Dagli esordi e fino alla morte del più anziano [1], Giovanni Coli e Filippo Gherardi lavorarono sempre insieme, così gomito a gomito da provocare meraviglia nei contemporanei. Pellegrino Antonio Orlandi nel suo Abecedario pittorico segnala l'insolito comportamento ricordando che essi "non isdegnarono che l'uno lavorasse nella medesima testa, o panno, o figura dell'altro" [2]. Se infatti era consueto che più artisti assumessero incarichi insieme e poi si spartissero i compiti, era invece del tutto inusuale che due pittori lavorassero in tale armonia e apprezzamento reciproco da arrivare a dipingere insieme il viso o la veste della medesima figura.
Ho sentito parlare per la prima volta di Giovanni Coli e Filippo Gherardi nel corso di una lezione dedicata agli artisti la cui opera fu in parte offuscata dal lungo predominio romano di Gian Lorenzo Bernini (1598-1680).
Il professore che teneva la lezione appartiene al gruppo di studiosi che considera significative, e non sempre a torto, la personalità e la vicenda famigliare dell'artista. Durante quella lezione abbozzò molti rapidi ritratti degli artisti che affollavano Roma nella seconda metà del Seicento, e quando giunse ai due pittori lucchesi ci informò dell'omosessualità certa di quella coppia di pittori. Non ricordo quale espressione utilizzò, escludo che li abbia definiti gay (non l'avrei dimenticato), immagino che sia ricorso a un blando amici intimi, o a qualcosa del genere. Non posso giurare che ammiccasse, ma il tono usato era indubbiamente divertito. Mi sembrò invece stupito e anche un po' imbarazzato quando a fine lezione mostrai specifico interesse per quella coppia di pittori: a quel punto la natura della loro relazione non fu più così evidente, né ricevetti alcuna utile indicazione.
Così ho semplicemente cominciato con il Dizionario biografico degli italiani. Nella scheda dedicata a Giovanni Coli si legge:
"Sino alla morte del C., nel 1681, la carriera artistica dell'uno fu intrecciata a quella dell'altro, ma non esistono le minime prove per l'affermazione di N. Dunn-Czak (1975) che fossero quasi certamente omosessuali". [3]
Robert Enggass, autore della scheda, a quanto pare trova sconcertante che Nancy Dunn-Czak definisca i due pittori almost certainly homosexuals: infatti dare dell'omosessuale a degli artisti senza che sussista la minima prova è, per Enggass, del tutto inopportuno. Un giorno bisognerebbe avventurarsi in un saggio sulla psicologia del critico d'arte e sui turbamenti che lo travolgono alla lettura di ipotesi sconvolgenti come quella che un artista potesse essere verosimilmente gay.
Mi sono chiesto quale possa essere una minima prova di omosessualità nel caso di un paio di artisti morti trecento anni fa. E perché per avanzare l'ipotesi di omosessualità nei confronti di un artista ci vogliano prove, e non bastino indizi.
Del resto neppure Roberto Contini sa trattenere il rimprovero, nella scheda biografica da lui compilata così scrive:
"La Dunn-Czak ha postulato un rapporto omosessuale fra i due pittori." [4]
Si badi bene, la studiosa inglese non ha, come fanno tutti gli altri studiosi su temi d'altra natura, avanzato una ipotesi; lei ha più temerariamente postulato l'omosessualità di due artisti, ha cioè preteso sostenere quello che non è possibile dimostrare.
Grazie a Enggass sono risalito all'articolo della Dunn-Czak comparso nel 1975 sulla rivista inglese "Apollo". [5]
Il paragrafo che termina con il passo incriminato merita di essere riportato per intero:
"During this period Coli and Gherardi were visited in their studio by ex-Queen Christina of Sweden, who had taken up residence in Rome at the invitation of the Pope in 1665. According to Trenta she was so amazed to see the two artists working together in such complete harmony that she invited them to enter her service. She even offered them a house on the Tiber close to her own palace. But the invitation was turned down. Similar offers of patronage from other eminent persons were also rejected by Coli and Gherardi in Venice. They preferred to live independently. They appear to have been rather conceited and arrogant and easily aroused hostility, especially among their fellow-artists. They were almost certainly homosexuals".
