Rock Hudson

A sessant'anni circa dall'inizio della sua carriera cinematografica, e a venti giusti dalla sua morte, il nome di Rock Hudson rimane più legato alla seconda che alla prima, benché sia stata una delle star più celebri degli anni '50 e '60. E in fondo a ragione: la sua importanza di attore costruito a tavolino dalle logiche dello star system di Hollywood, per quanto esemplare, non è paragonabile a ciò che la sua morte ha rappresentato per il superamento della vergognosa disattenzione di cui l'AIDS era vittima sotto l'amministrazione Reagan e per iniziare un lento processo di rielaborazione culturale della malattia, cioè per ripensare tutta una serie di luoghi comuni e di paure collettive che alla malattia furono associati fin dal suo comparire sulla pubblica scena, nel 1981. Perché l'AIDS, come sappiamo tutti fin troppo bene, non è mai stata una semplice malattia ma è stata sempre, per dirla con Susan Sontag [1], anche una metafora di tante, troppe altre cose.


Una carriera da playboy

Roy Harold Scherer Jr. nacque il 17 novembre 1925 a Winnetka, nell'Illinois. Prima di approdare a Hollywood intraprese vari mestieri, tra cui il camionista. Fu scoperto dall'agente (gay) Henry Willson, i cui "metodi di reclutamento" e il cui caratteraccio erano proverbiali [2], come pure la sua capacità di nascondere l'omosessualità dei suoi protetti, tra i quali c'erano Tab Hunter e Troy Donahue. Willson si mise subito al lavoro per costruire l'immagine pubblica di quello che sarebbe stato il suo fiore all'occhiello, cominciando dall'inventargli un nome: Hudson come il fiume che attraversa New York, Rock come la rocca di Gibilterra o, secondo altre versioni della leggenda diffuse dai giornali dell'epoca, come le Montagne Rocciose. In realtà, entrambi furono scelti a caso dall'elenco del telefono durante un party gay (così racconta la biografia ufficiale dell'attore, pubblicata dopo la sua morte).

Trasformare un corpulento camionista alto quasi due metri in un attore non fu impresa facile. Hudson non rimaneva nella memoria per la sua recitazione né aveva memoria per la recitazione (scordava sempre le battute, per poche che fossero). La leggenda - credibile - vuole che abbia impiegato trentotto ciak per pronunciare correttamente l'unica battuta («Meglio che tu prenda una lavagna più grande») del suo primo film, Falchi in picchiata (1948): difficile trovare negli annali del cinema un esordio meno promettente. Willson pensò bene di puntare tutto sul fascino maschile di Hudson e di trasformarlo in un pin-up per il pubblico femminile. Gli fece prendere qualche lezioncina di recitazione e gli fece fare un po' di gavetta, mentre le riviste illustrate presero a mostrarne con generosità il corpo imponente.

La grande occasione venne dal regista Douglas Sirk, per il quale Hudson interpretò sette film, tra cui i melodrammi La magnifica ossessione (1954), Secondo amore (1955), Come le foglie al vento (1956) e Il trapezio della vita (1958). Furono questi film a formare l'immagine romantica di Hudson e a farne una star di prima grandezza con il loro successo al botteghino (la critica li avrebbe riscoperti solo negli anni '70).

Nel 1956, con Il gigante di George Stevens, Hudson si guadagnò l'unica nomination all'Oscar della sua carriera. Dopo il successo di Addio alle armi (1957) di Charles Vidor, a consacrare la levatura di star di Hudson furono le commedie romantiche interpretate a fianco di Doris Day: Il letto racconta (1959), Amore ritorna! (1961) e Non mandarmi fiori (1964). Senza dimenticare altri successi come Torna a settembre (1961), con Sandra Dee, e Lo sport preferito dall'uomo (1964) di Howard Hawks.

Dopo questo periodo aureo, in cui Hudson interpretò anche vari film western e d'avventura, la sua carriera prese a declinare rapidamente. Con Operazione diabolica (1966), film di fantascienza di John Frankenheimer, Hudson sperò invano di aprirsi una nuova carriera come attore drammatico e impegnato: la sua prima apparizione, dopo l'operazione, rappresenta una chiara presa di distanza dalla sua immagine tradizionale. Ma il film non piacque al pubblico, anche se per molti versi merita decisamente una rivalutazione, interpretazione di Hudson compresa.

