Quello scandaloso Caravaggio

5 novembre 2005, "Pride", n. 77, novembre 2005

Ben pochi sono i pittori attualmente tanto amati quanto Caravaggio, infatti ogni mostra dedicata anche solo in parte a lui è destinata a sicuro successo. Ma non è stato sempre così: la sua riscoperta è relativamente recente. Nel settecento fu quasi dimenticato, mentre durante tutto il seicento le sue opere furono sì apprezzate ma sempre con riserve. Allora si concedeva che fosse straordinario nel dipingere, più esattamente nel colorire, ma lo si rimproverava di non saper disegnare, di realizzare figure senza bellezza, di ricorrere sempre a modelli da imitare per mancanza di immaginazione.
Non tutti però fraintesero la sua opera. Annibale Carracci, uno dei migliori pittori di quegli anni, espresse la propria ammirazione dicendo che costui macinava carne. Perché sia chiaro che cosa intendesse bisogna ricordare che ogni pittore si preparava da sé i colori. Personalmente o avvalendosi di apprendisti riduceva in polvere finissima le sostanze coloranti, che andavano appunto macinate prima di essere mescolate con il legante più adatto. Stando all'iperbole geniale del Carracci, quel giovane pittore lombardo doveva aver macinato carne, non c'era altra spiegazione: le sue figure erano così efficaci, così vere, da far pensare che con nessun'altra sostanza se non vera carne si sarebbe potuto raggiungere un tale risultato.

Se il radicale realismo delle opere di Caravaggio riesce ancora ad emozionare la nostra epoca, si può immaginare quanto potesse essere forte il turbamento di chi allora si trovò per la prima volta dinnanzi a quei quadri. I corpi, gli oggetti tratti dalla realtà non vi erano semplicemente raffigurati, bensì erano proprio lì, spiaccicati sulla tela, così veri da essere imbarazzanti.
Era una maniera di dipingere difficile, che proponeva un realismo così estremo che molti apprezzarono fin da subito, ma altri non riuscirono ad accettare, soprattutto quando si trattava di figure sacre.
Non solo le opere provocarono reazioni disparate e vivaci, anche la vita di Caravaggio appare caratterizzata da tinte forti. Tra i primi a scrivere di lui ci fu un suo appassionato nemico, il pittore Giovanni Baglione. Scrisse che fu "uomo satirico e altiero", che "usciva tal'ora a dir male di tutti li pittori passati e presenti per insigni che si fussero". Un caratteraccio dunque, un tipo fiero, consapevole del proprio talento, sferzante con i colleghi. Il Baglione racconta che sfidò a duello il Cavalier d'Arpino, presso cui peraltro era stato a bottega, a seguito degli insulti che si erano scambiati. Del resto il Cavalier d'Arpino a sua volta aveva sfidato Annibale Carracci.

Non sembra dunque che aggressivo e suscettibile fosse solo Caravaggio nell'affollato ambiente dei pittori residenti a Roma a fine cinquecento, certi comportamenti non contraddistinguevano certo Caravaggio a fronte dei suoi colleghi. Anzi, per farsi notare bisognava agitarsi parecchio, ricorrere ad ogni mezzo, compreso disprezzare il lavoro altrui.
Caravaggio in realtà fu relativamente fortunato: due anni dopo essere approdato a Roma, aveva già incontrato un patrono importante, il cardinale Francesco Maria Del Monte, che lo accolse nel suo palazzo e che per almeno un quinquennio gli permise un tenore di vita di tutto rispetto. Il cardinal Del Monte fu il suo maggiore committente quando era ancora quasi sconosciuto, ne promosse la carriera sia utilizzando sue opere come doni ad altri collezionisti, sia favorendolo nel conseguimento dei primi incarichi importanti.

Tuttavia, nonostante la fama crescente, le ragioni per essere rabbioso e frustrato si moltiplicarono. Quando cominciò a dipingere quadri destinati a luoghi pubblici, presto si accorse che ciò che realizzava non riscuoteva lo stesso favore delle tele da stanza.

La stessa maniera di dipingere, perfetta per i quadri destinati ad essere visti da pochi collezionisti nel chiuso dei loro palazzi, non funzionava se la tela doveva essere esposta in una chiesa. Le sue tele furono ripetutamente rifiutate, più di una volta gli fu chiesto di rifare l'opera, come dire che si apprezzava il modo con cui dipingeva, ma non ciò che dipingeva: figure troppo volgari, indecorose, inaccettabili se destinate ad essere oggetti di devozione.
E comunque i quadri rifiutati da un committente venivano immediatamente acquistati da altri, che anzi se li contendevano per le loro collezioni private.

