Marziano II Lavarello

Nostra Signora dei parrucchini

7 agosto 2006, "Pride", luglio 2006, in una versione ridotta

Nella storia d'Italia la comparsa del gay di portata nazional-popolare risale al folle periodo della cosiddetta Dolce Vita romana (dal 1954 al 1960 circa).

Disperata voglia di vivere, audacia nei costumi contro il grigiore cattolico, ricchi turisti stranieri e rinascita di Cinecittà furono un vero toccasana su molti versanti, non ultimo quello economico.

Rotocalchi scandalistici e cinegiornali, sbeffeggiando e impepando con gusto, amplificavano quotidianamente le bizzarre gesta della fauna accalcata in Via Veneto. Nobili rampolli, artistoidi, mannequin, avventurieri d'ogni sorta e tutta una folta schiera di parassiti, nonché prostituti e spacciatori d'ogni droga in attesa del loro esploit fortunato. Essere gay divenne un'eccentricità da salotto, assai ricercata per movimentare ogni evento mondano, artistico e non.

Famosissimi, ma assai ben consci che al loro sputtanamento corrispondesse in proporzione gran pubblicità e moneta sonante, furono in tre a contendersi il titolo del "più finocchio d'Italia". Non certo per esplicita ammissione, impensabile all'epoca, ma solo con le loro mossette nervose, volée di polso, anello "Cupido" al dito mignolo, colpi d'anca ed abbigliamento frou-frou.

Il più celebre, anche perché di grande talento, fu il sarto Emilio Schubert (1904-1972) che dettò legge in quanto a chic. Sposato e con prole, oggi gli eredi cercano di diffondere la notizia che lui fingesse. No comment.

Poi arrivò il (conte) Giò Stajano (classe 1931), nipote del gerarca fascista Achille Starace. Aspirante pittore e attore, scrittore e sfacciato giornalista mondano, nonché inventore di vivaci scandali restati negli annali. A lui si dovrebbe fare un monumento. Calato nel ruolo dell'effeminato, propostogli dalla sua epoca, divenne démodé nei '70 e decise di darci un taglio...cambiando sesso nel 1982. Il resto è storia.

Ultimo, ma non per importanza, fu Marziano II Lavarello (1921-1992), colui che osò auto-proclamarsi porfirogenito Imperatore di Bisanzio per diritto ereditario fasullo, inseguendo folli ambizioni personali.

Soltanto nel pazzo clima dell'epoca un vero matto, come lui, poteva sfuggire al manicomio dove avrebbe fatto buona compagnia ai tanti sedicenti Napoleone Bonaparte. Immedesimatosi totalmente e con furbizia, nel suo ruolo, Marziano II seppe creare un business non indifferente con vendite, a caro prezzo, di falsi titoli nobiliari a chiunque lo richiedesse.

Oggi sembrerebbe assurdo, eppure in quegli anni aleggiava la grande nostalgia, nella mentalità piccolo-borghese, per la recente caduta della monarchia sabauda, vista come unico punto di riferimento dei dignitosi "bei tempi andati".

Specialmente tra i gay di un certo genere moralista, cattolico e di Destra, nel tentativo di darsi dignità con tono chic esotico. Illudendosi, così, di nobilitare e riscattare una posizione di "invertito", messo ai margini, in quella società per bene e "normale" cui loro tanto aspiravano appartenere.

Non si diceva, forse, che addirittura pure il re Savoia in esilio fosse "così"? E i nobili non facevano forse mondo esclusivo, con suoi rituali e matrimoni, proprio quanto il chiuso mondo delle finocchie? Ognuno si trova i modelli comportamentali che può.

La Consulta Araldica, ente preposto a sorvegliare i titoli nobiliari veri, era stata chiusa con la Monarchia e tutti i titoli aristocratici nella Repubblica non avevano più senso né valore. Così prolificarono molti ciarlatani come Lavarello. Ma solo lui sapeva regnare tanto bene nelle cronache gaudenti della Dolce Vita, sopravvivendo alla cascata di ridicolo che la sua persona suscitava in ogni dove. Sghignazzo generato dal contrasto tra le sue ambizioni d'imperiale contegno e la crudele realtà del suo effeminato squallore quotidiano.

