Quando il vampiro diventa finocchio

5 agosto 2013

Die Zärtlichkeit der Wölfe (La tenerezza del lupo, 1973) è il terzo film di Ulli Lommel. A giudicare dalla trama (e dal regista) lo si potrebbe di primo acchito considerare una sorta di thriller orrorifico: la pellicola è infatti una drammatizzazione della vicenda di Fritz Haarman, serial killer tedesco attivo nei primissimi decenni del ’900, il “Werwolf von Hannover” (“Lupo mannaro di Hannover”) che terrorizzò la cittadina tedesca con una serie di efferati delitti di violenza sessuale e cannibalismo. L’omicida era già stato materia d’ispirazione per un grande capolavoro del cinema tedesco, ovvero M – Eine Stadt sucht einen Mörder (1931) di Fritz Lang, ove però il richiamarsi alla sua figura era stato più che altro un pretesto per la costruzione drammatica e filosofica dell’opera. Ciò nonostante il famoso monologo del protagonista nella scena del tribunale presenta alcune interessanti istanze che potrebbero risultare in parte utili anche per la comprensione dell’Haarman di Lommel.

Nonostante le premesse, comunque, diviene presto chiaro allo spettatore che non è l’elemento horror a farla da padrone; il che è ancora più lampante se si pensa alle varie figure coinvolte nella realizzazione del film. C’è lo zampino di Fassbinder e si vede: teoricamente il suo ruolo avrebbe dovuto limitarsi esclusivamente a quello di produttore e di comparsa minore nei panni di un malavitoso, ma in realtà la sua poetica invade il film già a partire dal cast – e si estende fino ad influenzare l’intera produzione. Del resto lo stesso Ulli Lommel si era affermato come attore recitando in alcuni dei primi film del regista di Monaco (sebbene fosse attivo già da alcuni anni nel settore) – ottenendo il ruolo principale nel debutto Liebe ist kälter als der Tod (1969) e riaffiorando ancora in opere come Whity (1970) e nel film-spartiacque Warnung vor einer heiligen Nutte (1971). Nella sua utile biografia di Fassbinder dal titolo Schlafen kann ich, wenn ich tot bin Harry Baer discute della riluttanza del regista a “lasciare andare” i propri collaboratori (a meno che non fosse particolarmente stanco di averli in giro), e si può presupporre che una circostanza analoga si fosse verificata in questo caso, a maggior ragione per il fatto che Lommel rientrava particolarmente nelle sue preferenze.

In che cosa si concretizza esattamente l’influenza fassbinderiana? Anzitutto nel cast, come dicevamo. Haarman è interpretato da un eccellente Kurt Raab (anche autore della sceneggiatura); compaiono inoltre Margit Carstensen, Brigitte Mira, Wolfgang Schenck, Ingrid Caven ecc. – insomma quasi l’intero entourage fassbinderiano di quel periodo. Ma la misura in cui maggiormente si riscontra tale influsso è nella costruzione melodrammatica dell’opera. La materia a dire il vero si prestava benissimo per la poetica cinematografica “melò” che Fassbinder stava perseguendo in quegli anni. Riassumiamo brevemente la trama del film.