Hudson cercò di preservare la sua popolarità lavorando per la televisione, soprattutto nella fortunata serie poliziesca McMillan e moglie (1971-1977).

Come a tutte le star di Hollywood di una certa età, anche a Hudson venne riconosciuto un "ruolo alla carriera" in uno dei molti film catastrofici che negli anni '70 servirono da parcheggio geriatrico per star dei tempi andati che avevano nostalgia del set. Ma fu piuttosto sfortunato: la sua occasione la ebbe con Valanga (1978), uno dei punti più bassi raggiunti dal genere.

Hudson, signora e...

Il prezzo che Hudson dovette pagare per tenere in piedi la sua immagine pubblica non fu irrilevante. A Hollywood tutti sapevano della sua omosessualità, ma fuori la notizia non doveva trapelare, pena la distruzione dell'immagine di maschio ideale e disponibile data in pasto al pubblico femminile tramite un'operazione di marketing sostenuta dalle numerose riviste che vivevano della polvere delle stelle. Quando le voci prendevano a girare troppo, gli studios intervenivano. Nel 1955 il giornale scandalistico Confidential aveva pronto un articolo rivelatorio. La Universal, che aveva sotto contratto Hudson, pagò alla rivista 10.000 $ perché rinunciasse a pubblicarlo, e gli diede in pasto una notizia alternativa relativa al passato carcerario di un altro attore, Rory Calhoun. Inoltre, dal momento che il celibato di Hudson cominciava a far parlare, venne rapidamente organizzato un matrimonio di copertura con Phyllis Gates, la segretaria del suo agente (non si può dire che persero tempo nella ricerca...). Hudson non la sopportava e finì col maltrattarla, finché dopo tre anni si giunse al divorzio [3].

Confidential minacciò di tornare all'attacco qualche anno dopo, quando sembrava che Hudson avesse una storia con George Nader, che in realtà se la intendeva con il segretario dell'attore, Mark Miller. Di nuovo la Universal pagò la rivista e prese misure preventive: visti i nefasti ritorni d'immagine del divorzio, non più un matrimonio di copertura, ma l'allontanamento precauzionale di Nader, che venne licenziato.

Nonostante tutto, pare che la vita sessuale di Hudson fosse particolarmente intensa. I biografi ci informano con dovizia di particolari circa le sue preferenze per i ragazzi alti, biondi e con gli occhi azzurri, e sulle feste che organizzava nella sua villa cui partecipavano ragazzi molto disponibili. Tutto ciò in parallelo alle sue relazioni più durature, la più lunga delle quali fu quella con Tom Clark [4].

Nel 1976 Hudson conobbe anche lo scrittore Armistead Maupin, che poi fu occasionalmente suo amante e si ispirò all'attore per un personaggio di Ulteriori racconti della città, tale Blank Blank (Hudson stava in quel periodo con Jack Coates).

"Non ho mai affermato di essere un pescatore!"

Anche in virtù della doppia vita di Hudson, su cui la stampa ha ricamato con esemplare indiscrezione all'epoca della sua morte, viene oggi da chiedersi cosa significasse per Hudson (e per i suoi colleghi che "sapevano") interpretare nel '56, a ridosso del suo matrimonio di copertura, un film come Lo sport preferito dall'uomo, che racconta di un impiegato di un negozio di pesca che tutti credono un grande esperto ma che non ha mai pescato in vita sua, anzi i pesci proprio non li sopporta. Il suo segreto viene scoperto da una donna che lo ricatta, minacciandolo di outing. La sceneggiatura contempla dialoghi come questi:


Roger: Che c'è di male? Non ho mai affermato di essere un pescatore!

Abigale: Non l'hai mai nemmeno smentito...

R: Non m'era sembrato necessario fin'ora...

A: Roger, sta a te decidere, ma farai una meschina figura se viene fuori la verità.

R: Meschina? No, io passerei per un...

A: Imbroglione!

R: Non mi piace questa parola.

A: No, ma è vero, non è così?

R: No. Non è così. Ma se i clienti sapessero la verità io perderei il posto.

[...]

A: A quella ragazza con cui sei fidanzato non hai mai detto che non sai pescare?

R: Non è mai capitata l'occasione.

A: Ma non credi che ti sentiresti meglio se le dicessi la verità?

