Simon Tseko Nkoli

4 luglio 2005

C'è un solo paese al mondo che ha inserito nella sua costituzione un chiaro riconoscimento dei nostri diritti.

Questo paese è il Sudafrica, e la notizia appare strana se si pensa che fino a non molti anni fa la società di quel paese era divisa nettamente in due comunità, quella nera, indiana e mulatta da una parte (i cosiddetti colored, comprendente la stragrande maggioranza della popolazione), e quella bianca di vecchi olandesi, inglesi, tedeschi e francesi (che dal 1652 riuniva la minoranza europea). Nettamente separate dal colore della pelle, è vero, dall'apartheid, ma unite dallo stesso odio e dallo stesso disprezzo per l'omosessualità!

Meglio ancora, i neri pensavano che il gay fosse una persona normale che, per qualche fattura o maleficio, fosse stata posseduta da uno spirito malvagio. I bianchi si trascinavano dietro le solite piacevolezze bibliche e l'idea del peccato e della degenerazione.

Com'è stato possibile, allora, l'inserimento di una dichiarazione così rispettosa nel documento formativo del nuovo stato africano nel 1994?


Fu tutta opera di un uomo. Un solo uomo: un uomo dallo sguardo dolce, una pazienza infinita, una volontà di ferro: Simon Tseko Nkoli.

Simon era nato nel 1957. Il giorno del suo ventesimo compleanno si presentò a casa con il suo ragazzo, André: un bianco, un afrikaaner!

La madre rimase folgorata! Il figlio era gay, e già questo era un grosso problema, ma non l'unico: nel regno della discriminazione razziale s'era messo con un bianco!

Lo portò subito da un sangoma, un guaritore locale, poi da un altro e un altro, e un altro ancora. Senza successo. Qualcuno diceva ch'era stato "fatturato", qualcun altro che era semplicemente gay e non c'era nulla da fare se non accettare la situazione.


La madre non si rassegnò, e visto che i metodi tradizionali a base di ossa umane gettate in aria non funzionavano... provò con quelli più moderni. Portò tutti e due i ragazzi da uno psicologo che li analizzò, li studiò, li interrogò e, alla fine, stappò una bottiglia di champagne augurando loro un futuro felice: era gay anche lui!

Scoraggiata, la madre si mise l'anima in pace e, nel corso degli anni, finì dapprima per accettare, e poi per sostenere con coraggio le battaglie del figlio.


Le battaglie! Simon era un guerriero nato, anche se un guerriero dolce. Da piccolo aveva aiutato i genitori a nascondersi dentro un armadio, visto che la polizia li cercava per deportarli... Aveva vissuto da sempre la pesante discriminazione della pelle, ed ora subiva pure quella degli affetti. Quando portò André dalla madre, era già stato arrestato tre volte per aver cercato di protestare contro l'apartheid.


Divenne un membro dell'African National Congress (ANC), la più grande organizzazione (fuorilegge) che si occupava dei diritti dei colored, e dello United Democratic Front (UDF).

Nel 1981 divenne segretario regionale del Congresso degli Studenti Sudafricani (COSAS), e fu qui che cominciò la sua battaglia per creare un ponte tra la lotta per i diritti civili e la lotta per i diritti gay. Subì numerosi arresti e perquisizioni. Spesso fu costretto a nascondersi, con i suoi genitori che non sapevano più se fosse vivo o morto.


Una svolta decisiva gli venne data dall'ennesimo invito a partecipare ai meetings della COSAS con la sua ragazza. Al che lui rispose che aveva un ragazzo... L'organizzazione entrò subito in crisi: non era possibile che un omosessuale tenesse una posizione tanto importante. Ci fu una serie di discussioni piuttosto animate e combattute per arrivare ad una decisione e dopo qualche giorno, finalmente, venne "votato" con una maggioranza dell'80% che Simon meritava di restare al suo posto.


L'anno seguente Nkoli entrò a far parte della Gay Association of South Africa (GASA), un'organizzazione di bianchi medio borghesi che, scoprì subito, non erano interessati a nessun discorso d'integrazione razziale.

Per questo, due anni più tardi, fondò il Saturday Group, collegato alla GASA e riservato ai gay di colore.


Tutte queste attività ebbero un fermo improvviso nel settembre del 1984, quando venne arrestato mentre interveniva a un funerale. L'accusa: aver preso parte ad una dimostrazione anti-apartheid nel corso della quale avrebbe tirato un sasso contro un uomo, uccidendolo.

Più precisamente, l'imputazione riguardava omicidio e tradimento.

Simon venne rinchiuso per 16 mesi, senza poter mai incontrare un avvocato, senza sapere quando avrebbe avuto un processo, in isolamento, e con la sola compagnia di un libro: la bibbia! Infine, gli venne permesso di incontrare gli altri carcerati.


Nella prigione centrale di Pretoria c'era anche Nelson Mandela, il futuro presidente del Sudafrica, e poi Tom Manthata, Gcina Malindi, Moses Chikane, Popo Molefe tra gli altri 21 accusati insieme a lui di aver partecipato alla stessa manifestazione: tutti personaggi di primo piano nel Sudafrica degli anni successivi.