Attorniato da una corte di fedelissimi vendicativi (esattamente come la Madame Royale, impersonata al cinema da Ugo Tognazzi) era anche molto invidiato e odiato da altri salotti di checche acide e monarchiche.

Tra i suoi molti nemici, lo pseudo-letterato Dino Salvatore in un suo pamplet [1] contro Lavarello ("Re, Imperatori e falsi nobili nell'Italia d'oggi", Consalva Editrice) scrisse nel 1964: In certi ambienti è più noto come Parrucchino I, giacché, invece di una indebita corona imperiale, egli porta costantemente sul capo una ondulata parrucca bionda, che gli incornicia bellamente gli sfioriti vezzi, nonostante ciprie e belletti da lui femminilmente usati per riparare l'irreparabile oltraggio degli anni.

Giò Stajano nelle sue memorie [2] racconta che a volte Marziano II, per sembrare più imperiale, spargeva porporina dorata su quel parrucchino.

Ma anche Stajano dal 1961 in poi passò tra i nemici, reo d'averlo raffigurato nel suo scandaloso libro gay "Le Signore Sirene" [3], sotto lo pseudonimo di "Marsiglia, la Sirena calva: la più sfacciata di tutte".

Marziano Lavarello, nato a Roma ma da una famiglia genovese in origine molto ricca (il padre, Prospero Godeardo Lavarello, piccolo armatore e il nonno materno, Tomaso Cassanello, proprietario di un grande pastificio), manifestò da subito insieme ad una erre moscia insopportabile un ego megalomane, frustrato da mancanza sostanziale d'alcun talento artistico particolare.

Per tutta la vita inseguì una carriera da pittore ma già a 17 anni, nel 1938, fece pubblicare un pomposo volumetto di poesie patriottiche ("Rime e Odi patrie", Roma, Palombi editore [4]).

Lungi d'aver amor di patria come tanti altri suoi coetanei, riuscì ad evitare la chiamata alle armi perché studente, ma prevedendo il peggio durante l'occupazione nazista, nel 1943, si rifugiò in Vaticano con sua madre.

Lì si ritrovò in mezzo a nobili ostili al regime fascista e gli venne il complesso d'inferiorità di non avere alcun titolo aristocratico.

Dopo alcuni mesi fu espulso perché sorpreso mentre "infastidiva" una giovane e aitante guardia svizzera.

Ritornò a casa, al quarto piano di Via Piemonte 101, da qui vagò di convento in convento invocando rifugio politico.

Nel giugno 1944, alla liberazione di Roma, sfoggiò una tessera falsa di Colonnello ad Honorem dei partigiani.

Iniziò a definirsi "marchese" d'origine borbonico-napoletana (lui genovese!) ed era già noto "per le sue tendenze omosessuali", così citato nell'autobiografia della spia americana Tina Wickens-Crico che lo conobbe all'epoca [5].

Si ribattezzò poi "principe di Tourgoville" e adottò il cognome Lascaris degli imperatori bizantini, sostenendo che i Lavarello erano discendenti diretti di cotanta e antica stirpe.

Da lì incominciò la sua delirante ed insensata escalation.

Coinvolgendo pure la bizzarra ed ambiziosa madre Olga Cassanello, facendole sostenere la fandonia d'essere discendente dai Kan turchi e figlia naturale nientepopò di meno che d'Amedeo di Savoia Aosta, fratello del re Umberto I.

Il fatto che per finzione si diffamasse, come pubblico cornuto, il nonno paterno garibaldino era per Marziano cosa assai irrilevante.

Ma, forse, se c'era proprio qualcuno con dubbi natali era proprio lui, il sedicente Marziano II di Bisanzio.