R: Deciderò io che cosa devo dirle!

A: Certo è un rischio, potrebbe piantarti in asso...

R: Miss. Page...

A: È ricca?

R: Miss. Page, non crede che...

A: Beh, comunque sono affari tuoi...


Ci sarebbero poi da mettere in conto i giochi sull'ambiguità sessuale del suo personaggio in Il letto racconta, che un ginecologo crede incinto, o di quello di Amore ritorna!, dove un attempato ammiratore, dopo averlo visto più volte avvinghiato a donne diverse, alla fine lo vede entrare in albergo con addosso solo una pelliccia da donna ed esclama: «È l'ultima persona che avrei immaginato!». In un'altra scena, e per altri motivi, Sandra Dee ne scambia la (simulata) timidezza per un indizio di omosessualità. E che dire di Non mandarmi fiori? Hudson vi interpreta un ipocondriaco convinto di avere solo poche settimane di vita, che decide pertanto di cercare un buon partito per la moglie. Inizia così a osservare i ragazzi in circolazione, commentandone bellezza e grado di virilità insieme al suo amico più fidato. Quest'ultimo (la cui moglie, alla quale si fa solo un rapido cenno, non viene mai mostrata) non fa che consolare e abbracciare Hudson per tutto il film, e quando si trova a ospitarlo a casa finiscono anche a letto insieme. Alla fine la scelta cade su un ex fidanzato della moglie, maschione ipervirile e muscoloso, che Hudson si trova in buona sostanza a corteggiare in vece della sposa. Alla quale Hudson arriva a dire: «Avresti dovuto sposare Cary Grant!». Battuta clamorosa, riascoltata oggi, visto che anche Grant era gay velato, anche di lui a Hollywood si sapeva tutto, e anche lui era venduto al pubblico femminile come emblema di maschia virilità.

Ma persino in Come le foglie al vento è facile ricamare sui possibili risvolti dell'intreccio, voluti o meno che siano. Hudson vi interpreta Mitch, l'amico fedele di Kyle, rampollo ubriacone di una famiglia di petrolieri. Per tutto il film la sceneggiatura insiste sull'unione tra i due (presentati dalla stampa come «Kyle e il suo amico»), decisamente più solida di quella tra Kyle e la moglie. Senza contare che la sorella di Kyle, Marylee, è da tutta una vita che cerca inutilmente di sedurre Mitch, che da quel che sappiamo non sembra mai aver avuto relazioni con donne e non riesce a vedere nella bellissima e disponibilissima Marylee altro che «una sorella». È piuttosto facile leggere la sua gelosia nei confronti di Kyle non tanto come gelosia per la moglie, di cui dovrebbe essere innamorato, ma piuttosto per Kyle stesso, il quale sposandosi mette la testa a posto, almeno finché scopre di essere impotente! Marylee, intanto, sfoga in forma distruttiva il suo amore frustrato e impossibile per il bel Mitch, costruendosi una rinomata carriera di ninfomane. Quando viene a saperlo, suo padre muore d'infarto. Dopo un ultimo colpo di coda all'inchiesta, alla povera Marylee non rimane che sedersi al posto del padre (che campeggia alle sue spalle in un ritratto), pronta a prendere su di sé il futuro di una famiglia distrutta, abbracciando voluttuosamente un pozzo di petrolio in miniatura che secondo Sirk è «un simbolo spaventoso della società americana» [5], ma ha anche un evidentissimo significato fallico: è tutto quello che le rimane di Mitch (che non è solo un maschio non disponibile, ma anche un genio degli scavi petroliferi).

Il volto dell'AIDS?

Ad ogni modo l'omosessualità di Hudson rimase segreta fino a che si ammalò di AIDS. Sulla malattia e sulla morte di Hudson sono circolate varie leggende, in parte dovute al tardivo tentativo dei suoi agenti di porre rimedio ai danni subiti dall'immagine del divo. Ma anche se Hudson non fu proprio un eroe senza macchia, l'importanza che il suo caso rivestì per quel che riguarda l'impatto sociale dell'AIDS non ne esce sminuito.

