Israele gay sullo schermo

22 marzo 2005, "Babilonia", luglio-agosto 2004

Il 15 giugno 2005 inizierà a Tel Aviv il Festival internazionale del cinema gay-lesbico, organizzato da Cinematheque e finanziato dalla Gil Productions; verrà proposta dal 17 al 19 di quel mese una serie, denominata Pink Cinema, di documentari e film a tematica omosessuale, tutti inediti e di registi da tutto il mondo.

È un segno tangibile del successo goduto da Israele nell'ambito della comunità gay mondiale. Alcuni registi israeliani riescono ad affrontare il tema dell'amore, d'ogni tipologia, che si manifesta sullo sfondo di una tensione sempre esistente, quella del conflitto che tormenta la gioventù del paese, ponendola dinanzi a dilemmi che non soddisfano l'esigenza di vivere un'esistenza normale. Eytan Fox (regista nato in USA e immigrato bambino in Israele) ha acquistato in rapido tempo nel panorama cinematografico d'Israele un peso equivalente a quello di Pedro Almodóvar in Spagna e di Ferzan Ozpetek per Italia e Turchia. Le tematiche di questi tre registi, tutti gay, però sono diverse.


Risulta difficile, per un ebreo come me, conoscitore della realtà israeliana moderna, non cedere alla tentazione di definire Israele un paradiso della tolleranza verso la diversità, senza rendersi conto che si tratta di tolleranza verso alcune diversità, non verso 'la diversità' tout court. Però un discorso sull'argomento 'gay' che abbia un più largo respiro va inquadrato in un discorso generale, a causa della piccolezza quantitativa dell'ambiente gay israeliano.


Ormai è finito il periodo dei pionieri in cui il nuovo ebreo in Palestina doveva essere rude, eroico e insensibile, in lotta contro il vicino per proteggere la propria esistenza. Non esiste più questo ideale, c'è invece il bisogno di trovare una risposta meno retorica sul perché Israele è in guerra e perché muoiono giovanissimi soldati di leva, inermi viaggiatori sul bus, bambini arabi. Ci si interroga se l'israeliano sia dalla parte della ragione o del torto, senza capire che non ha né ragione né torto o li ha entrambi. La tendenza delle tematiche attuali va proprio nella direzione del rendere comune e più percepibile il dolore e il sollievo altrui, il sorriso e lo sgomento del vicino. S'ha un'immagine più umana della gente e dei soldati d'Israele, che flirtano e soffrono, cantano e suonano la chitarra anche in trincea. Sullo schermo ci sono militari che cucinano e scherzano e si capisce che sono le stesse persone che invece i mass media mostrano di preferenza nell'atto di sparare, di controllare i documenti a un check point, di ammettere o respingere i lavoratori arabi con un semplice cenno della mano. Il cinema è un'arte che cerca di far capire che anche i soldati sono persone. Senza perdere di vista il problema dei palestinesi, come dimostra Or (Luce), il lungometraggio di Keren Yedaya che ha vinto la Camera d'Oro al Festival di Cannes nel maggio 2004.


Tra i punti di vista di israeliani e palestinesi, riguardo il conflitto politico-sociale che li coinvolge, si avverte una chiara disarmonia. Ma non è vero che il cinema israeliano sia del tutto insensibile al mondo palestinese e che racconti le cose dalla propria torre di guardia senza scenderne e salire su quella contrapposta. Ricordo a questo proposito tre opere di autori israeliani. Nel documentario di Anat Even, Asurot (In prigione, 2001), è raccontata la strana convivenza tra una pattuglia dell'esercito, appostata sul tetto di una casa palestinese di Hebron, e alcune donne con figli, che vivono nel palazzo stesso. L'autrice utilizza la macchina da presa per evidenziare il disagio di chi è costretto a vedere violata la propria vita quotidiana da una presenza militare che, pur non dimostrandosi ostile, origina uno stato di tensione. Yf'at Kedar, in un reportage intitolato Between the lines (2001), ha invece descritto la vicenda professionale di una giornalista del quotidiano Ha'aretz, che ha scelto di lavorare nei territori arabi per meglio comprendere la società palestinese e descriverla a tinte più reali. La questione si complica nel film The Inner Tour (1999) di Raanan Alexandrovich. È un docu-fiction incentrato sul viaggio ufficiale, autorizzato dalle istituzioni di Israele, di un gruppo di palestinesi alla ricerca dei villaggi in cui erano nati e che avevano abbandonato molti anni prima. Qui la psicologia è più complessa perché si tratta del punto di vista del palestinese non più in casa propria ma in terreno passato ai nemici e oggi parte integrante dello stato israeliano.