Anche in questa occasione, Simon decise di uscire allo scoperto. L'occasione gli venne fornita da un piccolo scandalo interno. Alcuni carcerati avevano scoperto uno di loro mentre scriveva una lettera d'amore al suo compagno. Tutti si sentirono oltraggiati e discussero animatamente quali misure prendere contro un crimine del genere.

Simon decise di intervenire e di aprirsi con i compagni di pena, facendo leva su quel po' di prestigio del quale cominciava a godere.

Le reazioni furono miste. Qualcuno disse che non c'era nulla di male nell'essere gay, visto che aveva dimostrato fino a quel momento d'essere capace lo stesso di svolgere il suo lavoro meglio di chiunque altro. Ma ci dall'altra parte fu perfino chi manifestò l'intenzione di non essere giudicato con lui nel medesimo processo, per paura di essere coinvolto nella sua omosessualità.


Passarono alcune settimane, durante le quali il tempo trascorse in interminabili discussioni tra i carcerati sulle ripercussioni della sua identità gay sul loro caso, sulla possibilità di essere gay e rivoluzionario, e sulla naturalezza della stessa condizione omosessuale.

La decisione raggiunta fu straordinariamente positiva, e questo fu dovuto allo stesso Simon Nkoli, che era stato onesto riguardo alla sua gayness e ne aveva parlato per la prima volta a persone che non l'avevano mai affrontata seriamente, al di là delle solite battute tra amici, e portando come esempio proprio se stesso, il suo impegno nella lotta rivoluzionaria.

Secondo uno dei testimoni di quel periodo, la presenza di Simon

"ampliò la nostra visione, aiutandoci a vedere che la società è composta di tante persone i cui orientamenti sono diversi, ed uno deve riuscire a conviverci".


Man mano che si avvicinava la data del processo, i compagni di Simon diventarono sempre più protettivi nei suoi confronti. Finalmente, nel gennaio del 1986, dopo quattro anni trascorsi in carcere, salì sul banco degli imputati e poté respingere le accuse.

La sua difesa fu efficace. Ci tenne anche a specificare che, il giorno in cui avrebbe dovuto trovarsi in quella disgraziata manifestazione, in realtà stava partecipando ad una iniziativa della GASA, l'associazione gay della quale faceva parte.

Tra gli spettatori del processo, ed ammirato dalla schiettezza di Simon, si trovava anche l'arcivescovo e premio Nobel, Desmond Tutu.


L'anno successivo a quello che sarebbe passato alla storia del Sudafrica come il "Processo per tradimento di Delmas" (Delmas treason trial), il Sudafrica elesse un nuovo presidente, Frederik Willem de Klerk, il quale cominciò l'opera di trasformazione democratica del paese.


Negli anni Novanta, poi, successe qualcosa di inaspettato. Alcuni dei suoi compagni di prigionia si trovarono ad occupare posti chiave nel nuovo governo del Sudafrica. Ad esempio, Mandela divenne presidente, Patrick "Terror" Lekota ministro della difesa. E fu proprio Lekota che collaborò alla nuova costituzione del 1994, nella quale si garantiscono a gay, lesbiche e trans, eguali diritti nei settori pubblico e privato dello Stato.

Lekota fu chiaro nell'attribuire a Simon il merito del suo sostegno:

"Come potremmo dire che uomini e donne come Simon, che hanno lavorato così duro per farla finita con l'apartheid, come potremmo dire che ora devono essere discriminati a loro volta?"


Sembra accertato che le lunghe discussioni tenute da Simon nella prigione, l'aver mostrato apertamente il suo modo di vivere la sua vita e di lottare per i suoi diritti, hanno aiutato tutta la comunità varia sudafricana.


Finito il processo, Simon continuò nel suo impegno per i diritti gay, fondando varie associazioni, anche per combattere l'Aids, ormai arrivato pure nel suo paese, e con una forza distruttiva perfino insolita.


A un certo momento si accorse di essere sieropositivo e, con la solita franchezza che lo caratterizzava, rese pubblica anche questa notizia, sicuro che avrebbe contribuito a sollevare dall'Aids quel velo di mistero, paura e morbosità, che ancora lo caratterizzava. Sarebbe vissuto per dodici anni con l'hiv (in un paese dove più di tre milioni di persone si trovavano nelle sue stesse condizioni, e dove 390 ancora ne muoiono ogni giorno), assistito dal suo compagno inglese, Roderick Sharp.


Morì il 30 novembre del 1998, il giorno prima del World Aids Day, mentre per le strade di Johannesburg ancora riecheggiava il suo slogan: "Not the Church, not the State, we ourselves decide our fate" [1].

Oggi, c'è una "via Simon Nkoli" ad Amsterdam, mentre a San Francisco si festeggia il "Simon Nkoli Day". E c'è anche un film, girato da una sua cara amica, Beverly Palesa Ditsie, intitolato Simon and I.


Non è difficile prevedere che passerà alla storia come uno dei grandi del ventesimo secolo: una persona che, da sola, ha cambiato la vita della nostra comunità.

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