Troppo si dimentica. Se non ci fosse stato un caso fortuito, mai avrei messo il naso dentro la ben scritta ed appassionante autobiografia, pubblicata esattamente trent'anni fa da Vallecchi, di Romina Cecconi dal titolo "Io, la "Romanina": perché sono diventato donna". Non si sa se la strepitosa Romina Cecconi meriterebbe di più un monumento per quello che ha detto e fatto o una bella ed aggiornata ristampa per ciò che ha scritto. Nel frattempo, dal 2005, c'è stato per fortuna il regista Giovanni Guerrieri che con l'attrice Anna Meacci ne hanno tratto uno spettacolo teatrale. La bellissima Romina, era nata Romano Cecconi da Lucca, il 4 luglio del 1941. E sempre a luglio rinacque donna, nel 1972, dopo un'operazione a Losanna. Fu tra le prime in Italia a rivolgersi al chirurgo per ottenere l' identità che da sempre sentiva più sua. Ma fu soprattutto l'unica a non vergognarsene affatto e a rivendicarne la scelta alla luce del sole. Pagò la sua voglia di libertà con violenze, processi, carcere e persino il confino per tre anni a Volturino in provincia di Foggia. Aveva dovuto addirittura citare in tribunale l'anagrafe per poter avere dichiarato il sesso "F" sulla carta d'Identità. Creando un precedente che avrebbe cambiato le leggi italiane. Cosa poi ampliata al diritto di potersi sposare un uomo legalmente. Capitanando cortei ed interviste televisive con le sue "colleghe" quando gli oceanici Gay Pride erano ancora al di là, in Italia, dall'essere umanamente immaginati. Da sempre m'era parsa come un personaggio "mitologico" ed inafferrabile, quanto una sirena, finché non me la trovai a fianco durante un concerto di Patty Pravo a Firenze dieci anni fa. Impossibile non sapere chi fosse, già nel 1975 l'avevo vista intervistata in tivù nello speciale di "Odeon", diretto da Mauro Bolognini, che fece molto clamore. L'avevo anche vista sfacciatamente nuda in un "Playmen" di pochi anni più tardi e una mia amica, figlia di un carabiniere di Volturino emigrato al Nord, me ne aveva decantato le scandalose gesta. Da culto. Apparteneva ad un tempo in cui chi nasceva in un corpo sbagliato aveva solo due scelte: il palcoscenico o il marciapiede. Come emulo del francese Coccinelle, l'Uomo-Donna come la definì la locandina dello spettacolo itinerante in cui si esibiva Romina, ebbe la carriera stroncata da un parroco di paese che tuonò dall'altare "In quel circo c'è un diavolo tentatore" e poi chiamò le forze dell'ordine. Così finì a fare sexy-struscio su e giù per Via Tornabuoni a Firenze con amanti occasionali che regalavano denaro e poliziotti che la multavano per "travestismo". Per pagare più di 300mila lire (nei '60!) di multe accumulate, finì da "professionista" sul Lungarno col nome "d'arte" di Romanina. Vernacolarmente definita "La donna pipistrello: metà topa metà uccello". Stanca di prendere botte dalla Polizia e dai clienti, un giorno dopo una rapina decise di denunciare il colpevole. Fu così che arrivando in tribunale entrò da vittima ed uscì da condannata a non vestirsi più da donna e non varcare più la soglia di casa dalle 9 di sera fino alle 7 del mattino dopo. Coprifuoco violato assiduamente. Nuove denuncie e processi fecero scattare la pena estrema: il confino come "persona socialmente pericolosa". Ma lei (brava brava) prima d'essere riacciuffata se ne andò in Svizzera per operarsi. Poi, arresasi al destino, blindata e trasferita nelle lande desolate del foggiano, si finse "assassina per motivi d'onore" pur d'avallarsi la stima dei villici e poi in veste di donnissima "femme fatale" farsi gratis tutti gli strab?ni del paesello e dintorni (brava bravissima). Grazie a lei Volturino uscì dal preistorico rurale per approdare all'emancipazione femminista. Nulla fu più uguale. A lei va riconosciuto anche il merito d'aver scritto, nel 1976, con arguzia ed intelligenza cose che oggi risultano premonitrici. Per esempio il capitolo svizzero in cui descrive il suo "incontro" col principe Vittorio Emanuele di Savoia nel 1972. Lui trentacinquenne, sposato religiosamente da meno d'un anno con Marina Ricolfi-Doria (più vecchia di 2 anni) e da solo un mese padre del piccolo Emanuele Filiberto. Quello che oggi è coinvolto stupidamente in "vallettopoli" (alias "puttanopoli") già all'epoca, secondo Romina, dimostrava già tutta la sua spiccata propensione a frettolose ed irrefrenabili relazioni adulterine, ancillari o rusticane che dir si voglia. Eccovene qui un preveggente estratto:
Guardai quell'uomo slavato, certo privo della irruente personalità che credevo fosse prerogativa delle famiglie reali. Non lo trovavo granché sessualmente(...) Eppure, nonostante fosse ben lontano da quell'immagine di principe azzurro che inconsapevolmente gli avevo sempre prestato, mi accorsi che possedeva un suo fascino, un alone di mistero, di impenetrabilità, che mi attraeva rendendomi profondamente curiosa. Cercai di recitare la mia parte fino in fondo.(...)Beveva il suo Martini come beveva le mie parole.(... )lui prese tutto per buono, acconsentì con partecipazione, non gli venne neppure il dubbio che il suo modo di parlare, il suo distacco, la sua veste ufficiale in quelle stesse stanze dove più d'una dama stava già mostrando i seni e molti ospiti si erano appartati dietro le piante della terrazza, erano assolutamente ridicoli(...)Non credo che il principe andasse molto d'accordo con Marina Doria, sua moglie. Mi è capitato spessissimo di partecipare a dei party dove era possibile incontrare o l'uno o l'altra, ma difficilmente erano insieme. Erano party decisamente movimentati. Una nota principessa mezza attrice (ndr: Ira Fürstenberg) faceva scenate da bettola ai suoi accompagnatori. L'ho vista ballare completamente nuda per un'ora mentre tutti gli altri, questa meravigliosa bella società internazionale, le gettavano i soldi addosso dandole di puttana. E naturalmente lei accettava tutto perché era proprio quello lo scopo della sua esibizione. Troppo in alto nella stima della povera gente, queste persone non avevano altra scelta che umiliarsi, ridursi alla grettezza più assoluta quando erano fra di loro.(...)Quello che mi colpiva in tutto quel caos era la completa mancanza di senso del reale. Perfino alla festa di Fiesole, all'orgia col filmino al capitone, qualcuno prima di mangiare aveva commentato i fatti del giorno, la situazione politica, aveva parlato del suo lavoro, un accenno al tempo, ai prezzi che corrono. Ma quella sera(...)le battute erano appena accennate, l'ironia non esisteva, la concretezza neppure. Nonostante questo riuscivano a parlare e apparentemente a divertirsi. Vittorio Emanuele non entrava mai nella mischia. Era quasi sempre in disparte, sembrava destinato a reggere per lunghe ore il suo bicchiere di alcool. E come girava quel bicchiere fra le dita! Sempre più veloce via via che passavano le ore, via via che la festa entrava nel vivo, quando doveva aver bevuto di più. (...)Per un paio di volte, con quegli amici, anch'io accettai di fumare droghe leggere. (...)Gli altri, tutti gli altri c'erano abituati.(...)Credevo di vivere quell'atmosfera di favola, circondata da principi più o meno azzurri, di cui erano imbevuti i miei sogni d'infanzia. E' forse per questo che Vittorio Emanuele, il principe, il re mancato, mi attirava particolarmente.(...) ci eravamo incontrati spesso, sempre con i soliti amici. Un giorno che doveva aver bevuto più del solito, e mi si avvicinava con un'audacia che niente aveva del principesco, mi offrì di accompagnarmi all'albergo. Accettai lusingata dal fatto che un personaggio così importante potesse rimanere solo con me per qualche ora. (...) Mentre eravamo in ascensore mi accorsi che gli interessava una sola cosa: fare l'amore con me. Qualunque cosa potesse costargli. Gli offrii da bere e creai subito un clima molto intimo. C'era pochissima luce nella stanza, avevo acceso soltanto uno degli abat-jour sui comodini ai lati del letto. Si sedette in una poltrona sorseggiando il mio cognac. Mi chiese qualcosa di Firenze. Con voce lenta, molto profonda e sensuale