Hudson scoprì di avere l'AIDS il 5 giugno 1984, in seguito a una visita dal dermatologo. Tenne nascosta la sua malattia finché poté, persino al compagno Marc Christian (con cui continuò a fare sesso non protetto: per questo, dopo la morte dell'attore, Christian mise in piedi e vinse una causa di risarcimento milionaria). Hudson tentò di spiegare la sua impressionante perdita di peso prima con la scusa di una dieta eccessiva, quindi dell'anemia, poi dell'anoressia, infine di un cancro al fegato.

Voci sul fatto che fosse malato iniziarono a girare quando l'attore interpretò quello che sarebbe stato il suo ultimo ruolo, nella popolarissima soap Dynasty, che ironicamente era stata una delle pochissime serie televisive di quegli anni a trattare apertamente di omosessualità. Hudson dimenticava le battute, al punto che era necessario scrivergliele ovunque, ma non fu questo a fare notizia, poiché tutti sapevano che era sempre stato smemorato. Furono il suo aspetto smagrito e i suoi problemi a parlare che misero in agitazione la stampa. La conferma che c'era qualcosa di grave arrivò poco tempo dopo, quando un Hudson ancora più indebolito comparve al fianco di Doris Day per promuoverne il nuovo show (Doris Day's Best Friends) su una piccola tv via cavo. Hudson volle esserci per fare un favore a colei che aveva diviso i suoi anni migliori e i suoi più grandi successi. Doris Day non fu l'unica a rimanere impressionata dall'aspetto di Hudson e le immagini della conferenza stampa fecero subito il giro della nazione nei telegiornali.

Il pubblicitario di Hudson, Dale Olson, continuava a negare, mentre l'attore, sempre in gran segreto, si recò a Parigi per farsi curare con gli ultimi ritrovati. Vi ritornò pochi mesi dopo, ma in seguito a un collasso venne ricoverato e alla fine approvò il comunicato stampa con cui si dava notizia della diagnosi.

Era il 25 luglio 1985: Hudson ammetteva di sapere di essere malato di AIDS già da un anno; il suo compagno Marc lo scoprì invece solo sentendo l'annuncio alla televisione. Hudson tornò negli Stati Uniti e venne ricoverato a Los Angeles, per essere rimandato a casa a fine agosto.

Qualcuno sperava ancora che Hudson fosse eterosessuale: nel 1981 aveva subito un'operazione e poteva quindi essere colpa di una trasfusione. Ma la rivelazione della malattia venne per lo più presa come un'implicita conferma della sua omosessualità. L'outing definitivo fu opera di Armistead Maupin (che si attirò per questo molte critiche anche da parte della stampa gay) .

La stampa si eccitò ancora di più oscillando con incoerente disinvoltura tra criminalizzazione (per aver nascosto la malattia a chi poteva rimanerne contagiato) e compassione, accuse di ipocrisia (per aver ingannato le sue fan) e sfruttamento indiscriminato dell'immagine dell'attore (uno scatto di Hudson sul letto di morte valeva cifre da capogiro), oltre che tra crisi dello stereotipo dell'AIDS come malattia gay e rilancio di quello stesso luogo comune.

Come scrisse "Il giorno", dando in prima pagina la notizia della malattia dell'attore il 27 luglio 1985,

un simbolo della virilità che muore per omosessualità risponde troppo bene alle attese dello spettatore maschio, della lettrice donna, dell'americano puritano, dell'Europeo cattolico, per non essere inarrestabile, per non autoriprodursi. Al puritano e al cattolico dà l'idea di una punizione fatale, quindi divina [...]; e nell'America puritana [era] una della ragioni che potevano stroncare la carriera politica e azzerare il prestigio sociale di chiunque.

Riportare informazioni accurate era un optional, gonfiarle un diritto, commentarle con pesante moralismo un dovere: le colpe erano tutte di Hudson, come se quello stesso sistema di informazione che ora sguazzava nello scandalo, o quell'industria dell'immagine che aveva costruito stereotipi talmente soffocanti da lasciare poca scelta su come edificare una carriera, non c'entrassero nulla. Da noi si lessero titoli come: «Un simbolo di virilità che finisce "diverso"», «Una vita da divo, una morte da Aids», «Il verdetto dei medici ha distrutto un mito: Rock Hudson, re dei dongiovanni, ha il 'male dei gay'», «Solo nei film era uomo, nella vita era fragile: Liz Taylor cercò di guarirlo» (dall'omosessualità), «Rock fuggiva da Hollywood per cercare l'amore nei bassifondi di San Francisco» [6]. I rotocalchi dell'epoca si fingevano compassionevoli al solo scopo di giustificare il più squallido e intensivo sfruttamento del caso [7].