La vicenda ha luogo in una cittadina innominata del Ruhrgebiet, nel secondo dopoguerra. Fritz Haarman (Kurt Raab) è un piccolo ricettatore che si arricchisce tramite il mercato nero, ma viene scoperto dalla polizia; in cambio della libertà, gli viene tuttavia offerto di sfruttare le sue conoscenze della malavita locale per aiutare gli agenti in qualità di spia. Nel frattempo per copertura lavora come controllore in una stazione. Ciò che la polizia non sa è che Haarman è l’autore di una serie di recenti sparizioni di alcuni giovani ragazzi – per lo più senzatetto – che il criminale adesca con la scusa di aiutarli a migliorare la propria situazione (minacciando al contempo di consegnarli alla polizia se si rifiuteranno di seguirlo). Nel proprio appartamento, Haarman uccide le sue giovani vittime con un morso vampiresco alla giugulare e ne vende poi la carne all’inconsapevole signora Engel (Brigitte Mira), oste di una locanda ove l’assassino è “accettato” – malgrado la propria omosessualità, per l’epoca ancora “socialmente disturbante” – per via delle sue doti “affaristiche”. Nel frattempo Haarman è tuttavia frustrato per l’altalenante relazione col suo compagno e socio d’affari Hans Grans (Jeff Roden), che spesso e volentieri lo bistratta e lo tradisce con delle donne. Nel frattempo le sparizioni cominciano ad insospettire seriamente la polizia, la quale, pur confidando nell’affidabilità di Haarman a causa del buon lavoro ch’egli svolge come spia, è messa sulla giusta pista dalle testimonianze di una sua vicina, Frau Lindner (Margit Carstensen). Sfruttando un’esca le autorità colgono Haarman sul fatto e lo arrestano; mentre viene condotto in strada, una piccola folla di curiosi e conoscenti attoniti si raduna per seguirli. Il film si chiude con la scomparsa del gruppo all’orizzonte, ed alcune citazioni dagli atti processuali di Haarman.

Se vi è un elemento orrorifico, esso è riscontrabile solo sul piano dei richiami iconografici: Raab, pelato per l’occasione, accigliato, aspro di lineamenti, non può non ricordare Nosferatu, con il quale condivide non solo la dimensione vampiresca ma anche la tendenza a dimorare e muoversi in spazi lugubri e bui – abita una sorta di soffitta polverosa (con un gigantesco crocifisso appeso ad una parete), si muove furtivo e falsamente benevolo fra i binari della stazione, alla ricerca di vittime, sguscia fra case popolari, bettole e vicoli ciechi per condurre i propri affari illeciti, assistito dall’amante – peraltro tale ritratto risponderebbe con una certa fedeltà alla figura dell’Haarman reale, sebbene le vicende siano spostate dagli anni ’20 al secondo dopoguerra ed anche il riferimento geografico venga alterato da Hannover al Ruhrgebiet. Il fatto è che persino questo lato spaventoso e distruttivo del personaggio è subordinato ad una costruzione tipicamente melò nel senso più fassbinderiano del termine. E per esserne protagonista l’Haarman di Lommel ha tutte le carte in regola: è un reietto (non solo criminale, ma anche omosessuale), intrattiene una relazione fallimentare ed autodistruttiva, si scontra continuamente con la derisione o l’ostilità altrui (nella taverna della Engel ove è solo apparentemente inserito; nel giro di malavitosi in cui lui ed il suo amante trafficano; nella vicina che lo spia ossessivamente ed è disposta a tutto pur di vederlo crollare) e pare teso in un continuo e disperato tentativo di soddisfare una sorta di desiderio amoroso (o anche solo fisico) il quale, non trovando altri canali di sfogo, si tramuta in violenza sessuale ed omicida. Ad un pubblico cui la figura di Haarman non fosse nota (cosa a dire il vero piuttosto difficile in Germania, ove il killer è ormai entrato nell’immaginario comune – persino nei canti popolari), le primissime scene potrebbero quasi ispirare tenerezza: Raab fa da samaritano a dei giovani senzatetto, li accudisce, li porta a letto senza costrizione, con delicatezza. E’ solo più avanti nella pellicola che si viene messi di fronte al lato più spaventoso del personaggio, ed anche qui è interessante notare come esso si manifesti: in fondo anche il modus operandi dell’omicida ha una sua carica “sensuale” – il morso che mette l’assassino in contatto pregnante con la carne della propria vittima; interfacciarsi con essa a livello sentimentale sarebbe impossibile (tutti i ragazzi che Haarman “rimorchia” lo seguono esclusivamente perché l’alternativa sarebbe essere consegnati alla polizia) di conseguenza Haarman se ne appropria nell’unico modo che egli ritiene possibile, quello dell’espropriazione sessuale prima e cannibale in seguito. Lui stesso, del resto, è metaforicamente “vampirizzato” dal proprio amante. Appare evidente che Grans gli resta accanto solo per sfruttarne le fortune; nelle poche scene in cui fra i due si instaura un contatto amoroso, Grans si mostra visibilmente riluttante, ed accetta le effusioni di Haarman solo per placarne dei malumori che potrebbero potenzialmente metterlo in difficoltà. E’ un meccanismo, ricorrente nelle coeve opere di Fassbinder, secondo il quale ognuno è vittima e carnefice allo stesso tempo, e replica sulle persone a lui disponibili le stesse ingiustizie che è costretto a patire, senza riuscire a ribellarsi e rompere il circolo vizioso. Indirettamente Haarman infligge un’analoga sofferenza anche a Vera (Ingrid Caven) – una frequentatrice del giro della Engel – la quale si dimostra più volta attratta a lui ed interessata ad aiutarlo, ma riceve in cambio solo una distratta freddezza ai limiti dello sprezzante. Oltre a ciò l’assassino, umiliato in più occasioni dalla gentaglia frequentata da Grans, non si mostra riluttante nell’utilizzare atteggiamenti simili nei confronti di vittime casuali – si veda la scena in cui, fingendosi un poliziotto, confisca ad un giovane la carne ch’egli vorrebbe vendere presso la locanda della Engel. Haarman, nella sua sete sentimentale insoddisfatta, è del tutto impotente, disperato e rancoroso; può al massimo strabordare in scenate di gelosia che non fanno altro che provocargli nuove umiliazioni da parte degli altri ed allontanare ulteriormente Hans.