Attraverso documenti legali inediti, ritrovati durante le ricerche per quest'articolo, risulta che Olga Cassanello era legalmente separata dal marito Prospero Lavarello già dal 1904 (all'epoca, si presume con immenso scandalo) e perciò ben diciassette anni prima della nascita del proprio figlio Marziano.

Riuscì, comunque, a far registrare il suo pargoletto all'anagrafe di Roma col cognome Lavarello.

Probabilmente, se la Sacra Rota religiosa non aveva annullato il matrimonio, perché il divorzio in Italia non esisteva e per legge un figlio, anche se nato in regime di "separazione" legale, aveva il diritto d'adottare il cognome del marito della madre.

S'ignora però la reazione di Prospero Lavarello, né se costui nel 1921 fosse ancora in vita. Ignoto è anche il parere d'eventuali parenti Lavarello a Genova.

Ho trovato un articolo di giornale, degli anni '50, in cui si accenna al fatto che Marziano fu condannato in tribunale, nel 1952, per aver corrotto un custode dei registri parrocchiali allo scopo di falsificare il suo atto di nascita originale. Non è dato a sapere se tale "ritocco" riguardasse la paternità.

Quel che è sicuro, è che nell'immediato dopoguerra iniziò tutta una sua particolare strategia "pubblicitaria" d'arrampicatore sociale senza eguali.

Inseguì ogni minima occasione per far parlare di se, con clamore, sui giornali. Nel 1946 sfidò pubblicamente a duello un altro celebre mitomane, un certo Vittorio San Martin che sosteneva d'essere il vero re d'Italia. La cosa fu amplificata sulle pagine del conservatore e neo-fascista "Giornale d'Italia".

La cosa non andò a termine ma Lavarello fu sputtanato da un suo ex-amico, l'araldista Luciano Pelliccioni, in un articolo sulla rivista "Scandalo".

Lui lo denunciò per diffamazione e anche perché accusato pubblicamente di pederastia mezzo stampa.

Pelliccioni ottenne piena assoluzione in Cassazione, pure per l'accusa di pederastia perché bastò far notare al giudice che Lavarello s'era recato all'udienza con parrucca, cerone, soppraciglia depilate, smalto alle unghie e calze da donna.

Così per sentenza di tribunale Marziano Lavarello riuscì, pateticamente, soltanto ad essere un "pederasta riconosciuto a termini di legge".

Più Lavarello voleva darsi un tono e più ricadeva nel ridicolo.

La sua doppia vita, tipica d'ogni gay dell'epoca, la svolgeva in scorribande notturne in cerca di ragazzi, nei quartieri di periferia o in cinema-teatri di terz'ordine. Negli ambienti di batuage, tra i cespugli di Villa Borghese, gli affibbiarono il nomignolo di "Principessa di Lamballe" (citando la Savoia amica di Maria Antonietta che fu massacrata durante la Rivoluzione). Vi si recava con altri noti elementi della sua corte bizantina: lo scudiero personale e giovane attore Dino Di Giano, soprannominato "Padiglione Blu" (forse per via del manicomio), insieme al falso conte "La Bianchina" (non si sa se in onore d'una mucca o dell'utilitaria).

Tutta la combriccola era dedita alle scienze occulte e sedute spiritiche a casa Lavarello. Cosa strana, per uno che oltre ad Imperatore ambiva automaticamente al titolo di capo religioso della chiesa ortodossa, proclamandosi superiore al Papa.

Il medium ufficiale era l'agente d'attori e critico cinematografico, falso conte, Peppino Perrone (1923 - 2006), perciò iniziarono a frequentare la corte di Marziano molta gente di Cinecittà e veri nobili della café society in cerca d'eccentricità divertenti (tra cui Faruk, re d'Egitto in esilio che aveva un segretario notoriamente gay).

Anche due grandi nemici di Lavarello come Pelliccioni e il pazzoide scrittore cattolico Enrico Contardi (malvisto in Vaticano e che sostenne d'aver incontrato, vivo e vegeto, nel 1934 in Piazza Navona il mago occultista, del '700, Saint Germain) erano dediti alle conversazioni con l'aldilà e riti magici. C'è da giurarci che invocarono quotidianamente strali infernali ai danni del sedicente imperatore di Bisanzio.

