Saggio di Angelo Solerti (1865-1907).
/p. 431/ La leggenda che ancora circonda molte delle figure illustri della nostra letteratura, più completamente, e con maggiore estensione nella massa della gente colta, riveste quella di Torquato Tasso.
Questo tipo cavalleresco, divenuto sovra ogni altro caro al nostro popolo, ci inspirò sempre un senso di dolce compassione per le sue sventure: e perciò, come accade, se pur frugando e ricercando documenti che ne illuminino l'avventurosa vita, l'erudito è contento, quella certa parte di noi che pur resiste alla polvere delle biblioteche ne prova quasi rammarico.
Svanita quasi totalmente la leggenda de' suoi amori, mercé i dotti lavori del Guasti e del Gampori; stabilita indubbiamente la sua pazzia mercé quelli del Corradi, conosciute le sue miserie fino all'ultima grazie alla raccolta cronologica delle numerosissime lettere e dei documenti tratti dagli archivi, pur rimaneva intorno a Torquato Tasso una certa aureola di amore ideale, di castità, che quasi non lo faceva sembrare uomo del cinquecento.
Se a Padova ebbe qualche amoruzzo[1], se nei primi anni passati alla splendida quanto corrotta corte di Ferrara [2], godé facili amori, i lunghi anni di prigione in appresso, e la vita randagia e miserabile non ci lasciavano dubbio sulla sua continenza.
La quale opinione è convalidata ancora (per quanto non sia /p. 432/ sempre testimonio degno di fede), dal Manso, amicissimo suo, che nella Vita di lui, al capo III, scrisse:
e più sotto:«onde visse fin dagli anni suoi giovanili con maravigliosa pudicità, e di ciò n'é testimonio chi in Padova e in Bologna fra gli altri scolari il conobbe»
Il buon abate Serassi sorvola sull'argomento, sul fine della Vita, e si toglie d'impiccio allegando il Manso stesso; così gli altri biografi.«Negli atti poi fu così grande la sua continenza, ch'io quantunque non osassi accertare lui essersi del tutto dai carnali congiungimenti sempre astenuto, nondimeno non potrei affermare di saper cose in contrario; eppure pochissimi stimo io che sieno coloro che ne possono più sapere di quel che io ne so. Ma questo ben posso con sagramento testimoniare, ch' egli naturalmente nemicissimo fu d'ogni atto ingiurioso alle sacre leggi del matrimonio, e altrettanto schifo di ravvolgersi nelle sozzure di femmine vili, onde con niuna ebbe in tutto il corso della vita a dimesticarsi.
Oltre a ciò fui di bocca di lui medesimo rassicurato, che dal tempo del suo ritegno in Sant'Anna, ch'avvenne negli anni trentacinque della sua vita e sedici avanti la morte, egli intieramente fu casto: degli anni primi non mi favellò mai, di modo ch'io possa alcuna cosa di certo qui raccontare».
Ma qualche attestazione di genere ben diverso troviamo nelle sue lettere. Scrivendo nell'ottobre del '76 a Scipione Gonzaga, poi cardinale, e narrandogli come un certo suo nemico, che nasconde sotto il nome di Brunello, gli rubava delle sue scritture, dice:
la qual cosa fu già rilevata dal Corradi nel suo pregevolissimo lavoro [4].«Egli, sempre ch'io andava fuori, mi dimandava la chiave delle mie stanze, mostrando di volersene servir in fatti d'amore; ed io gliela concedeva» [3],
Importanti per il nostro argomento sono in principal modo tre lettere, fra il maggio ed il giugno dello stesso anno, a Luca Scalabrino [5].
Eccone qualche periodo:
Non sappiamo per qual motivo l'Ariosto fosse prigione: sembra però fosse per lieve mancanza, se il Tasso scriveva nella susseguente lettera:«Avete il torto in mille modi; e sia detto con vostra pace. Scrivendo a me, peccate in materia ed in forma; ma io non ne incolpo se non me stesso. Tanto mi basta di rispondere ad una parte de la vostra lettera, a la quale risponderò più /p. 433/ a lungo come avrò letto non una volta l'alfabeto greco, ma dieci e venti volte i salmi: frattanto stiate sicuro che io v'ho sempre amato, e vi amo svisceramente; né sono ancora tanto pazzo che, amandovi com'io fo, debba con tanto ardore procurare la vostra vergogna.
De' miei secreti sono signore, e posso, senza offesa altrui, rivelarne quella parte che mi piace a chi voglio. De gli altrui, tanto ne dico quanto piace a chi li commette a la mia fede; e se io altre volte ho discoperto, contro vostra voglia, a vostro padre il vostro male, l'ho fatto per soverchio zelo de la vostra salute, de la quale son risoluto di non volere aver maggior cura di quella che voi vogliate che s'abbia: ma ben ben vuo' pregarvi, per l'amore che vi porto, che se io rimango sodisfatto di voi, a cui nulla ascosi mai de i miei pensieri, che non usiate meco estraordinaria segretezza di alcuni vostri o affetti o disegni che a molti son palesi, né dobbiate poi sdegnarvi contra me se alcuna particella a caso, non la cercando io, me n'è riferita; o almeno sfogate meco tutto questo sdegno senza dimostrarlo altrui; che ciò non potete fare, che non diate insieme a divedere che poco m'amiate e nulla mi prezziate.
