Figlio del poeta e letterato Bernardo Tasso, Torquato studiò legge a Padova e Bologna.
Nel 1565 entrò al servizio del cardinale Luigi d'Este prima a Ferrara e poi nel 1570-1571, al suo seguito, a Parigi, dove conobbe i poeti della "Pléiade".
Nel 1572 fu accolto nella corte di Alfonso II d'Este, duca di Ferrara, che ne apprezzava le doti letterarie e che nel 1576 lo nominò storiografo ducale.
Purtroppo verso il 1575 iniziò a manifestare sintomi di paranoia che lo spinsero, nel 1577, a fuggire da corte, ritenendosi perseguitato da continue congiure. Tornato a Ferrara nel 1579 il suo comportamento fu tale che egli venne internato, come pazzo, nell'Arcispedale di Sant'Anna, dove restò fino al 1586.
Alla liberazione iniziò un periodo di frenetici viaggi e spostamenti in varie città d'Italia, resi possibili anche alla fama procuratagli nel frattempo dalle sue opere poetiche, la più importante delle quali è il poema cavalleresco La Gerusalemme liberata (prima edizione: 1580), che conobbe un immenso favore di pubblico: alcuni brani furono addirittura messi in musica dai più grandi compositori dell'epoca, quali Sigismondo d'India o Claudio Monteverdi (Il combattimento di Tancredi e Clorinda).
Quando la morte raggiunse Tasso, nel 1595, egli stava ancora vagando: si spense nel Convento di sant'Onofrio a Roma, dove è visibile la sua tomba, ottocentesca.
Torquato Tasso è annoverato fra le figure più importanti della letteratura italiana, il che ha garantito in passato una sicura ostilità verso qualunque tentativo di discutere della sua omosessualità.
Se ne parla ogni tanto a sprazzi, per allusioni, magari con tirate psicoanalitiche che attribuiscono al solito la "colpa" della sua omosessualità a mammà.
Il primo ad affrontare il tema fu, addirittura nel 1887, Angelo Solerti, in un articolo [1] ancor oggi ammirevole per rigore scientifico ed onestà, e quindi caduto nell'oblìo.
Più di recente, in occasione del quarto centenario tassiano (1995), non sono mancati i soliti guru psico-cosi pronti a giurare che Tasso:
"soffrì per la rottura precoce del rapporto con la madre. (...)
Dal suo rapporto incompiuto con lei nasce l'omosessualità del poeta. (...)
La traumatica relazione con la madre, come quella che, per altri versi, ebbe Pasolini, predispone il Tasso all'omosessualità" [2].
Autore di questi poco illuminati pareri è un tale Ferruccio Ulivi, scrittore cattolico che ha partorito anche un polpettone biografico-psicoanalitico sul Tasso dal titolo: Il fuggitivo. Ne avremmo fatto a meno...
Comunque sia, il sasso è stato lanciato ed abbiamo finalmente letto qualche nuovo studio e ascoltato qualche voce finalmente diversa. Ad esempio quella di Sandra Giannattasio, studiosa che ha contribuito alla preparazione delle celebrazioni:
"L'omosessualità del Tasso (...) è scientificamente documentata nelle lettere del poeta. (...)
Tasso ebbe un rapporto tempestoso con un giovane cortigiano, Orazio Orlando, mentre Lucrezia era per lui probabilmente ciò che fu per Dante "la donna dello schermo"...
E il suo gesto, attribuito a pazzia, di accoltellare il servo che lo stava spiando da dietro una tenda, mentre lui si sdilinquiva in un colloquio amoroso con Lucrezia, fu secondo me un modo paradossale di sottolineare un'eterosessualità, e quindi una "normalità", inesistente.
Tasso fu vittima della Controriforma, sia per quanto riguarda le sue inclinazioni sessuali, costretto a reprimere, sia dal punto di vista intellettuale e artistico, perché fu spinto ad epurare in senso controriformistico la sua opera maggiore, trasformandola, negli ultimi anni, nella fiacca Gerusalemme conquistata" [3].
Benissimo. Così stando le cose, andiamo a esaminare le lettere che documentano, addirittura "scientificamente", l'omosessualità del poeta.
Si tratta per la precisione di due lettere che il poeta scrisse verso il maggio 1576 a monsignor Luca Scalabrino, a Roma.
L'antefatto delle lettere è presto detto: Scalabrino era innamorato del Tasso e lo desiderava di "amor concupiscibile" cioè, come diremmo noi oggi, "sessualmente".
Il monsignore ne aveva parlato con Orazio Ariosto (1555-1593, figlio di un nipote di un altro grande poeta italiano, Ludovico Ariosto) del suo amore e della sua attrazione sessuale per il Tasso, e Orazio aveva spifferato il pettegolezzo al Tasso.
