lui avuta da tutti i perugini", ma soprattutto per il fatto che l'amante della moglie è proprio "colui a cui Pietro per le sue cattività era andato lungamente dietro" e, solo dopo averlo riconosciuto e rassicurato, egli apprende il motivo della sua presenza in casa.

Se poi Pietro avesse voluto seguire l'esempio di Ercolano, in quel caso sarebbe mancato qualcuno in grado di svolgere il ruolo da lui svolto a casa dell'amico, cioè quello di impedire l'omicidio.

Anche V 1, nell'inquietante seconda parte dimostrativa [45], esibisce due volte uno stesso nucleo narrativo: il rapimento di Efigenia da parte di Cimone. Non c'è tecnica ad incastro né narrazione di secondo grado, ma ripetizione in tempi successivi, coincidenti coi tempi della narrazione, per evidenziare sia il ruolo determinante della fortuna sia la fermezza d'animo (o l'ostinazione ottusa) di Cimone; il secondo rapimento inoltre è reso possibile grazie a Lisimaco (innamorato di Cassandrea, promessa sposa a un altro), che vive la stessa condizione di Cimone. In maniera diversa per V 1, V 8 e V 10, Boccaccio non narra una sola storia, ma ne lascia intravedere due o più varianti all'interno di ciascuna novella.

Al termine del racconto di Pietro, la donna ostenta riprovazione e sdegno per la moglie di Ercolano - che invece "volentieri avrebbe [...] difesa" - e si lascia andare a una vera (falsa) invettiva contro di lei, con una foga oratoria che si allarga ad altre "così fatte femine" e conclude sdegnata: "elle si vorrebbero uccidere, elle si vorrebbon vive vive metter nel fuoco e farne cenere!" (§ 45), espressione che riprende addebat et talis oportere vivas exuri feminas (insieme ad altre battute immediatamente precedenti) di Metamorfosi IX 26.

Che "ardere", "fuoco", "fiamme", "ceneri" e simili abbiano in Boccaccio e nella cultura medioevale anche un valore simbolico, per analogia o per contrappasso legati alla passione erotica, è ricordato, per restare solo nell'ambito della V giornata, dalla "fante ... [che] quasi del suo amor l'aveva accesa" (V 5, 12); da Gian di Procida e Restituta che devono essere "arsi" e "di fuoco [...] morire" (V 6, 23 e 25, termini più volte ripresi), perché scoperti dal re nudi e abbracciati; da Teodoro e Violante che "nell'amorose fiamme accesi ardevano", e dal padre della stessa giovane quando dice: "nel cospetto di quanti cittadini ci ha la farò ardere sì come ella ha meritato" (V 7, 9 e 30).

Variate nella funzione, al di là del livello realistico e letterale, sono le immagini di fuoco e di cenere presenti nel monologo della mezzana, alla quale questa invettiva sembra ricondurre per un altro aspetto.

Quando, riferendosi alla moglie di Ercolano, la donna sarcasticamente esclama: "ecco fede d'onesta donna, che mi sarei confessata da lei, sì spirital mi parea! e peggio, che essendo ella oggimai vecchia dà molto buono essemplo alle giovani!" (§ 43), usa espressioni che richiamano senz'altro la figura della vecchia bigotta, di cui l'adultera sembra costituire la variante sposata, il virtuale doppio. Più avanti, difatti, la donna definisce la moglie di Ercolano: "una vecchia picchiapetto spigolistra" (§ 56).

L'accezione di "spigolistra" che fornisce Boccaccio in Conclusione dell'Autore, 5: "...a spigolistra donna non si conviene, le quali più le parole pesan che' fatti e più d'apparer s'ingegnan che d'esser buone", sembra adattarsi perfettamente al ritratto della vecchia bigotta. Pure se la moglie di Ercolano ha dal marito "ciò che ella vuole, e tienla cara come si dee tener moglie, il che a me non avviene" (§ 56), l'adulterio c'è stato lo stesso.

La moglie di Ercolano appare una virtuale proiezione dell'ipocrita mezzana, come questa a sua volta lo era stata della moglie di Pietro: personaggio agente in differenti ipotesi narrative.