Accadde poi che Marziano Lavarello trovasse un alleato nell'italo-argentino Giovanni Gatti (Juan de las Flores), già finito in carcere per atti osceni "contro natura" durante il fascismo, poi tornatovi per truffa aggravata. Questi pubblicò un giornale su cui Lavarello scrisse un articolo contro Pelliccioni, raccontando che durante la Resistenza finì in galera per rapine a mano armata e non per la sua provata fede fascista.

Così ne nacque una scenata in Via Veneto dove, davanti al Caffé Doney, Pelliccioni finì a schiaffeggiare Lavarello tra l'ilarità dei presenti.

Intervenne pure la Polizia, mentre Pelliccioni strappava la parrucchetta dalla testa dello pseudo-imperatore, urlando che doveva renderla all'Ambasciata di Turchia... poiché oggi Bisanzio non è altro che Istanbul.

Anche stavolta tutto finì in tribunale ma Pelliccioni fu assolto.

Verso il 1954, Marziano Lavarello iniziò una battaglia personale contro il celeberrimo attore Totò (principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis Gagliardi), anch'egli presunto erede di Bisanzio secondo diramazioni araldiche fantasiose. Alla fine perse, beccandosi una condanna a un anno e sei mesi di prigione per reato di calunnia, oltre a due mesi per diffamazione e pagamento dei danni morali e spese processuali.

Pene mai applicate per via di una fortuita amnistia e della generosità di Totò.

Gli fu vietato anche l'utilizzo improprio del cognome bizantino Lascaris.

Sconfitto, Lavarello tornò a fare il pittore di stemmi araldici su vetro, in nero e oro, tra i bohèmien di Via Margutta. Esibendosi in mille mossette per la gioia degli operatori dei cinegiornali.

Ma il 18 novembre 1956, con un improvviso colpo di mano osò l'inosabile, riuscendo ad essere incoronato "basileus" Imperatore Marziano II di Costantinopoli, nonché Re di Serbia e Imperatore dei Romani e di tutto il Cristiano Oriente. Con lui l'augusta madre Olga Cassanello in gualdrappa imperiale, giri di perle e mantiglia. Inscenando la cerimonia, dai risvolti farseschi, nella Chiesa Episcopale Protestante (invece che ortodossa?) di St. Andrew in via XX Settembre, ottenuta grazie ad un inganno.

I maligni dissero che tiara, globo e scettro provenissero, con altri costumi, dai magazzini del Teatro dell'Opera e che il trono dorato non fosse altro che un arredo dell'"Andrea Chénier" appena andato in scena.

Si disse pure che l'inno di Bisanzio, appositamente composto dal Maestro Sella, fosse un plagio da Verdi e della marcetta dei Balilla moschettieri.

Il falso vescovo che pose la corona sull'imperiale parrucchino (per l'occasione in tonalità più castana) fu Jan van Assendelft van Altland, olandese della Eglise des vieux catoliques, una setta cattolico-omosessuale mal vista dal Vaticano.

Chierichetto d'uffizio fu Jean-François Heuterbize, completamente folle per Bisanzio, celebre medium e paragnosta che finì poi per diventare un vero Pope ortodosso ad Atene.

Lì a fianco, portava su un cuscino di velluto le molte decorazioni imperiali, l'avvocato Battaglia, colui che due anni dopo fu sorpreso dalla Polizia mentre s'aggirava di notte nel quartiere Parioli, in mutande e agitando una spada, gridando frasi sconnesse.
Era presente un fotografo di "Life" e della vicenda rise il mondo intero, nei cinegiornali il pernacchio fu lungo e prolungato.