gli raccontai angoli caratteristici che diceva di aver visto da bambino. Mi divertivo a risvegliare sensazioni lontane, ricordi sfumati; lo immergevo sempre di più in un'atmosfera di nostalgia, di tristezza calda, dove era bello abbandonarsi. Per quanto fosse chiaro che avremmo finito col fare all'amore non volevo essere io la prima a tentare un approccio. Del resto, in tutti i miei sogni di bambina, sempre era stato il principe a rapirmi, a portarmi con sé: e adesso che vivevo la favola non volevo assolutamente sciuparla. Vittorio Emanuele fu molto discreto, mi abbracciò quando mi avvicinai per versargli ancora del cognac nel bicchiere, e mi baciò con delicatezza. Non era diverso dai tanti uomini che avevo avuto, ma mi sembrava che lo fosse. Avevo tanto atteso quel momento, che credevo realmente di essere rapita dal mio cavaliere azzurro. Non trovai la forza di dirgli chi ero, non me la sentivo di rischiare un'umiliazione proprio in un momento così importante. Mentre mi lasciavo spogliare, mentre lui mi sussurrava "Come sono belle le ragazze italiane, come sono calde, come sono materne" decisi che avrei cercato di prenderlo con l'inganno, nella stessa maniera usata tante volte con i miei soldatini e con i fornai, tanti anni prima, alle Cascine. Mi raccolsi nell'angolo più buio del mio letto, alzai le gambe come per riceverlo con maggiore affettuosità, e lo indirizzai dove volevo io con le mie stesse mani. Poi, mantenni sempre due dita sul mio ventre, come a voler sentire più intensamente il suo membro; invece nascondevo il mio. Vittorio Emanuele non si accorse di niente. Ed io mi rivestii in fretta perché, passato il momento della più intensa partecipazione, non dovesse accorgersi di qualcosa. Rimase a lungo a parlare con me. Più che una conversazione fu un monologo. Mi raccontava delle sue giornate svizzere, cercava forse di farmi capire, anche se non lo disse mai esplicitamente, come un principe sia praticamente costretto a fare un certo tipo di vita, anche se non la condivide e si sente nato per ben altre imprese. Disse più volte: "E' questa inattività, questo essere simbolo inutile che mi sconvolge. Qualunque cosa faccia, anche se diventassi dal niente un industriale potentissimo, mi sentirei sempre inattivo rispetto ai compiti che mi sarebbero spettati". Fu l'unica frase che rivelò, in qualche modo, la sua amarezza. Per il resto si limitò, sempre con il bicchiere in mano, a parlare dell'Italia e della Svizzera, a fare banali confronti climatici. Uscì dalla mia camera a tarda notte. Non provò neppure a possedermi di nuovo: era rimasto soddisfatto la prima volta. Doveva avermi desiderato molto, perché aveva raggiunto un orgasmo immediato. Mi avrebbe lasciata insoddisfatta se non fossi stata ripagata dal nome dell'uomo che aveva fatto l'amore con me. Se ne andò senza fissare nuovi appuntamenti, e senza chiedermi se mi doveva qualcosa. Era dunque sicuro d'aver fatto una conquista; e certo doveva essere abituato a farne, perché non sentì il bisogno di coltivare minimamente la nostra relazione. Forse pensava che mi avrebbe ritrovata di lì a pochi giorni, e che avrebbe potuto approfittare di nuovo. Restai sola in camera e pensai a quanto era stato diverso le prime volte che mi ero concessa ad un uomo.(...)Riuscii a soffocare la malinconia che mi stava avvolgendo con un pizzico d'ironia fiorentina. Prima di addormentarmi, mentre risistemavo la camera, mi misi a canterellare una strofa goliardica che raccontava della Contessa di Castiglione e del suo darsi, sodomiticamente, a Napoleone III. Io non ero contessa, Vittorio Emanuele non era Napoleone, e non c'erano di mezzo intrighi politici. Ma il risultato, dopotutto era stato lo stesso. Il paragone mi mise di buon umore. Mi addormentai pensando all'operazione che avrei fatto di lì a pochi giorni.(...) Vittorio Emanuele non lo incontrai più. Vidi invece Marina Doria a un party ed ebbi l'impressione che fosse particolarmente sostenuta nei miei confronti. Ma forse fu solo un'impressione.