Pietro riprende punto per punto l'invettiva della donna contro la moglie di Ercolano: il suo

"niuna altra cosa vi t'induceva se non che voi siete tutte così fatte, e con l'altrui colpe guatate di ricoprire i vostri falli" (§ 54)

riformula la motivazione della donna, che però curiosamente era stata enunciata non da lei, ma dal narratore ("ma per ciò che col biasimare il fallo altrui le parve dovere a' suoi far più libera via", § 42). Il protagonista conclude a sua volta il proprio intervento con una maledizione speculare a quella della donna nei confronti della moglie di Ercolano - "che venir possa fuoco da cielo che tutte v'arda, generazion pessima che voi siete! " - che ritorce contro di lei il "dicevi che arder si vorrebbe" (§ 54).

Ribadendo la natura intimamente dialettica di tutta la narrazione, il meccanismo del botta e risposta qui si colora in più del riferimento al "castigo divino e dantesco per i peccatori contro natura proprio da Pietro [...] invocato sul capo della moglie" [47], che ha una sua ragione nell'ottica del personaggio, per il quale contro natura, contro la sua natura, appare la relazione con la donna, evidenziata dal matrimonio-obbligo sociale, e la punizione divina auspicata per i sodomiti viene specularmente ribaltata su coloro che la invocano.

Pietro non "si dice" nemmeno in questa occasione: parla di rimbalzo, con affermazioni solo reattive, che rovesciano sull'interlocutore il giudizio che accompagna gli uomini che vivono la sua condizione. Quale fosse questo giudizio, lo aveva espresso la moglie quando, a proposito della decisione di dilettarsi "di quello che egli si diletta", aveva concluso: "io offenderò le leggi sole, dove egli offende le leggi e la natura" (§ 13) [48].

La risposta di Pietro è una formula altrettanto generica e universale: "siete tutte così fatte [...] che tutte v'arda, generazion pessima di donne che voi siete!", seguendo i moduli tradizionali del pensiero misogino.

Nel rivendicare i propri diritti di moglie, la donna aveva affermato nel soliloquio d'avere creduto Pietro "vago di quello che sono e deono essere vaghi gli uomini" (§ 10), delineando ingenuamente un quadro della realtà "come deve essere". La formulazione prescrittiva sembra ribadire passivamente il dovere del matrimonio, dopo la coincidenza di eros e matrimonio confermata in gran parte della V giornata. La disillusione, che prelude alla consapevolezza reale, arriverà verso la fine, quando dirà al marito "se' così vago di noi come il can delle mazze" (§ 55) [49], riprendendo lo stesso aggettivo del soliloquio ("vago"), quasi a chiudere il cerchio dell'illusoria convinzione iniziale.

La donna si era posta fin dall'inizio la domanda chiave: "Egli che sapeva che io era femina, perché per moglie mi prendeva se le femine contro all'animo gli erano?" (§ 11).

Una prima, parziale risposta, compressa nell'incipit, è che Pietro non poteva, ovviamente, prendere per moglie un "garzone". Egli condivide con i protagonisti delle novelle 8 e 9 l'essersi sposato per motivi che non hanno a che fare con l'eros; ma, accettando il matrimonio, fa sua una particolare pressione esterna, sociale.

E pur essendo sufficiente - anche agli occhi dei lettori moderni - il timore per la propria reputazione e per l'emarginazione derivanti dalla "generale oppinion di lui avuta da tutti i perugini" (§ 6), tuttavia non si deve dare per scontato che l'interdizione sociale dell'omosessualità fosse quella che è pervenuta fino a noi [50].

Quel timore può essere stato rafforzato, se non causato del tutto, dal fatto di essere egli "un ricco uomo", che è l'unico dato sociale che ci viene fornito sul personaggio, al quale fa riscontro il "diedigli grande e buona dota" (§ 10), detto dalla moglie. Sono motivazioni che si apparentano a quelle economiche e sociali presenti in V 4 e 9: il matrimonio nella mentalità "borghese" del Trecento è, fra le altre cose possibili, uno strumento per gestire ricchezze e relazioni, quasi una forma di obbligo sociale per un uomo della condizione economica di Pietro; e rifiutare il matrimonio avrebbe implicato per lui una deminutio e di certo uno svantaggio nella gestione del proprio patrimonio.