Tasso si piccò per il fatto che la cosa fosse stata detta ad altri e non a lui e accennò allo Scalabrino che non stava bene
"usare meco estraordinaria segretezza di alcuni dei vostri o affetti o disegni che a molti son palesi, né dobbiate poi sdegnarvi contra me se alcuna particella a caso, non la cercando io, me n'è riferita" [4].
A Scalabrino venne un mezzo infarto: in preda a comprensibile isteria, immaginandosi già additato come sodomita da tutti, scrisse una lettera d'insulti (o quasi) all'Ariosto, rinfacciandogli di avere una linguaccia, e in particolare di avere spettegolato fra tutti proprio con il Tasso, notorio propalatore di segreti (la lettera non ci è pervenuta, ma il tono si capisce da quanto ne scrive il Tasso, rispondendo a Scalabrino).
Per buona misura mandò anche una letteraccia al Tasso, probabilmente intimandogli di tenere chiusa la bocca, e Torquato rispose per le rime.
Però dopo poco i due amici fecero la pace, come dimostra questa lettera del Tasso:
"Vostra Signoria per l'ultima sua mi dimanda perdono di non m'aver palesato il suo amor concupiscibile; e per l'altre sue, che prima m'ha scritto, ha sempre mostrato di credere ch'io sia sdegnato con esso lei, perch'ella non m'abbia rivelato questo suo desiderio carnale, e rende assai onesta cagione de la sua segretezza e del silenzio usato meco. Io, che ho deliberato di confermar quella deliberazione ch'io feci molt'anni sono, cioè d'aver Vostra Signoria non solo per caro e cordiale amico, ma per lo più caro e per lo più intrinseco di tutti gli altri, ed in somma per parte de l'anima mia, non voglio più lungamente lasciarla in questo errore e in questo inganno. (...)
Sappia dunque, ch'io non mi sdegnai perché Vostra Signoria non mi scoprisse il suo amore (c'a questo per nessuna ragione voi eravate obbligato) ma mi sdegnai perché voi vi recaste a così grande ingiuria che l'Ariosto me n'accennasse un non so che. Né solo vi sdegnaste, ma a lui scriveste in modo che ben si poteva comprendere che vi riputavate offeso da lui gravemente. A me poi scriveste una lettera piena di tanto disprezzo, che nulla più.
Confesso c'avevate occasione di dolervi fra voi stesso, che l'Ariosto avesse palesato questo secreto a me, il quale so mal tacere i miei propri secreti; ma certo nissuna ragione voleva che, per cosa di sì poca importanza così apertamente fosser da voi dette parole così acerbe a lui e a me medesimo contra la mia riputazione. L'amico deve ricoprire i difetti de l'amico, ed io, che sono il più loquace uomo del mondo, non ho mai detto cosa alcuna c'a voi possa spiacere né in questa né in altra occasione" [5].
Scalabrino ebbe comunque entro poco la rivincita per il suo amore non corrisposto: il 14 dicembre 1576 Tasso (giusto sei mesi prima che esplodesse in lui la crisi di paranoia) gli confessa tutto il suo vano amore per uno scolaro, che lo disprezza e maltratta. Secondo il giù citato Solerti, che pubblicò per primo la lettera che segue, questo "scolaro" non sarebbe altri che il ventunenne Orazio Ariosto.
Tasso si lamenta:
"Egli tratta meco in modo, che non si cura di lasciarmi soddisfatto: gli basta solo ch'io non possa far constar [constatare] ad altri ch'egli mi offenda.
Io l'amo, e son per amarlo anco qualche mese, perché troppa gagliarda impressione fu quella, che l'amore fece nell'animo mio, né si può in pochi dì rimovere, per offesa quanto si voglia grave; pure spero che il tempo medicherà l'animo mio di questa infermità amorosa, e 'l renderà intieramente sano.
Che certo io vorrei non amarlo, perché quanto è amabile l'ingegno suo, e la maniera in lui universale, tanto dee a me parer odioso un suo particolar procedere verso me [il suo modo di trattarmi, NdR]. (...).Chiamo questo mio amore, e non benevolenza perché, in somma, è amore: né prima me n'era accorto e non me n'accorgeva, perché non sentiva destare in me nessuno di quegli appetiti che suol portare l'amore, ne anche nel letto, ove siamo stati insieme. Ma ora chiaramente mi avveggio ch'io sono stato e sono non amico, ma onestissimo amante, perché sento dolore grandissimo, non solo ch'egli poco mi corrisponde nell'amore, ma anche di non poter parlare con esso lui con quella libertà, ch'io soleva, e la sua assenza m'affligge grandissimamente.
