Due Passi nel Delirio

L'omosessualità nel cinema di Federico Fellini e Dario Argento

2 gennaio 2003, Babilonia, marzo 1993

E’ curioso notare come a volte, alcuni autori, mettano nelle loro opere degli elementi gay con scopo apparentemente "decorativo". Prendiamo ad esempio due personalità molto diverse come i registi Federico Fellini e Dario Argento. Per entrambi il sonno della ragione genera "mostri" , cioè dei personaggi che immediatamente vengono concepiti dallo spettatore come "diversi" secondo una vasta gamma che scorre dal grottesco all'ambiguo più cupo.
C'è sempre qualcosa di misterioso e spaventoso in qualcuno che è fuori dal normale, al di là della pietà o del disgusto persiste la paura di poter diventare “come lui”.
Fellini e Argento sono dei veri maghi d'evocazioni deliranti ed è utile constatare come, nelle loro singolarità, abbiano alla base gli stessi impulsi alla rappresentazione di un circo ectoplasmatico gay. Dietro tutto ciò restano inespressi giudizi, desideri e tormenti personali che nella loro chiarezza di lettura potrebbero divenire troppo imbarazzanti. Quindi, due modi di mise en scéne del mondo a cui corrispondono altrettante modalità d'interpretazione della propria sessualità.
Lontana è certamente la volontà di voler sostenere l'omosessualità di questi due registi; le riflessioni che seguiranno cercano soltanto di mettere in rilievo e commentare alcune componenti "strane" delle loro attività creative.
Nei film di Fellini capita spesso di trovare figure omosessuali più o meno manifeste.  L’elenco è lungo, basti citare l' apeapina del Casanova, il mago del night in Otto e mezzo, gli "stellini" ne La dolce vita, il vecchio guitto di I vitelIoni, sino ad arrivare al trio AsciltoEncolpioGitone nel Fellini Satricon.
Come hanno avuto modo di far notare Lancini e Sangalli nel loro libro La gaia musa (Gammalibri 1981): “Non sappiamo se Fellini abbia trattato civilmente o meno le figure gay apparse nei suoi film, allo stesso modo per cui non sappiamo se abbia trattato bene le figure femminili. Ciò che salta all'occhio è la maniera visionaria ed "eccessiva”, costante nel cinema felliniano, con cui tenta di disegnare le figure che evocano il fantasma della sessualità: esasperate e vulcaniche nelle loro apparizioni”.
I “mostri”, appunto, provenienti dalle zone dell'inconscio non colonizzate dalla morale cattolica. Perciò quale migliore occasione di un pretesto letterario precristiano come il Satyricon di Petronio per poter raggiungere quel mondo straordinario e meraviglioso?
Fellini stesso ammise: “Credo che tutti i miei film tentino di smascherare il pregiudizio, la retorica, lo schema, le forme aberranti di un certo tipo di educazione e del mondo che hanno prodotto”.
Nel 1969 Satyricon gli permise finalmente d'effettuare una svolta artistica, di fare uno spettacolo per lo spettacolo, anzi ,lasciandosi trascinare soltanto dai suoi sogni. In un'intervista Fellini dichiarò: “Dei sogni, il Satiricon dovrebbe avere la trasparenza enigmatica, la chiarezza indecifrabile. Il frutto di questa operazione fantastica di "ricostituzione del passato" ho dovuto oggettivarlo, distaccarmene del tutto per poterlo riesplorare da un'angolazione inquietante, per poterlo ritrovare insieme intatto e irriconoscibile. Con i sogni, appunto, succede la stessa cosa. Essi hanno dei contenuti che ci appartengono profondamente, attraverso i quali noi esprimiamo noi stessi, ma alla luce del giorno il solo rapporto conoscitivo che possiamo avere con essi è di natura intellettualistica, concettuale. Per questo i sogni appaiono alla nostra coscienza così sfuggenti, incomprensibili, ed estranei. Per dare quindi al film un senso di estraneità, ho adottato un linguaggio onirico, una cifra figurativa che abbia l'allusività e l'ineffabilità di un sogno”.
Perciò un lavoro liberatorio ,in cui per la prima volta l'elemento biografico è escluso. Strano che per affrontare tutto ciò Fellini abbia scelto proprio una tematica fondata sull'omosessualità.
Per questo regista tutto il sesso è mistero. Se fatto tra uomini è visto come un  “sesso sesso" fine a se stesso, sterile e inappetente ma soprattutto è un "sesso illecito" che si ribella all'educazione cattolica. Gin Piero Brunetta ha scritto in proposito: “II viaggio compiuto dai personaggi felliniani è, in effetti, un viaggio d'iniziazione alIa vita, di uscita dall'infanzia e di conoscenza, un viaggio che conduce alla "familiarizzazione dei mostri” alla esorcizzazione di ogni paura e alla trasformazione di ogni volto malefico in immagine propria e benefica”.
Al di là delle raffigurazioni da avanspettacolo che avevano caratterizzato l'omosessualità nei precedenti film di Fellini, nel Satyricon oltre ai "sovrappiù" non si avverte mai un giudizio positivo o negativo. Semmai c'è una estasi contemplativa piena di mistero infantile.
Come in Petronio, l'impudicizia regna sovrana, beata e senza turbamenti. In questa sorta di Eden alla rovescia gli uomini, nel totale abbandono alla amoralità, sembrano aver ritrovato una loro smemorata innocenza. Sorge comunque il dubbio che con la sua visione "felice" Fellini non abbia voluto comprendere fino in fondo i suoi mostri pur di distanziarli e di renderli meno pericolosi alle tentazioni della coscienza.