A titolo di esempio per quanto scritto finora propongo si veda il dialogo dei due amanti nel ristorante, ove il carattere melodrammatico dell’opera emerge con particolare pregnanza. Haarman descrive a Grans un incontro amoroso da lui presumibilmente vissuto – forse per puro piacere di confessione, o per ingelosirlo, o anche solo per attirare l’attenzione – questi sorride accondiscendente, un po’ imbarazzato, per poi alzarsi all’improvviso e chiedergli soldi per andare a ballare con una cameriera. La scena, con tanto di inserto musicale “tragico” da film hollywoodiano (Peer Raben, vi ricorda qualcosa? Provate a indovinare con chi era solito lavorare…), è fassbinderiana dal primo all’ultimo frammento. Il melodramma esplode anche nell’ultimissima scena – quella della cattura – pur essendo questa la più cruda del film: la polizia irrompe nell’attimo esatto in cui Haarman, dopo aver scambiato effusioni con il fanciullo di turno (un’esca delle autorità), si appresta a vampirizzarlo; in un primo momento arretra inorridito, come se il sopraggiungere degli agenti (e della società; sono presenti veramente tutti, dalla Engel alla vicina, da Grans ai suoi scagnozzi) lo avesse improvvisamente posto di fronte a sé stesso ed alla propria vergogna; successivamente si lancia all’inseguimento della vittima in fuga, riesce a stringerla nella sua morsa e ne è separato solo a forza (notare come gli agenti agiscano con fin troppa calma e non prestino alcun soccorso medico al ragazzo ferito, quasi fossero disgustati dal contatto ch’egli ha avuto col killer). Haarman è scortato in strada dai gendarmi; nuovi spettatori accorrono sul posto e seguono il corteo. Mentre si allontanano all’orizzonte, Raab recita una dichiarazione di Haarman durante il processo:

“Prendete pure la mia piccola vita. Non temo la morte o l’ascia del boia; per me è una liberazione. Porgo la mia morte ed il mio sangue come espiazione di fronte a Dio ed alla Giustizia. Potrebbero essere stati trenta come quaranta, non lo so. Di alcune delle vittime non sapete assolutamente nulla. Ma quelle che cercate non sono fra di loro. Furono piuttosto le più belle, quelle che ho posseduto.”

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