È vero che si può incorrere facilmente nell'errore di attribuire la mentalità attuale ad un pittore di tre secoli fa, ma viene proprio da pensare che Caravaggio detestasse l'idea di un'estetica e di un'etica di circostanza, in base alle quali ciò che in un certo ambiente era apprezzato, in un altro era deprecabile. Se non si fosse trattato di una questione per lui essenziale, immagino che, al primo rifiuto, una volta appurato che non si poteva rappresentare un evangelista con piedoni da contadino, Caravaggio avrebbe inteso la lezione e avrebbe smesso di insistere con madonne e santi plebei. E invece no, persiste cocciuto, e i rifiuti si ripetono puntuali.

Ragioni per essere arrabbiato ne aveva dunque parecchie. Il crescente disordine nella vita di Caravaggio nei primi anni del seicento potrebbe allora essere la conseguenza dell'esasperazione di un artista per quella continua gloria dimezzata che gli era toccata in sorte. Una interpretazione che preferisco a quella consueta che gli attribuisce una personalità torbida e disturbata.

Quanto all'omosessualità di Caravaggio, ormai pare un dato acquisito, perfino per le signore di mezza età che affollano le mostre dedicate a lui, anche se a dispetto di molti studiosi, soprattutto italiani.
Ciò che risulta un po' sgradevole è la stizza con cui in genere essi rifiutano tale ipotesi.
Non si comprende infatti perché si debba respingere con sdegno, perché non si possa discordare pacatamente.
Lo scherno con cui colui che di fatto ha "riscoperto" Caravaggio nell'età moderna, Roberto Longhi, reagì all'ipotesi avanzata dal grande critico d'arte Bernard Berenson (cioè, appunto, che Caravaggio fosse omosessuale... come del resto erano sia lui che Longhi) non torna certo a suo onore, ma ciò avvenne cinquant'anni fa.

Molto peggio è quando un analogo tono sprezzante si ritrova in testi recenti e di carattere divulgativo, quando si sceglie di liquidare la questione accusando chi rintraccia un evidente desiderio omoerotico in alcune opere di Caravaggio di "incapacità di leggere le sue opere secondo i codici iconologici dell'epoca". Un'argomentazione risibile, in base alla quale si sostiene che i giovani rappresentati da Caravaggio siano privi di qualsiasi valore omoerotico in quanto "allegorie". Come dire che, alla luce di ciò che rappresenta, l'immagine del bel ragazzo non è più tale, che non fu realizzata da un pittore emozionato, né pensata per collezionisti sensibili allo stesso tipo di emozione. In un recente commento ai Musici si sostiene invece che la tela "non si spiega compiutamente né come scena di genere né come allegoria", ma che si tratterebbe di una raffigurazione realistica di cantanti castrati, il che "escluderebbe" la presenza di qualsiasi esaltazione di tematiche omosessuali. Altra risata.
E infine ho letto che il 1971 fu "l'anno delle interpretazioni omoerotiche dell'opera giovanile di Caravaggio": una stravaganza cui nessuno dà più credito, sembra di intendere...

Del resto molti scelgono di ignorare del tutto la questione, ritenendola completamente ininfluente ai fini della conoscenza approfondita dell'opera di Caravaggio. Curiosa modalità, che prevede di accantonare in maniera pregiudiziale un rilevante aspetto della personalità dell'artista, pur mirando a sviscerare tutti gli altri, anche i più marginali.
In un interessante studio sulla Medusa dipinta da Caravaggio che il cardinal Del Monte donò a Ferdinando de' Medici si ricorda che i
commentatori dell'epoca sottolinearono la strabiliante forza illusionistica dell'oggetto: Caravaggio era riuscito a trasformare uno scudo convesso in un bacile in cui era depositata la testa mozzata di Medusa.
Su quello scudo non c'era una semplice immagine di un oggetto, bensì l'oggetto stesso che prorompe in tutta la sua evidenza.
E non solo la testa di Medusa, pure la Canestra di frutta della Pinacoteca Ambrosiana, altro probabile dono del cardinal Del Monte, sarebbe un'epifania, cioè un'apparizione stupefacente, di una concretezza e veridicità mai viste fino a quel momento.
Non capisco allora perché i numerosi Bacchini, Suonatori, Davidi e San Giovannini dipinti da Caravaggio più o meno negli stessi anni debbano invece essere immagini incorporee, sempre e soltanto esili figurine a sostegno di allegorie spesso assai generiche.
Ritengo invece che un ragazzo dipinto da Caravaggio abbia potuto tranquillamente portarsi a spasso un canestro pieno di simboli senza perdere un grammo della conturbante corporeità che lo contraddistingue.
E mentre i simboli sono svaniti col tempo, il giovane è rimasto lì sulla tela, conservando intatto tutto il suo potere di fascinazione.

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