La notte non mi sveglio mai che la sua imagine non sia la prima ad appresentarmisi, e rivolgendo per l'animo [riflettendo nell'animo] mio quanto io l'abbia amato ed onorato, e quanto egli abbia schernito ed offeso me, e, quel che più mi preme (parendomi troppo indurato nelle risoluzioni di non amarmi), me n'affliggo tanto, che due o tre volte ho pianto amarissimamente, e s'io in ciò mento, Iddio non si ricordi di me" (...) [6].
Credo che questa bella e sincera lettera, una delle poche lettere antiche che ci parlino di un amore omosessuale in tono così pacato e profondo, sia di per sé un documento che scioglie ogni dubbio.
E non è l'unico. Perché qui arriviamo al caro amico, il marchese Giovan Battista Manso (1569-1645), che nel 1621 portò alle stelle il Tasso in una biografia che è una semi-agiografia, e che si lascia scappare "qualcosa" parlando della "continenza" del poeta:
"negli atti poi fu così grande la sua continenzia, ch'io quantunque non osassi accertare lui essersi del tutto da' carnali congiugnimenti sempre astenuto, nondimeno non potrei affermare di saper cosa in contrario. (...)
Ma questo ben posso con sagramento [giuramento] testimoniare, ch'egli intorno alle operazioni di Venere naturalmente nemicissimo fu d'ogni atto ingiurioso alla natura [neretto aggiunto, NdR] e alle sacre leggi del matrimonio, e altrettanto schiffo di ravvolgersi nelle sozzure di queste femine del mondo [prostitute]. (...)
Oltre a ciò fui da bocca di lui medesimo rassicurato che dal tempo del suo ritorno in sant'Anna, ch'avvenne negli anni trentacinque della sua vita e sedici avanti la morte, egli intieramente fu casto; degli anni primi non mi favellò mai di modo ch'io possa alcuna cosa di certo qui raccontare" [7].
Manso dunque addirittura giura (e se sentì bisogno di farlo è segno che giravano voci che dicevano il contrario...) che Tasso fu sempre casto... dai trentacinque anni in poi!
Quanto a quelli precedenti... non sa, non può dire, non può garantire...
Questa prudenza eccessiva è un segno palese del suo timore d'esser smentito: Manso infatti non si dimostra affatto persona prudente laddove può falsificare i dati senza paura di essere ripreso, per esempio attribuendo al Tasso una sfilza di aforismi rubati dalle vite dei filosofi greci! Trattandosi di un omaggio letterario, questa falsificazione se la poteva concedere senza bisogno di mostrarsi prudente...
Insomma, ciò che emerge dai giuramenti e dagli aneddoti del Manso è solo che Tasso detestava i rapporti sessuali con le donne, e a maggior ragione il matrimonio.
Manso stesso [8] ci mostra il Tasso che rintuzza coloro che vorrebbero che prendesse moglie.
E a degli amici che volevano convincerlo, a Venezia, a frequentare assieme a loro la casa d'una "cortigiana", dicendogli che se non si fosse svagato sarebbe diventato matto, rispose che preferiva impazzire piuttosto che frequentare femmine [9]. (E fu accontentato).
Del resto la spiegazione dell'avversione per il sesso data dal Tasso . ("chi ha dato al mondo la sua farina, non deve negare a Dio almeno la crusca") [9] è una boutade, non una "spiegazione".
Forse perché la vera spiegazione non era possibile spiegarla... essendo quella suggerita dalla poesia d'amore che Tasso scrisse "A un leggiadro giovinetto" (se per l'Ariosto o per un altro ragazzo, non si sa):
Qual chiamar ti degg'io, divo o mortale?
Rassembri tu bendato al bel sembiante
divo, e 'l divo d'amor fatto costante,
che, per fermarsi in me, disponga l'ale.
Certo Amor sei, che spiri amor, e tale,
ch'io ne divengo affettuoso amante,
e il cor, ch'avea di rigido diamante,
intenerir mi sento ad ogni strale.
Opra in me, qual più vuoi, face, o saetta:
legami ad ogni nodo: e se mi sfida,
scingi che puoi, la spada a Marte audace.
Io chiedo la tua guerra, o l'altrui pace:
regnerò teco ancor; ma la diletta
tua Psiche [anima] almen da lungi a me sorrida [10].
Potremmo qui approfondire l'analisi chiedendoci quanto dell'ossessione del peccato che angustiò Tasso, spingendolo a presentarsi volontariamente al Tribunale dell'Inquisizione, derivasse dai suoi sensi di colpa di omosessuale.
Ma qui si entra in un terreno scivoloso di ipotesi psicologiche che preferisco non percorrere.
Con questi versi concludo perciò la mia breve scorribanda fra le carte antiche, augurandomi che nuovi documenti e nuovi studi facciano presto luce su questo aspetto "proibito" della vita del Tasso [11].