[In questo periodo Coli e Gherardi furono visitati nel loro studio dall'ex regina Cristina di Svezia, che aveva preso residenza a Roma su invito del papa nel 1665. Secondo Trenta fu tanto stupita nel vedere i due artisti lavorare assieme in tale completa armonia che li invitò ad entrare al suo servizio. Arrivò ad offrir loro una casa sul Tevere vicino al suo palazzo. Ma l'invito fu lasciato cadere.
Simili offerte di patronato da parte di altre personalità eminenti furono parimenti rifiutate da Coli e Gherardi a Venezia. Preferivano vivere in modo indipendente.
Sembra siano stati persone piuttosto superbe ed arroganti, e facili a suscitare ostilità, specialmente fra i loro colleghi artisti.
Erano quasi certamente omosessuali".
Lo storico lucchese Tommaso Trenta (1745-1836) è la fonte di tali notizie [6]. La biografia da lui redatta è di indiscussa autorevolezza, dato che si avvale di una lunga lettera inviata nei primi anni del Settecento dal padre carmelitano Controni al confratello Orlandi, che a Bologna stava approntando il suo Abecedario pittorico. A detta del Trenta il testo redatto dal carmelitano lucchese su istanza dell'Orlandi si avvaleva di notizie fornite direttamente da Filippo Gherardi. Tutti i testi successivi dedicati al Coli e al Gherardi si basano su quello pubblicato nel 1818 dal Trenta.
Giovanni Coli conosce Filippo entrando a bottega del padre di quest'ultimo, Sebastiano Gherardi. Tra i due ci sono sette anni di differenza. Vale la pena riportare le parole usate da Anna Maria Cerrato nel suo saggio del 1959:
"alla scuola [di Sebastiano] i due giovani si conobbero e strinsero quella salda amicizia che li avrebbe tenuti uniti per tutta la vita in una perfetta collaborazione e in una piena comunione di ideali artistici". [7]
Insieme passarono poi a bottega del pittore lucchese Pietro Paolini, e nel 1659 si trasferirono insieme a Roma per proseguire la loro formazione presso lo studio di Pietro da Cortona.
Tre anni dopo erano a Venezia, dove rimasero sette anni. All'inizio si mantennero eseguendo copie dai grandi artisti veneziani del Cinquecento.
Nel 1663 ricevono il loro primo incarico importante: cinque grandi tele per la volta della biblioteca del monastero di San Giorgio Maggiore. Scrive Tommaso Trenta:
"Incontrarono questi quadri accoglimento favorevolissimo presso coloro che nutrivano amore per le belle arti. [...] Non mancò indi in poi ai due fidi compagni l'occasione di lavori perché piaceva a molti di possedere qualche cosa di loro, con offerte di vistosi emolumenti." [8]
Ma con il successo arrivarono pure i guai, e l'invidia degli artisti locali rese loro la vita difficile: un loro quadro venne rimosso da un altare della chiesa della Salute, dopo un banchetto si ammalarono entrambi e i medici, che sospettarono un avvelenamento, consigliarono loro di mutar paese. Tuttavia lasciarono Venezia solo nel 1669, e non per paura dei colleghi veneziani, ma perché richiamati a Roma da Pietro da Cortona che aveva pensato di affidare loro la decorazione della cupola di Santa Maria in Campitelli. Ma il loro maestro morì poco prima che arrivassero a Roma e loro persero l'incarico. Persero anche gran parte dei loro beni, imbarcati su una nave che doveva trasportarli da Venezia ad Ancona: già a Roma appresero infatti che la nave era stata attaccata e depredata dai pirati. Per di più, venuta meno la protezione di Pietro da Cortona, l'ambiente artistico romano si rivelò altrettanto ostile quanto quello veneziano.
Una biografia senza dubbio colorita e ricca di colpi scena. Sembra di vedere l'anziano Gherardi che racconta al Controni di quella volta che Lodovico Wildmann, loro ammiratore, organizzò un banchetto che offrì a ottanta dei più importanti senatori veneziani direttamente nella Libreria di San Giorgio Maggiore perché potessero apprezzare le opere che i due artisti avevano appena completate, e comprendessero finalmente che la loro fama non era immeritata. Oppure di quando rifiutarono le offerte dei Duchi di Mantova, dei Savoia e addirittura dell'ambasciatore di Spagna che li invitava a lavorare all'Escorial.