Il "ricco uomo" Pietro era stato preceduto da due personaggi come Nastagio, che "senza stima rimase ricchissimo" (§ 4), e Federigo, che "faceva feste e donava, e il suo senza alcun ritegno spendeva" (§ 6).

Nella giornata dei palpitanti amori a lieto fine, l'eros entra in stretta relazione con la ricchezza: poiché Nastagio perseverava "nello amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici e parenti che egli sé e il suo avere parimente fosse per consumare; per la qual cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna partire [...] per ciò che, così faccendo, scemerebbe l'amore e le spese" (V 8, 9).

Federigo, dal canto suo, spendendo "oltre a ogni suo potere molto e niente acquistando, sì come di leggiere adiviene, le ricchezze mancarono e esso rimase povero" (V 9, 7).

Tutto ciò fino al salvifico matrimonio di entrambi, salvifico e risanatore anche del patrimonio. Pure Pietro probabilmente si sposa, anche lui fuori dall'orbita di eros, per poter conservare, se non accrescere, le proprie ricchezze.


Se siamo in presenza di una novella misogina [51], che ruolo gioca "la tristezza" di Pietro?

Fin dall'inizio la protagonista è presentata dal narratore come una giovane "la quale due mariti più tosto che uno avrebbe voluti" e che reclamerà, dal soliloquio iniziale al dialogo finale col marito, il diritto alla gratificazione sessuale: "E intendi sanamente, Pietro, che io son femina come l'altre e ho voglia di quel che l'altre" (§ 58). La vecchia bigotta amplifica questo aspetto, inserendovi la contrapposizione, stavolta non sociale ma fisiologica, fra maschile e femminile (§ 19). La sua femmina "sempre apparecchiat[a]" suona come affermazione di un bisogno inappagabile, visto che altrettanto "degli uomini non avviene", quasi una giustificazione naturale alla necessità di avere un amante valido; essa ha la capacità di "stancare" molti uomini, "dove molti uomini non possono una femina stancare" (ib.).

Il tema della voracità femminile, che è uno degli aspetti del pensiero misogino, viene posto in evidenza dalle donne, dalla vecchia soprattutto, anziché dagli uomini, al contrario di quanto ritiene Sanguineti White, secondo cui le donne "dal punto di vista di Pietro, [sono] creature tutte sensuali che dall'uomo vogliono una cosa sola" [52].

Nei discorsi delle due donne ricorre l'alternanza, niente affatto casuale, di "donna" o "moglie" e di "femina", termine assente nell'uso del narratore e in quello di Pietro (ma anche di Ercolano), che adoperano solo "donna" e "moglie".

Pietro viene sfiorato dalla lussuria femminile senza lasciarsi coinvolgere neppure mentalmente, né mette in relazione questa con la propria indifferenza nei confronti delle donne. La sua affermazione, quando scopre l'adulterio della moglie, sembra sanzionare piuttosto l'ipocrisia e la falsità femminili: "come non dicevi di te medesima? o se di te dir non volevi, come ti sofferiva l'animo di dir di lei, sentendoti quello medesimo aver fatto che ella fatto avea? Certo niuna altra cosa vi t'induceva se non che voi siete tutte così fatte, e con l'altrui colpe guatate di ricoprire i vostri falli" (§ 54).

La misoginia nella cultura medioevale non è un aspetto legato all'omosessualità più di quanto non lo sia all'eterosessualità: si pensi al Corbaccio, solo per restare nell'ambito dello stesso autore.