La cinematografia israeliana d'avanguardia tende al realismo, a riprodurre su schermo l'esistenza della gente comune, ripresa durante gli allenamenti militari, colta nell'atto di cercare le lenti a contatto perdute, di cedere o resistere ad avances sessuali del tutto prive di poesia, leggere, dormire o discutere su un autobus pubblico. Gli spettatori così ritrovano frammenti di sé stessi e captano l'intimità che la scena vuol comunicare. La sensazione che le proprie debolezze siano comuni agli altri e che non siamo soli nel compiere un certo gesto quotidiano e nel soffrire ci rende più coinvolti nella trama.


Quel che è ancora latente nella coscienza israeliana è invece l'ossessione dell'olocausto ebraico, sempre presente come se fosse ancora in corso. La sensazione di essere vittime è rimasta come pietrificata nel tempo e riesce a rimuovere il sospetto d'essere invece degli aggressori che impongono dolori e sofferenze a chi non fu materialmente implicato nell'olocausto. Quindi l'intellettuale modello d'oggi ha il compito di immaginare una soluzione grazie a cui si riesca a far pace con il passato e con i traumi subiti in Europa. Mai negare la memoria, non dimenticare il passato ma staccarsi dalla percezione di essere vivi per un miracolo, di esser cittadini di uno stato sorto grazie alle altre nazioni impietosite dall'immane tragedia dell'olocausto, che continua a offuscare la sensibilità israeliana, ancora dopo sessanta anni. Prendere le distanze e fare i conti con questo ossessivo pensiero e renderlo un ricordo, per poter poi chiarire che ruolo si vuol avere nei confronti d'un altro popolo con cui si è condannati a coesistere sulla stessa terra.


Nel caso specifico di alcuni film gay, c'è come plusvalenza, rispetto alle storie tra eterosessuali, il dualismo fra la situazione degli uomini che uccidono altri uomini e di quella degli uomini che amano altri uomini. I lavori di Eytan Fox sono un paradigma: sono incentrati, anche se non esclusivamente, sulla vita quotidiana in perenne bilico tra esigenza di compiere il proprio dovere per la patria e la famiglia e il proteggersi e non lasciare che i propri sentimenti vengano compressi dalla tensione bellica. Anche con il linguaggio cinematografico si può comunicare quel che a parole risulta incomunicabile, anche con i piccoli gesti quotidiani e intimi. Questa sembra essere la tendenza dell'arte cinematografica israeliana d'oggi, non solo di Fox e del 'circolo gay'. Per questo Fox si è augurato, durante un'intervista, che anche i palestinesi possano vedere i suoi film.


Nelle opere di Fox è chiaro come si vive l'omosessualità oggi in Israele: in modo aperto pur non troppo. Essere gay nel paese oggi significa far parte di una comunità organizzata e articolata ma senza una bandiera rainbow da esibire a tutti i costi. Infatti nella vita militare, sia reale che fittizia, l'amore gay è avvolto dal pudore e fa parte dell'intimità cui non si invitano i commilitoni ad essere partecipi.


L'ultimo film di Fox, Walk on Water, è stato presentato alla Berlinale di quest'anno. Non si tratta di uno dei soliti film sull'olocausto, ma è un tentativo insolito di affrontare il ruolo del passato nella coscienza dei giovani israeliani e tedeschi, cioè attraverso due personaggi che si incontrano e si confrontano sul tema dell'omosessualità d'uno di loro.


Adesso non rimane che vedere Walk on Water (con Gal Uchovsky come sceneggiatore e coproduttore - 90 min. e girato in 30 giorni nel 2002 proprio durante la presentazione di Yossi&Jagger). È la storia di un agente del Mossad, Eyal figlio di vittime dell'Olocausto (l'affascinante attore Lior Ashkenazi), e della sua amicizia con due ragazzi tedeschi. Duro e privo di abbellimenti, il film colpisce nella sua franchezza. Eyal ha il compito di rintracciare un criminale di guerra nazista attraverso i suoi nipoti Axel e Pia. Il ragazzo tedesco è gay e, scoprendo la sua omosessualità, Eyal avverte un cambiamento interiore; vanno in crisi i valori e i clichés con cui si è sempre protetto. Eyal sarà ancora tanto inflessibile e capace di portare a termine il proprio compito?

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