Ho detto più di quello ch'io voleva: perdonatemi; che la mano, spronata da un giusto dolore, è trascorsa mal grado de la volontà.
Ora passiamo ad altra materia. Il signor Orazio [6], il quale è prigione, nel sonetto del labro [7], commise due errori...
Di Ferrara, il [8] 11 di maggio [1576]».
Già qui è da osservare che l'Ariosto era per lui una pratica molto cara; sembra poi, che lo Scalabrino rispondesse scusandosi in modo amichevole, intorno a quanto Torquato gli aveva scritto, con la lettera dell'11 maggio, poiché troviamo, che questi replicò sullo stesso argomento:«Orazio Ariosto, è stato alcuni di prigione, e poi a casa, la sera ch'egli usci [9]. Io non l'ho più veduto, si che risolvo privarmi anche in parte di questa pratica, che per altro m'era molto cara. E in somma, vuo' cominciare a vivere a la cortigiana in tutto e per tutto, e mirare a tutte quelle apparenze a le quali finora non ho avuto riguardo così /p. 434/ particolare. L'olio [10], a chi l'abbiate mandato non lo so: se a l'Ariosto, lo avrò quando mel porterà, che mi pare onesto.
E baciovi le mani. Datemi alcuna nuova. Il 19 maggio».
Si duole in seguito che lo Scalabrino si fosse riputato offeso per questa confidenza, e lo assicura che non aveva fatto motto con alcuno.«Vostra signoria per l'ultima sua mi dimandò perdono di non m'aver palesato il suo amor concupiscibile; e per l'altre sue, che prima m'ha scritto, ha sempre mostrato di credere ch'io sia sdegnato con esso lei: perch'ella non mi abbia rivelato questo suo desiderio carnale, e rende assai onesta cagione de la sua segretezza e del silenzio usato meco.
Sappia dunque, ch'io non mi sdegnai perché vostra signoria non mi scoprisse il suo amore (c'a questo per nessuna ragione voi eravate obbligato), ma mi sdegnai perché voi vi recaste a così grande ingiuria che l'Ariosto me n'accennasse un non so che».
Dal contesto di queste lettere sembrami facile rilevare di qual genere di malattia fosse affetto lo Scalabrino. Poco sotto conchiude «e più non si parli di queste co . . . », trapassando tosto a dire come avesse finito di conciare il canto sesto della Gerusalemme e «stanco di poetare» si fosse volto a «filosofare».«ed io che sono il più loquace uomo del mondo, non ho mai detta cosa alcuna c'a voi possa spiacere né in questa né in altra occasione; se non solo che palesai a vostro padre ed a m. Antenore la vostra infermità, per soverchia gelosia de la vostra salute».
Questa lettera senza data, ma certo della prima metà di giugno, ci delinea assai bene le inclinazioni del tempo; un certo malcostume era vizio generale, né il candido Torquato pare se ne scandolezzasse di troppo; e da queste cose, di piè pari, quei dotti uomini saltavano alla poesia, ai trattati, alle discussioni filosofiche.
Curioso tempo quello che accanto alla Gerusalemme ci ha dato la infinita congerie di capitoli osceni, la più parte dei quali giacciono inediti; e che con le discussioni aristoteliche produsse /p. 435/ i Ragionamenti dell'Aretino.
Ma tutte le attestazioni dei biografi, così concordi rispetto alla costumatezza del Tasso, non erano finora infirmate da queste lettere.
Ora peraltro, tra molte lettere inedite, che ho trovate di Torquato [11], ve n'ha una che ha ben maggiore importanza: se essa non ci mostra il poeta insozzato di un vizio contro natura, ne appare per lo meno la nessuna ripugnanza ad esso. Questa lettera però solleva un gran dubbio che è meglio, se è possibile, chiarire subito.
Il succubo desiderato in essa sembra a prima vista sia quel signore di cui il Tasso aveva ricevuto una lettera; il quale pare giovine perché si spera di lui buona riuscita.
Ora per signore, senza altro, nelle sue lettere il Tasso intendeva sempre Scipione Gonzaga [12], ed il Guasti, alla lettera 31 illustra: «Noto una volta per sempre che il Tasso chiama antonomasticamente signore, Scipione Gonzaga».
Ma questa supposizione ci ripugna ed è inverosimile. Il Gonzaga aveva allora circa trentaquattro anni [13], ed era a Roma da lunga pezza, mentre la persona della quale il Tasso ragiona, era con lui a Ferrara. Piuttosto devesi ammettere un trapasso repentino d'idea e di stile, così comune al Tasso, in particolare, e a molti scrittori, di modo che il pronome suo non si riferisca al signore, ma ad un individuo nominato nella lettera del signore.