L'ottica bassa del novellatore Dioneo [53] ha ripreso qui il tema dell'appetito delle donne, ribadito a vario titolo da lui stesso e da molte delle novelle del Decameron: aspetto positivo e naturale [54] che tuttavia porta in sé il risvolto inquietante della voracità femminile e della speculare insufficienza maschile, già esplicito in III 1 e in III 10 e svolto in chiave "giuridica" da madonna Filippa in VI 7. L'aspetto non-comico della misoginia si paleserà - con forza - in poche novelle e in qualche intervento della brigata nella seconda parte dell'opera [55].

Per quanto dal Proemio alla Conclusione tutto il Decameron ruoti attorno alle ripetute e convinte dichiarazioni d'amore alle donne e per quanto vi si affermi il positivo riconoscimento delle loro esigenze sessuali, a scrivere di donne e a farle agire e parlare è in ogni caso un uomo, che porta nella sua opera, oltre alla propria geniale creatività, anche la formazione culturale (in senso sia retorico-letterario che antropologico) inevitabilmente maschile del XIV secolo.

In Apuleio la contrapposizione fra marito e moglie è netta: si può dire che fin dalla presentazione (Metamorfosi IX 14), e per la durata del racconto, l'uomo è il tipico buon uomo e la donna una megera ninfomane e sguaiata, delineata secondo i canoni di una esasperata misoginia [56]: dopo essere stata cacciata di casa, farà perfino morire il marito. Dunque un personaggio tutto negativo. In Boccaccio questa contrapposizione è assente, i personaggi si prestano a essere variamente interpretati e il lettore si trova a fare i conti con la propria visione morale [57].

Contrariamente a una lettura del tutto negativa di Pietro [58], cui alcuni studiosi contrappongono [59], altri associano quella della donna [60], non sembra che il narratore mostri rifiuto o disprezzo per il protagonista.

Egli lo delinea dall'esterno, lo mostra laconico e sfuggente, borghesemente preoccupato del giudizio dei concittadini fino a fingere di essere quello che non è, ma nella novella c'è un lieto fine che coinvolge la moglie ed è voluto da Pietro, a differenza del mugnaio che si gode da solo la gratissima vindicta.

In Apuleio la separazione è netta, anche dal punto di vista della dislocazione dei personaggi: lui in camera col ragazzo, lei lasciata fuori. La virtuale soluzione rappresentata dal comportamento del mugnaio è sostituita in Boccaccio dalla decisione di Pietro.

Pastore Stocchi scorge pure nel finale della novella l'influsso dell'anonima commedia in latino [61], nella quale il marito, per trattenere la donna che vuole lasciare il tetto coniugale, le "propone (v. 138): "...Ut simul pueris tu potiare meis".

La moglie accetta il compromesso, e mentre un giovane, certo Aurelio, raggiunge la casa, il marito compiacente se ne allontana" [62].

Come si vede, alla fine anche qui moglie e marito condividono lo stesso amante, ma separatamente, in tempi diversi [63]. In realtà, il finale attuato da Pietro era già contenuto in Metamorfosi IX 27: il mugnaio, prima di dare corso alla sua vendetta, si diverte sadicamente a rassicurare il ragazzo, dicendogli che non si appellerà alla legge sull'adulterio né ucciderà

tam venustum tamque pulchellum puellum, sed plane cum uxore mea partiario tractabo. Nec herciscundae familiae sed communi dividundo formula dimicabo, ut sine ulla controversia vel dissensione tribus nobis in uno conveniat lectulo ('un ragazzino così grazioso e così bellino; invece voglio proprio esercitare il diritto di compartecipazione con mia moglie. E intraprenderò un'azione legale, non per la separazione dei beni, ma piuttosto per un'equa divisione della proprietà comune, in modo che senza divergenze e senza contrasti noi tre possiamo venirci incontro su uno stesso... letto').

Quella che in Apuleio è una possibilità narrativa, solo enunciata dal mugnaio per beffare l'amante della moglie prima di passare a ben altre vie di fatto, diventa invece il finale voluto da Boccaccio. L'ambiguità della novella, per quel che riguarda i fatti rappresentati, si eleva al quadrato rispecchiandosi nel testo di Apuleio.