A Roma, nel 1670, ricevettero incarico di decorare la cupola di San Nicola da Tolentino, che terminarono nel 1672. A partire da questa data la loro reputazione è ormai consolidata. Cominciarono a ricevere incarichi anche da Lucca, nel corso di un decennio lavorarono per la chiesa di San Tommaso in Pelleria, per la chiesa romana di Santa Croce dei Lucchesi, fino ad ottenere la commissione, nel 1678, di affrescare l'abside del duomo.
Nel 1675 furono eletti membri dell'Accademia di San Luca, il verbale ricorda che furono subito accettati per accademici di merito senza correr bussola, non fu cioè necessario votare dato che la loro fama era indiscussa. Lo stesso anno ricevettero l'incarico più prestigioso della loro carriera, gli affreschi della galleria di Palazzo Colonna.
L'inossidabile sodalizio terminò nel 1681 con la morte di Giovanni Coli a Lucca, dove i due artisti stavano concludendo l'affresco dell'abside del duomo. Filippo Gherardi sopravvisse al compagno 23 anni; esistono dunque molte opere solo del Gherardi, mentre non ne esistono che si possano ritenere con certezza solo del Coli.
A Tommaso Trenta risale il primo tentativo, peraltro non molto fruttuoso, di distinguere le mani dei due pittori, nonostante un altro erudito lucchese avesse osservato già nel 1721 che "non si distingue la maniera dell'uno dall'altro". [9] Fin dall'inizio è infatti chiaro a tutti che tra i due non vige una gerarchia basata sull'età o sul merito. Il Trenta tuttavia attribuisce al Coli una superiore abilità nell'apporre i colori, mentre il Gherardi, a suo dire, sarebbe stato più sicuro nel disegno; egli riteneva infatti che del trittico realizzato per la chiesa di San Tommaso in Pelleria, le due tele laterali, più vivaci nei colori, fossero del Coli, mentre la pala centrale, un po' smorta, fosse del Gherardi. Sulla base di tale distinzione concludeva che tra i due il migliore sarebbe stato il Coli.
Gli studiosi successivi si sono sostanzialmente appropriati di questa impostazione, per poi, volta a volta, avvalorarla o, più recentemente, ridimensionarla. [10]
Sebbene anche Luigi Lanzi li avesse definiti nella sua Storia pittorica dell'Italia: "concordissimi come di animo, così di stile" [11], negli studi novecenteschi si è ripetutamente tentato di trovare conferme all'ipotesi del Trenta, osservando, ad esempio, che la maggior parte delle opere realizzate dal Gherardi dopo la morte del compagno mostrerebbe una ridotta padronanza della tecnica del colore. Secondo la Cerrato "quello che si ammira di più nell'opera dei due pittori è sempre la loro gioia coloristica, quel carattere spensierato, luminoso, sereno" [12] che appunto scomparirebbe nelle opere realizzate solamente dal Gherardi.
Ma c'è un'eccezione che scombina tutta l'argomentazione, e sono gli affreschi della chiesa romana di San Pantaleo, realizzati dal Gherardi tra il 1687 e il 1690 e per nulla inferiori a quelli realizzati quando il Coli era ancora in vita. Quindi i due erano proprio pari o, almeno allo stato attuale degli studi, non c'è modo di capire chi fosse il migliore; d'altro canto, se il Gherardi fosse stato solo un modesto collaboratore del Coli, non avrebbe continuato a ricevere incarichi importanti dopo il 1681.
Trattando di altri artisti, in genere tento di individuare nelle loro opere elementi o aspetti che inducono a presumere nell'artista la presenza di un desiderio omoerotico. Non è il caso di Giovanni Coli e Filippo Gherardi: le loro opere non dicono nulla in tal senso, stando almeno alle modeste riproduzioni che accompagnano i saggi che ho consultato.
Estremamente significativa è invece la maniera con cui le realizzarono, una maniera che presuppone una relazione basata su un eccezionale rispetto reciproco.
In questa ottica non mi pare così essenziale appurare semplicemente che fossero omosessuali, quanto piuttosto esplorare l'ipotesi che fossero una coppia, cioè due persone che si amavano a tal punto da fondersi sul piano artistico e professionale.
Un evento così raro, così sorprendente che non mi stupisce la meraviglia di Cristina di Svezia, che, si badi bene, li avrebbe voluti presso di sé non tanto, o non solo, per la qualità delle loro opere, ma per la maniera con cui le realizzavano.
Filippo Gherardi morì nel 1704 e fu sepolto nella tomba dell'amico.