I timori che avevano indotto Hudson a tenere segreta la malattia (perdere lavoro e fidanzato) in quegli anni erano più che realistici. Pensiamo cosa avrebbe significato il coming out di Richard Chamberlain se, invece che oggi, a carriera finita, fosse stato fatto nel 1983, quando l'attore era uno degli emblemi della maschia virilità eterosessuale grazie al suo padre Ralph di Uccelli di rovo. Ma il 1983 non era decisamente un buon momento: i mass media avevano scoperto l'AIDS e la popolarità degli omosessuali era al suo minimo storico.

Nonostante il prolungato silenzio, Hudson rimane pur sempre la prima celebrità ad aver rivelato al mondo di essere malato di AIDS. Virile, bianco, ricco e persino repubblicano, non sembrava avere nulla a che fare con gli stereotipi rilanciati con l'epidemia, dimostrando così che in quelle convinzioni, confortate dalle statistiche sulle cosiddette "categorie a rischio", qualcosa non andava.

E fu un trauma enorme. Non solo perché Hudson era stato famosissimo, ma anche perché era profondamente amato dal suo pubblico e dai suoi colleghi: nonostante qualche problema con l'alcol, tutti lo descrivevano come un uomo buono e generoso. E soprattutto modesto: era consapevole dei suoi limiti di attore e aveva sempre affrontato il suo mestiere con professionalità, senza mai concedersi vezzi divistici. I rotocalchi lo mitizzavano come un uomo semplice, acqua e sapone, i colleghi lo descrivevano come un uomo senza nemici, che era impossibile non amare.

Fu un colpo anche per un altro attore, amico di Hudson, che si era messo a fare il presidente: Ronald Reagan stava a guardare con indifferenza l'AIDS, la malattia dei froci e dei drogati, mentre seminava morte, rifiutandosi persino di parlarne in pubblico e di finanziare la ricerca. I soldi servivano per cose più serie: erano i tempi dello scudo stellare e i russi erano ancora cattivi, forse anche più delle checche. Con Hudson la conta dei morti per AIDS nei soli Stati Uniti era arrivata a 6945, ma Reagan sarebbe rimasto a guardarla salire fino a 20894 prima di intervenire.

Altri si mossero al suo posto. Hudson dichiarò che sperava almeno che la sua malattia servisse a far capire la gravità dell'AIDS e a stimolare la ricerca di una cura. Allo scopo donò anche una parte sostanziosa della sua eredità. Che fossero gesti sinceri o mosse studiate per rimettere insieme l'immagine pubblica dell'attore (probabilmente entrambe le cose), poco importa. Il fatto è che il caso Hudson servì, e molto. L'AIDS non era mai stato così al centro dell'attenzione della stampa e la ricerca non aveva mai ricevuto così tanti fondi come allora, grazie a una serie di campagne e di iniziative di beneficenza che partirono proprio da Hollywood, e in particolare da una combattiva amica di Hudson: Liz Taylor. Molti malati decisero di non nascondersi più, seguendo l'esempio di Hudson. Negli ultimi mesi del 1985 si registrò un aumento del 270% nella copertura della malattia da parte dei media e il governo degli Stati Uniti, che prima del caso Hudson stava programmando un taglio di 10 milioni di dollari al budget già irrisorio destinato all'AIDS, cambiò idea e invece lo aumentò di 100 milioni di dollari. Come Hudson aveva infine sperato, la sua morte, il 2 ottobre, non fu vana.

Il corpo di Rock Hudson

Il caso Hudson servì anche per iniziare a infrangere tutta una falsa coscienza costruita sulla disinformazione e sui pregiudizi. Si trattava di dimostrare che si stavano arbitrariamente criminalizzando delle categorie sociali invece di stigmatizzare alcuni comportamenti sbagliati: il problema non erano i gay o gli etero promiscui, ma i rapporti non protetti di chiunque con chiunque; il problema non erano i drogati, ma lo scambio di siringhe (che iniettassero droga o antibiotici, non cambiava nulla); ecc. In una parola, si trattava di dimostrare che l'AIDS non era la malattia degli omosessuali (né dei drogati, né degli haitiani, né degli etero sfigati).