Il mugnaio di Metamorfosi vede il ragazzo per la prima volta e la vendetta che si prende su di lui sembra indipendente da quella persona, se non in quanto incarnazione di un modello generico con cui realizzare un rapporto pederastico socialmente accettato:

tam mollis ac tener et admodum puer, defraudatis amatoribus aetatis tuae flore [...] intempestivum tibi nomen adulteri vindicas ('tu, ragazzino così dolce e delicato, privi gli amanti del fiore della tua giovinezza [...] arrogandoti prima del tempo il titolo di seduttore', Metamorfosi IX 28).

In Boccaccio, per la decisione di Pietro risulta determinante il fatto che l'amante della moglie sia non un garzone qualsiasi e nemmeno un qualsiasi giovanetto leggiadro, ma proprio "colui a cui Pietro per le sue cattività era andato lungamente dietro"; e dal repentino cambiamento di atteggiamento del protagonista comprendiamo che nella sua mente sta cominciando a prendere forma qualcosa che si svelerà solo alla fine.

La fortuna ancora una volta gioca un ruolo determinante: ha fatto sì che la scoperta dell'adulterio della moglie coincida proprio con quell'amante e non con altri, e Pietro, come tanti personaggi del Decameron, è abile a cogliere l'occasione per sfruttarla a proprio vantaggio. E a vantaggio della moglie.

Pure la donna, d'altra parte, ha sfumature ambigue, si adegua al segreto e vive di nascosto anche lei: "segretamente" si dà da fare per dare effetto ai suoi pensieri mentre la vecchia "occultamente" le procura il primo amante e poi il secondo, "sempre del marito temendo"; mente recitando la parte della moglie onesta quando si lascia andare all'invettiva contro la moglie di Ercolano, che volentieri difenderebbe.

Vuole proteggere in ogni modo la propria reputazione, e in questo manifesta un atteggiamento analogo a quello di Pietro, che aveva preso moglie, appunto, preoccupato della propria reputazione.

I due personaggi finiscono per vivere entrambi un'esistenza scissa: da un lato i loro desideri, la loro sessualità e, certo, anche la loro affettività che restano privati, occulti e si realizzano all'ombra dell'inganno; dall'altro il rispetto formale delle convenzioni sociali.

Stupisce che la donna, nella gestione dei suoi adultèri, si senta vincolata al segreto, allo stesso modo del marito nel suo "andare lungamente dietro" ai garzoni, apparendo più grave, agli occhi dei lettori moderni, l'omosessualità e non il tradimento, che qui potrebbe apparire giustificato [64].

Non doveva essere così per la mentalità dei personaggi: nonostante la donna avesse detto a sé stessa "io offenderò le leggi sole, dove egli offende le leggi e la natura" (§ 13), il discredito sociale nei confronti di un'adultera era altrettanto forte e vincolante [65] di quello verso il comportamento omosessuale di un uomo (e probabilmente anche superiore); la fedeltà a qualsiasi costo verso il marito doveva essere un dovere assoluto da parte delle donne che qui, non a caso, sono "mogli di" prive di nome; e la reazione violenta di Ercolano ne è la riprova.

Con gradi differenti di partecipazione e di iniziativa, Pietro e la moglie arrivano a vivere alla stessa maniera un rapporto di pura finzione. Almeno fino alla conclusione, in cui è come se il matrimonio diventasse (o ridiventasse) per un attimo vero, come se i due si sposassero di nuovo, trovando un punto di contatto per interposta persona.

Si sposano mentre si tradiscono e viceversa, secondo la regola per cui nel Decameron l'ambivalenza appare una costante, dentro e fra le novelle.

Rispetto alle novelle della giornata, che hanno come fondale spazi aperti (la campagna, il mare, la selva...) o, più domesticamente, si svolgono all'esterno su un balcone o fuori dall'uscio, risalta in forte contrasto l'ambientazione di V 10, tutta interni e luoghi addirittura angusti [66].

La presenza del fuori, della città, è implicita fin dall'incipit in quel cicaleccio/coro dei Perugini, secondo cui (e per convincere i quali) Pietro si è sposato per i motivi che sappiamo, e si delinea, anche visivamente, alla fine, quando il giovane viene accompagnato "la mattina vegnente infino in su la Piazza".

