Nun te reggae cchiù

L'omofobia di Buju Banton

12 agosto 2006, "Pride", agosto 2006

Quanto è alta la soglia dell'omofobia in Italia? E cosa c'entra con la musica reggae, con il pacifico popolo alternativo che la apprezza e con gli organizzatori di concerti di sinistra? Una polemica estiva ci aiuta a scoprirlo.


Il suo nome è Buju Banton ed è uno degli artisti reggae più noti e apprezzati del momento a livello internazionale. Pare quindi buono e giusto che nella sua tournée europea di questa estate passi a suonare anche in alcune delle principali città italiane. C'è solo un problema: Buju Banton e il suo reggae arrabbiato hanno qualche conto in sospeso con i gay. Per esempio una canzone, "Boom, bye bye" del 1992, in cui Banton invita ad ammazzare i froci senza pietà e a dargli fuoco come fossero dei vecchi copertoni.
Pare quindi altrettanto normale che le associazioni glbt si mobilitino un po' per ottenere una pubblica discussione sul tema, com'era già accaduto in altri paesi europei e anche in Italia in occasione del passaggio di altri esponenti del reggae omofobico giamaicano. Così, nelle scorse settimane, è partita una polemica estiva che ha confermato che è sempre meglio muoversi e parlare piuttosto che stare zitti per signorilità.

Buju Banton aveva in programma tre concerti italiani a Milano, Roma e Mira (Venezia) e in tutti e tre i casi, a rendere più imbarazzante la faccenda, era stato invitato da organizzatori del circuito alternativo e nell'ambito di manifestazioni promosse con il contributo di amministrazioni pubbliche di centrosinistra. C'è da aggiungere che Banton, in Giamaica, è stato processato per violenze compiute in gruppo contro alcuni omosessuali e assolto per mancanza di prove con una sentenza considerata più che discutibile da diverse associazioni per la difesa dei diritti umani.
A difesa invece del musicista, gli uffici stampa degli organizzatori dei tre concerti precisavano che: 1) Banton aveva ritirato da tempo dal repertorio la canzone "Boom, bye bye", 2) al processo per aggressione era stato assolto ed era perciò fino a prova contraria innocente, 3) aveva già pubblicamente espresso un'"abiura" dei suoi testi omofobici.
Banton però, in un'intervista rilasciata a "Repubblica" lo stesso giorno del suo concerto milanese, dichiarava: "Se ci sono dei gay a cui non piaccio, che non vengano. Sono loro che scelgono di venire ad ascoltarmi, non io che li obbligo". Non molto conciliante e men che meno pentito.

Alcuni gay comunque al concerto ci sono andati lo stesso a fare un volantinaggio, incassando un buon risultato di attenzione per la loro protesta.
Le tre esibizioni di Banton si sono svolte tutte regolarmente, malgrado le proteste dei gruppi glbt, di Amnesty e di alcuni centri sociali che hanno invitato a boicottare i concerti. A Venezia è finita persino a tarallucci e vino, con il ritiro di un altolà al musicista giamaicano emesso dall'assessore provinciale Rita Zanutel e la promessa di "farsi portavoce dei diritti civili" fatta da Banton al presidente di Arcigay Veneto Alessandro Zan.

Quali somme tiriamo da questa storia? Innanzitutto che in Italia la soglia d'allarme per l'omofobia rimane altissima. Molto più alta di quelle accettabili per il razzismo o l'intolleranza religiosa. Immaginiamo per un momento il clamore che avrebbe potuto suscitare il tour italiano di un musicista che in alcuni dei suoi testi incita allo sterminio etnico. E confrontiamolo con il fatto che Banton, pur contestato e ambiguo nel suo ripudio dell'omofobia, non è stato più di tanto considerato uno scandalo.
Constatiamo però pure che finalmente c'è anche da noi qualcuno che si alza e dice no all'omofobia riuscendo a farsi sentire. E che finalmente gay, lesbiche e trans non sono più del tutto soli nelle loro battaglie.

Sullo sfondo di questa vicenda rimane in ogni caso un interrogativo: com'è che il pacifico reggae di una volta si è trasformato in un'epopea della violenza nel ghetto e che parecchi estimatori di questi ipnotici ritmi (soprattutto) non sembrano essersene manco accorti?
Sarà qualche sostanza psichedelica, oppure la totale incomprensibilità dei testi, scritti in un'inglese supergergale e pronunciati peggio? O forse tutte e due le cose?
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