Tutta la vicenda umana e artistica di Rock Hudson si era giocata sul suo corpo. Era quello che gli aveva fatto guadagnare il suo posto al sole a Hollywood: come attore non era proprio indimenticabile, ma era bello e aveva un aspetto virile. Al mondo Hudson venne presentato come un esemplare di maschio rassicurante e umano. Più che un amante focoso e un playboy, un marito perfetto, per sé o per la propria figlia. Negli anni '50 e '60, nei quali la maschilità era una cosa serissima, i personaggi di Hudson (e il personaggio Hudson così come lo presentavano i rotocalchi [8]) esemplificavano una «virilità priva di complicazioni» [9] che trasmetteva più sicurezza che ormoni.

Nei drammi di Sirk, ad esempio, i personaggi interpretati da Hudson sono contrapposti a rappresentanti di una maschilità rude e insensibile (ad esempio i personaggi di Robert Stack in Come le foglie al vento e Il trapezio della vita) rispetto ai quali incarnano una versione più rassicurante e sentimentale del maschio, forte ma dolce. È un po' come se in questi personaggi fosse stata resa permanente la trasformazione subita dal protagonoista di Magnifica ossessione, che da sportivo avventuroso ed egoista si tramuta in innamorato sensibile, altruista e romantico, che salva la protagonista dalla cecità improvvisandosi chirurgo, per poi sposarla. Poi: come nota giustamente Dyer, la promessa di felicità in effetti non si realizza mai nei confini del film, tanto che la virilità dei personaggi di Hudson «non viene mai effettivamente testata» [10].

Ma il maschio di Hudson è un esemplare mitico, da sognare senza sporcarlo con le cose del mondo. Un maschio di perfezione tale da risultare comprensibilmente «nauseante» a Fassbinder [11], ma degna incarnazione del "vero americano" da opporre alle nuove icone tormentate di una gioventù ribelle cui il cinema americano, in via di affrancamento dal Codice Hays, dava sempre più spazio. Una gioventù non priva di ambiguità ma eroticamente provocante rappresentata da attori come Marlon Brando e James Dean (il confronto tra Hudson e Dean nel Gigante è perciò quanto mai significativo). Questo nuovo ideale del maschio nevrotico viene messo in burla nelle commedie con Doris Day dai personaggi interpretati da Tony Randall, rispetto ai quali Hudson rappresenta di nuovo l'alternativa salutare: sebbene vi interpreti la parte del playboy che cerca di prendere in giro Doris Day recitando la parte del maschio rassicurante e timido, alla fine puntualmente si innamora, ripudia il suo dongiovannismo (esattamente come lei mette fine alla sua repressione: la morale sta nel mezzo, e nel matrimonio) e finisce col diventare proprio il tipo di maschio che fingeva di essere, e che era già stato nei film di Sirk.

E che continuerà a essere anche in seguito. In Assassinio allo specchio (1980) non è poi molto diverso da com'era in Il gigante (sarà che in entrambi i film è sposato con Liz Taylor), dove, pur incarnando un conservatore texano affezionato ai valori tradizionali quanto alla sua terra, lasciava che la sua esistenza fosse gestita e organizzata da due donne, che significativamente si escludevano a vicenda: prima la sorella zitella e decisamente butch (una Mercedes McCambridge che cavalca i cavalli con la stessa grazia mascolina con cui guidava la motocicletta in L'infernale Quinlan), poi la dolce e democratica moglie che col tempo riuscirà a smussarne gli spigoli e a modificarne i valori.

Perché Hudson potesse incarnare questi eroi dalla "virilità priva di complicazioni" e far sognare le ragazzine e le casalinghe frustrate del mondo civilizzato, ovviamente fuori da Hollywood nessuno doveva sapere della sua omosessualità. Poteva funzionare, e infatti funzionò, perché Hudson aveva il corpo giusto. La storia di Hudson è fondamentalmente quella di un corpo che, semplicemente per il suo aspetto, poté essere prima venduto per eterosessuale, e poi sfruttato selvaggiamente come omosessuale, in virtù di ben precisi stereotipi che contrapponevano eterosessualità, bellezza e salute a omosessualità, bruttezza e malattia [12].