E’ capitato che in qualche intervista Fellini, sempre con la voglia instancabile di raccontare se stesso, si sia lasciato sfuggire episodi in cui descriveva i primi contatti con l'omosessualità attraverso i suoi istitutori in un collegio religioso a Rimini. Conoscendo la capacità mistificatoria del regista dobbiamo prendere questi episodi "con le pinze" e considerarli come i mostri dei suoi film: pure fantasie eccitanti .
Dario Argento invece è meno disposto a parlare di se stesso e il suo cinema è la testimonianza d'una costante difficoltà a partecipare col mondo esterno. .
Anche in questo caso, come per Fellini, l'attività creativa è usata per esorcizzare le proprie ossessioni ma la gioia del comunicare è qui caratterizzata da impulsi irrefrenabili autodistruttivi.
Come per gli assassini dei suoi film s'avverte in Argento la sofferenza di una vita normale solo in apparenza. I gay presenti in tutti i suoi film, escono da un inconscio ancora più profondo, da traumi infantili dove la repressione sessuale ha fatto sì che il piacere fosse sempre spiato e mai raggiunto.
Il regista s'identifica via via con tutti i personaggi del proprio teatrino macabro, sia violenti che violentati, curioso è perciò vedere come s'immedesima nei nostri gay partoriti dalla sua stessa fantasia.
La "duplicità" è la cifra caratteristica della sua persona e dei suoi personaggi. Sadismo e masochismo, trasgressione e moralismo, coabitano creando reazioni psicopatiche soggiogate da un complesso di colpa originario.
Gli omosessuali "dichiarati" nei film di Dario Argento, comici o nevrotici che siano (l'investigatore Arosio in Quattro mosche di velluto grigio, il maggiordomo Leopoldo Mastelloni in Inferno, le due lesbiche in Tenebre ecc .... ) finiscono sempre male. Argento si dimostra voyeurista e sadico fino all'eccesso e non è un caso che lui stesso interpreti con piacere le mani guantate degli assassini in tutti i suoi film!
I delitti vengono compiuti sempre e soltanto con delle armi da taglio o consimili, mai con un'arma da fuoco (1). Tutto perciò è incentrato sull'idea della lama e dell'occhio come simboli della penetrazione e dell'impotenza.
Le sue attrici sono contemplate e poi sadicamente fatte a pezzi perché odiate, come a dire "consumatore nel rapporto" per non lasciare traccia della colpa d'averle desiderate sessualmente. Quando invece le assassine sono donne hanno un figlio o un marito gay, hanno subito una violenza sessuale, sono probabilmente lesbiche (come in L'uccello dalle piume di cristallo) e uccidono travestite da uomini (Profondo rosso).
Questo tema delle donne "dominatrici" è addirittura sottolineato con la scelta di camp ladies dello schermo: Clara Calamai, Joan Bennett, Alida Valli. Tutte incarnazioni di madri castratrici e autoritarie pronte a castigare i trasgressori di qualche regola. L'infrazione più grave è quella d'aver spiato i genitori mentre fanno l'amore, concezione sadica del coito che ritorna ossessiva (specie in Opera) e tale da richiedere al più presto una dura punizionepenetrazione.
Ma l'omosessualità in Dario Argento emerge dal profondo attraverso messaggi in codice che bisogna decifrare con attenzione. Esemplare il personaggio dello scrittore di libri gialli in Tenebre che è contemporaneamente vittima e persecutore. Attraverso i suoi occhi abbiamo dei flash in cui ritorna dal passato la visione di un delitto commesso nell'adolescenza e poi rimosso. In questo trip allucinogeno l'occhio malato rivede una ragazza in sottoveste e scarpe di vernice rossa che dapprima si lascia desiderare e spogliare da alcuni ragazzi seminudi su una spiaggia e poi viene uccisa cruentemente dall'assassino perché rifiutato sessualmente da questa. Nel film il ruolo della ragazza è singolarmente interpretato dal bellissimo trans  Eva Robins e ciò c'induce ad ulteriori riflessioni. Freud sostiene che un'educazione repressiva subita da bambino porta ad attribuire anche alle femmine il possesso del pene quale il maschietto ha osservato su se stesso. Ma c'è di più, l'omosessualità latente si scatena anche attraverso un 'attrazione gelosia verso bellissimi ragazzi dall'aria un po' infantile che inevitabilmente vengono deturpati in volto. La lista è lunga, basti citare Cristina Borromeo in Tenebre e Urbano Barberini in Opera... l'unico che riesce a farla franca è Miguel Bosè in Suspiria.
In definitiva Dario Argento senza rendersene conto è ancora più moralista di Fellini.
Incredibile notare come questi due registi siano dei veri maghi incontrastati nei loro generi e come le evocazioni dei “mostri" personali riescano comprensibili alle più diverse culture facendo leva su delle paure "primordiali".
L’elemento omosessuale è per entrambi lo stratagemma per innescare un discorso sul desiderio e sulle sue remore culturali.  I mostri gay ancora una volta sono gli avamposti di un modo diverso di vita ai limiti della "degradazione" sociale e morale a cui tutti aspirano senza ammetterne il desiderio.
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