Fra questi due termini esterni totalmente urbani, municipali - e in continuo e inevitabile rapporto dialettico con essi - sta racchiusa e compressa la vicenda, che ha nella dimensione nascosta e privata dell'argomento il suo cuore tematico, e nell'ambientazione esclusivamente domestica e degli interni il corrispettivo nascosto spazio scenico.

Il fuori è in controluce nelle preoccupazioni di Pietro e della moglie per la propria reputazione. Solo nella novella di secondo grado raccontata da Pietro si inserisce per un attimo l'esterno, costituito ugualmente dalla comunità, dai vicini che accorrono e intervengono in una situazione di "naturale" adulterio. Invece qui tutti, da Pietro alla moglie, compresa la mezzana (per altre ragioni) e inevitabilmente anche il garzone, vivono e rispecchiano nel loro essere personaggi questo contrasto esterno-interno, che li rende duplici e ne motiva, a livello diverso, le azioni.

Nella giornata si è ragionato "di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse": ma qui, a differenza delle precedenti novelle, non ci sono stati ostacoli da superare per arrivare al matrimonio: anzi, il mondo esterno ha sospinto, quasi forzato il protagonista verso le nozze.

Eppure, nonostante il privilegio di Dioneo, si può dire che anche la 10 svolga, a suo modo, il tema, a qualunque dei protagonisti si voglia fare incarnare il ruolo di amante: alla donna, dopo gli "sventurati accidenti" del rientro improvviso del marito e della scoperta dell'amante, e simmetricamente pure al giovane per gli "accidenti" medesimi, quindi a Pietro che finalmente raggiunge l'oggetto dei suoi desideri "lungamente" inseguito, e superando "accidenti" che devono essere anche antecedenti e fuori dalla casa (e dalla novella).

Ma pure se gli amanti sono Pietro e la moglie, essi risolvono lo "sventurato accidente" della scoperta dell'adulterio col ritrovarsi insieme; o, se lo "sventurato accidente" è l'omosessualità di Pietro, che pure è stata l'occasione del loro matrimonio, è grazie a questa che ora avviene il ricongiungimento fra i due.

Branca scrive che "non solo tutti e tre i protagonisti, dopo le varie peripezie, sono felici e appagati, ma il giovinetto invece di un amante ne trova due" [67]; il lieto fine tuttavia è espresso nella Rubrica come "concordia" fra Pietro e la moglie, che restano gli indiscussi protagonisti. Tanto che l'incertezza del giovane su come leggere il proprio ruolo nel rapporto da poco concluso, anche qui mediata dalle parole del narratore ("non assai certo qual più stato si fosse la notte o moglie o marito", § 63), riporta tutto nell'ambito dei rapporti matrimoniali, cioè di Pietro e della moglie.

Prima di iniziare la narrazione, Dioneo sente il dovere di avvertire che, "quantunque la materia [...] sia in parte men che onesta", racconterà la novella per "riso e allegrezza" porgere, fornendo alle innamorate giovani le istruzioni per la lettura, che consistono nel lasciare "il cattivo uomo con la mala ventura stare con la sua disonestà" e ridere liete "degli amorosi inganni della sua donna, compassione avendo all'altrui sciagure dove bisogna" (§§ 3-5).

Tale premessa, che fa parte di una breve teoria sul riso, trova riscontro alla fine, perché la novella è "meno per vergogna dalle donne risa che per poco diletto" (V Conclusione, 1).

La connotazione negativa nella premessa di Dioneo, a proposito della "tristezza" di Pietro, ritorna nel corso della narrazione vera e propria attraverso espressioni ricorrenti, come "cattività del marito", "per le sue cattività", "cattivo marito", oltre che, naturalmente, nelle parole della moglie: "questo dolente [...] con le sue disonestà"; e prima ancora nella Rubrica che, come si è visto, si era chiusa su una non meglio definita "tristezza" di Pietro.

Nella novella, che è l'unica con questo tema, viene adoperato tuttavia un lessico generico, sia da parte dei personaggi che del narratore.