Hudson si è trovato al centro di questi processi di rappresentazione, che non vanno sottovalutati. Come scrive giustamente Watney, «la rappresentazione non è semplicemente un riflesso della "vita vera", ma una parte integrante di essa» [13]. Riflettere sulla rappresentazione dell'omosessualità e del malato di AIDS non significa fare teoria spuria, ma affrontare qualcosa di molto concreto.

Quando il caso Rock Hudson venne sollevato, in molti scrissero che l'attore aveva dato un volto all'AIDS. Ma il vero problema era a monte: l'AIDS aveva (ri)dato un volto all'omosessualità, rilanciando tutta una serie di vecchi stereotipi, a cominciare dall'idea che l'omosessuale sia riconoscibile da tracce corporee e dal suo aspetto generale (anche in quanto malato). Un'idea che aveva già goduto di un certo successo nel secolo precedente, grazie all'avvallo della "scienza" medica del tempo, e che riusciva confortante a una società che percepiva il bisogno di arginare l'omosessualità considerandola una piaga sociale, una malattia contagiosa, un'alcova non solo di peccato ma di criminalità e persino di complotti eversivi. Fu una moda - a livello scientifico - tutto sommato passeggera, ma l'opinione pubblica abbandona meno facilmente le convinzioni rassicuranti.

A un livello più semplice basterebbe ricordare la fortuna dello stereotipo dell'effeminato, con tutte le reazioni che ha prodotto anche all'interno della cultura omosessuale in termini di autopromozione della virilità omosessuale, ad esempio con la cultura leather negli anni '50 e il clone nei '70, proprio mentre l'immaginario erotico gay si appuntava sempre più sul modello beefcake (di cui Rock Hudson era ritenuto una degna incarnazione). Il tutto a costo di buttare il bambino con l'acqua sporca, cioè l'effeminato con lo stereotipo di cui egli per primo era vittima: invece di smontare quei luoghi comuni, molti omosessuali cercavano di mostrarsene immuni, di fatto ratificandoli, eventualmente condividendo l'astio stesso nei confronti dell'effeminato [14].

La maschilità incarnata da Hudson aveva una storia lunga, non meno degli stereotipi che la circondavano. George L. Mosse sottolinea che


malgrado la maggior parte dei simboli e dei rituali della religione civile del fascismo sia scomparsa dopo la seconda guerra mondiale, i suoi stereotipi sono ancora tra noi. Il fascismo aveva semplicemente fatto propri tipi ideali che erano esistiti da quando gli stereotipi moderni erano stati creati, e c'è poca differenza nell'aspetto, nel comportamento virile e nella postura, tra l'uomo nuovo di Mussolini, l'ariano tedesco, l'inglese tutto d'un pezzo e il "vero" americano. [15]

Rock Hudson era proprio questo, un «"vero" americano». Gay.

L'AIDS ha riportato il processo di elaborazione di queste concezioni indietro di decenni rilanciando la possibilità di stigmatizzare determinate categorie sociali (dette «a rischio») attraverso un corpo specifico che le rendesse facilmente riconoscibili. Con il corpo emaciato, indebolito e macchiato dell'ammalato di AIDS, non molto diverso da quello del masturbatore cronico dell'ottocento, era di nuovo possibile visualizzare l'omosessuale, renderlo riconoscibile, giustificandone l'emarginazione (con la scusa del contagio), e ripromuovendone la medicalizzazione (con il pretesto della malattia), e la necessità di controllarlo, di limitarlo (nell'attività sessuale, fonte del male), di rinchiuderlo (la proposta di quarantena dei malati di AIDS fa parte degli eccessi isterici registrati negli ultimi vent'anni) e infine ovviamente di condannarlo (moralmente). Jan Zita Grover [16] ha mostrato come i mass media abbiano ricamato su discutibili dati scientifici, in virtù della presunta obiettività della medicina, ridando volentieri fuoco alle polveri tramite la promozione dell'immagine del malato consunto dalla malattia e già morente, ricercando immagini selezionate appositamente secondo il grado di orrore per rilanciare la paura distinguendo nettamente tra la presentazione delle vittime senza colpa (gli eterosessuali contagiati da trasfusioni), circondati da familiari affettuosi, e degli omosessuali colpevoli (perché la malattia se la sono presa per il loro stile di vita peccaminoso), soli e abbandonati nella penombra.