Dal Vaticano giunse, addirittura, minaccia di scomunica per blasfemia. Le cronache narrano che tutti i componenti del corteo imperiale, con gli invitati di maggior riguardo, furono poi convocati, per un party, nella "reggia" Lavarello, al quarto piano del palazzone umbertino in Via Piemonte 101, ma che dovettero a loro spese infilare la monetina di cinque lire per far funzionare lo scricchiolante ascensore condominiale.

L'abitazione era decorata con pitture astratto-cubiste, mobiliata con freschi vimini e con una sala del trono in cui l'immancabile grassa ed ingombrante madre se ne stava in mostra basilissa in vesti bizantine, spesso con un serpente arrotolato al collo.

Ogni anno, per l'anniversario del lieto evento si rinnovavano gli inviti. Persino il moralistico rotocalco "Lo Specchio", dedicò per anni l'apposita rubrica "Cronache da Bisanzio" per sbeffeggiare pesantemente tutta la ridicola corte di Marziano II.

In occasione del 18 novembre 1960, Lavarello annunciò l'emissione commemorativa di un apposito francobollo, in cui era raffigurato di profilo con la basilissa madre, e coniò un "bisante", moneta con la sua faccia di bronzo dal diametro di tre centimetri, dal valore indefinito di un Dinaro.

Ma solo un anno più tardi si scatenò su "Tempo", del 28 novembre 1961, un titolone su tre colonne che urlava: Per una udienza troppo privata, denunciato Marziano II Imperatore. E' dovuta intervenire la Squadra del Buon Costume su invito telefonico rivolto alla Polizia da alcuni vicini di casa. Nell'articolo si leggeva: Tolta la corona e lasciato il trono, come è solito fare ogni sera, si è recato, nonostante il maltempo, a fare una battutina in quel di Via Veneto, fino a Piazza dei Cinquecento. E' stato proprio nei pressi della Stazione Termini che ha incontrato un giovane dotato di un volto dai tratti fieri. La vicenda finì con l'accusa d'atti osceni in luogo pubblico, perché l'avventura notturna tra l'aitante giovanotto e l'Imperatore si consumò sulle scale della reggia di Via Piemonte.

Anni dopo, Marziano II, preoccupato di non aver progenie a cui trasmettere il suo titolo, fece nuovamente scandalo quando spedì a tutti le sue partecipazioni di nozze con un giovane uomo. Non si capiva se si trattava d'una cerimonia d'adozione o di un matrimonio vero e proprio. Alcuni giornali riportarono la notizia sgomenti.

E' singolare che tanti falsi nobili truffatori e megalomani, amici o rivali di Lavarello, in anzianità ricorsero all'istituto legale dell'adozione per trasmettere titoli nobiliari fasulli ai loro "segretari" personali. [6]

Cosa che Marziano II non riuscì a fare, soprattutto perché ridotto in povertà e senza giovani marchettari monarchici attaccati al suo portafoglio.

Gli anni felici, infatti, erano già passati da un pezzo. L'onnipresente madre basilissa Olga morì novantaduenne nel 1976.

Spolpato dalle continue spese legali e varie follie, col tempo, Marziano II Lavarello era divenuto così indigente che l'unica maniera per suonare l'inno nazionale di Bisanzio, davanti ai suoi pochi adepti, era ascoltarlo a viva voce dalla segreteria telefonica.

Nel 1987 la giornalista Laura Laurenti lo intervistò per il suo libro "Vita da ricchi" (Rizzoli Editore). Lo trovò in un minilocale a Roma, al numero 14 di Via Sicilia, aiutato dalla Caritas. Alcuni ragazzacci di vita lo avevano pure aggredito, legato e percosso, per poi svaligiarlo dei pochi beni rimasti.

Morì nel novembre del 1992.

Con un coup de théâtre finale sorprese tutti, riuscendo ad avere, non si sa come, un funerale ortodosso presso la Chiesa di Russia in Via Palestro 69.

Pochissimi i presenti e curiosi. Sulla cassa era deposta la finta corona bizantina, la stessa con la quale era stato incoronato ai tempi della Dolce Vita.


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