Si tratta di termini che ricorrono all'interno del Decameron con accezioni differenti: disonestà è anche in III 3, 48, e in IV 1, 27; cattività (a puro titolo esemplificativo perché l'elenco sarebbe lungo) in I 7, 4, I 8, 7 e 9, II 6, 50, IV 10, 7, VII 8, 41.

Tristezza si ritrova in I 8, 9, e VII 9, 47; tristo ricorre molte volte, spesso in dittologia con dolente, anch'esso attestato, con diverse accezioni, pure in parecchie novelle della V giornata, allo stesso modo di misero e cattivo, variamente accoppiati fra loro o con uno dei precedenti aggettivi [68].

La mala ventura (§ 5) poi, proprio nella premessa, fornisce una chiave interpretativa come "sfortuna, mala sorte", il che finisce per collocare l'omosessualità in ogni caso dentro la natura, oltre che alleggerire moralmente la cattività di Pietro.

L'omosessualità non ha qui un termine che ne sottolinei l'accezione odiosa che avrà in seguito, ma è genericamente denominata alla stregua di tanti altri vizi o peccati. Il termine specifico, legato alla biblica città di Sodoma, esisteva già nei testi letterari in volgare: il riferimento illustre è naturalmente Dante, Inferno XI 50 e Purgatorio XXVI 40 e 79 [70]. Boccaccio adopera sogdomitico una sola volta nel Decameron, in I 2, 19, a proposito del clero di Roma, e tale accostamento non è probabilmente casuale.

La condanna della cattività di Pietro da parte dei critici moderni ha finito per travisare il giudizio di Boccaccio, di certo più sfumato e tollerante, ultimo residuo di un atteggiamento sociale [72] che stava per essere sostituito dalla condanna sprezzante e assoluta giunta fino ai nostri tempi [73].

Sull'avvertenza di Dioneo, ha scritto Battaglia Ricci:

"Non si tratta di un caso isolato, anche se più spesso si tratterà di "premesse" che sembrano suggerire una chiave di lettura dei fatti curiosamente dissonante da quella che esce dal racconto vero e proprio, o che sembra costruita presupponendo un punto di vista, un sistema di personaggi o un'angolazione nella messa a fuoco diversi da quelli utilizzati nella novella" [74];

il che si è già visto anche a proposito della Rubrica. La premessa di Dioneo, forse convinta, forse un gioco delle parti per tranquillizzare le voci moraliste e pudibonde di probabili lettori (che potrebbero anche essere state dentro di lui) [75], mira a sfumare e a illuminare in senso differente la novella "in parte men che onesta"; che tuttavia Boccaccio ha voluto in quel modo, anziché con un finale edificante o anche con un Pietro rappresentato come sciocco o ridicolo, ferma restando la sua "tristezza".

All'interno della brigata di "sette donne e tre giovani uomini", spetta a Dioneo la funzione costante (che talvolta assumono anche altri novellatori) dello sguardo "basso", demistificante, giullaresco; alle sue novelle il compito di anticipazione e di ponte verso la giornata successiva e quello di costituire in maniera persistente (pure in questo caso a differenza degli altri che lo fanno saltuariamente) la parodia, il controcanto alle tematiche della giornata [77].

Anche per questo è pressoché impossibile individuare in quali personaggi o affermazioni dentro o fuori delle novelle si nascondano "le concezioni morali" del Decameron, in quale dei livelli di realtà narrativa [78] o interpretativa coi loro articolati rimandi, a volte contraddittori, più spesso aperti e ambivalenti.

Quel che è certo è che Boccaccio ha messo a interagire più punti di vista nella raffigurazione di molteplici aspetti di realtà, in relazione dialettica fra loro, "rappresentando a tutto tondo il processo inventivo, espositivo e interpretativo" [78] e riuscendo, in questo modo, in un'operazione di ricreazione e restituzione composita del mondo che dopo di lui non avrà uguali per secoli, per tanti aspetti, anche per quanto riguarda una rappresentazione letteraria dell'omosessualità.

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