Rock Hudson ha rappresentato un primo punto di svolta, anche se i giornali tentarono ovviamente di utilizzare il suo caso su questa medesima falsariga pubblicando foto del suo volto scavato, nelle sue ultime settimane di vita, a fianco di scatti dei bei tempi andati: Hudson prima dell'AIDS, Hudson dopo l'AIDS. Che voleva poi dire Hudson eterosessuale, Hudson omosessuale, ovvero il falso Hudson e quello vero (qualcuno scrisse Dorian Gray e il suo ritratto).

L'immagine dell'AIDS dopo Hudson

È ormai tempo di chiedersi dove si sia arrivati in questo processo di rielaborazione culturale, nel quale il movimento gay ha avuto una grande importanza. Sembra allora piuttosto evidente che l'esigenza di contrastare lo sfruttamento a fini scandalistici delle immagini di malati morenti, che imperversava sulla stampa degli anni '80, ha portato sovente a una rimozione non solo della morte, ma della malattia stessa, fino alla vera e propria disinformazione nelle correnti pubblicità di farmaci che, interessati al dato puramente commerciale, promettono risultati miracolosi garantendo alle "persone con l'AIDS" la possibilità di condurre una vita normale, come se non fossero malate. Sposando senza riserve lo stereotipo salute/bellezza, il corpo sano, minacciato dall'AIDS, è presentato sempre come un corpo perfetto che la malattia (con il suo precipitato di bruttezza) minaccia di deturpare. Anche nelle campagne di prevenzione, malattia e morte non hanno cittadinanza, se non in rarissimi casi (si vedano le ultime campagne della COCQ-Sida del Québec) e in forma di metafora, e comunque non intaccano il corpo.

La divaricazione di questo immaginario può essere riassunta in due discusse campagne Benetton: la celebre immagine di David Kirby sul letto di morte circondato dai parenti in lacrime, dell'inizio del 1992, e la serie di immagini di parti di perfetti corpi maschili tatuati dalla scritta "HIV positive", della fine del 1993. Non mi interessa qui la discutibilità dell'operazione, ma il contrasto tra il corpo malato che restituisce cittadinanza a morte e sofferenza, attraverso una sorta di laicizzazione dell'ars moriendi, e un corpo rappresentato con tutti gli stereotipi della salute e della bellezza virile, ma in realtà malato: la sieropositività non si vede, non segna il corpo come la malattia conclamata. Le cose, quando si tratta di sessualità, non sono mai così "prive di complicazioni" come prometteva il corpo del Rock Hudson cinematografico.

Alcuni esponenti del movimento gay statunitense criticano da tempo questi eccessi e si sono trovati a ribaltare l'obiettivo iniziale: prima si trattava di ricordare che i malati di AIDS non muoiono nel momento stesso del contagio, ma sono persone che vivono con una malattia; ora si tratta di ricordare che vivere con una malattia non è come vivere senza una malattia, e che di AIDS si muore ancora, e che le terapie e le medicine esistenti non sono proprio delle aspirine e hanno pesanti ripercussioni sull'organismo. Una campagna decisamente fuori dagli stereotipi, condotta da Stop Aids Project di San Francisco, era intitolata significativamente "HIV is no picnic" e mostrava proprio le conseguenze dell'AIDS sul quel corpo intoccabile che pare ormai tabù mostrare imperfetto e malfunzionante.

Gli eccessi nel ribaltamento delle immagini iniziali associate all'AIDS e il generale calo dell'attenzione dei media sono tra le cause del fatto che negli ultimi anni si è registrato un aumento dei casi di AIDS, anche tra i gay. È quanto sta accadendo anche in Italia, stando agli ultimi dati statistici: il 26% dei nuovi casi del 2004 riguardano infatti omosessuali. La familiarità con l'AIDS, con cui conviviamo ormai da un quarto di secolo, e la falsa impressione che l'allungamento dell'aspettativa di vita dei contagiati garantita dalle nuove terapie coincida con il sostanziale superamento della malattia stanno inducendo ad abbassare la guardia.

Ciò rende tanto più gravi le politiche del governo Berlusconi, che ha tagliato i finanziamenti al Fondo globale per la lotta all'AIDS e ha deciso di cancellare, per la prima volta in Italia, qualsiasi campagna di prevenzione rivolta alle persone omosessuali. Stiamo tornando ai tempi di Reagan? Speriamo non si debba aspettare un altro Rock Hudson per comprendere la gravità della situazione.
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