A questa asserzione, che a bella prima potrebbe parere arrischiata, vengono in aiuto due lettere, delle già edite. Esse sono entrambe indirizzate allo Scalabrino: l'una è del 3 dicembre di quest'anno 1570, l'altra è posta fra quelle di data incerta [14].
La lettera inedita, oggetto del nostro studio, è del 14 dicembre dello stesso anno, rilevandosi quest'ultimo facilmente, sebbene non /p. 436/ sia nel codice, da altri fatti ai quali in essa si allude. Io inclinerei a fissare la data della lettera posta fra le incerte come di poco anteriore a quella del tre dicembre. Troviamo in quella un personaggio nuovo che può essere l'individuo cercato; inoltre appare affinità grande di sentimenti fra cotesta lettera e quella di cui ora trattiamo. È necessario dunque, che in parte venga riportata:
Mi pare che certissimamente questa lettera si debba riferire a questo tempo ed al fatto di cui parliamo; e, considerate le relazioni del Tasso coll'Ariosto, intorno alle quali già abbiamo veduto qualche cosa, essa mi sembra assai importante. Ecco ora /p. 437/ l'altro biglietto, da Modena, del 3 dicembre:«Il vostro allievo mi ha rovinato. Era il canto di Clorinda che voleva da voi: l'ebbe da me [15]; e ha fatto di belle prove! Ma questo è il minimo dei danni che mi ha fatto! Sono certo di ogni cosa. Com'egli si vide scoperto, cominciò a schernirmi.
Ora udite miracolo. Io, che verso altri ho concepito odio e sdegno, amo ancora lui tenerissimamente, ed ho gelosia e martello e dolore grandissimo di non essere riamato.
Gli ho parlato liberissimamente; l'ho assicurato che mi sono non per congetture ma per segni certissimi ed infallibili accorto del tutto; e assicuratolo ch'io gli perdono, e che desidero di essergli amico, e che lo amerò cordialissimamente, se per lui non rimarrà; che scuso la gioventù, e perdono alcuni falli a l'occasione.
Egli niega, non arrossisce, ma impallidisce d'un pallore notabile: e dubito che induratus sit cor Faraonis.
Pure le mie parole hanno operato almen questo, che ha lasciato l'impudenza. Se non ha un cuore di Lestrigone, spero, con l'amarlo, sforzarlo ad amarmi. Dice di voler scrivere a voi di questo mio sospetto. Se ve ne scrive mostrate di non ne saper cosa alcuna. Fate l'ufficio che vi pare. Sono in grandissimo travaglio».
Ora precede nell'epistolario a questa lettera un'altra a Scipione Gonzaga [16] dove sono queste parole anche notabili alle quali sicuramente si riferisce l'amico del biglietto ora riportato.«In risposta de la vostra, altro non vuò dire se non che pur finalmente mi sono avveduto ch'io non ho mai troppo sospettato, ma sì bene molte volte troppo creduto. L'amico ha operato contro a me molto più di quel che si possa credere».
Ancora un fatto che illumina i rapporti dell'Ariosto col Tasso: una lettera del giugno allo stesso Scalabrino così comincia:« ...Dico che si scrive contro il mio poema e forse centra ad altre mie cose: lo scrittore è, o sarà, l'Ariosto; al quale credo però, anzi son sicuro, che da altri saranno somministrate le armi che egli mi lancerà contro. Io sopporto questa ed ogni ogni altra offesa da lui con animo non sol paziente ma amorevole verso lui. È degno di riso il veder che, non ostante questi sospetti queste certezze, siamo tutto il giorno insieme...».
Ed è opportuno anche ricordare, come abbiamo visto da principio, che l'Ariosto era stato il confidente dello Scalabrino nell'amore suo, e che l'Ariosto stesso l'aveva comunicato al Tasso.«L'Ariosto vi mandò una mia canzone come sua, mosso non so da quale spirito. Giudicò, forse, che in questi secoli pieni di santità non si convenisse ad un uomo che passa trent'anni parlare così lascivamente; e per questo ebbe riguardo a la mia fama. Comunque si sia, la canzone è mia, e voi forse, senza ch'io il dicessi, l'avreste conosciuta per mia» [17].
Noto ancora che fra le rime del Tasso [18] v'è un sonetto amoroso a Leggiadro giovinetto [19].
Da questa ricostruzione, e dai rapporti che abbiamo veduto intercedere tra l'Ariosto e il Tasso, mi sembra facile dedurre che la persona in questione fosse appunto Orazio Ariosto, quegli che in appresso scrisse gli argomenti alla Gerusalemme. I so/p. 438/spetti poi, qui accennati dal Tasso, si riconobbero infondati: che anzi l'Ariosto, anche molto più tardi, difese e amò sempre il Tasso, come si rileva da altri documenti [20].
Infine, nel prezioso codice, segue alla lettera che qui pubblichiamo un'altra lettera, pure inedita, del 6 gennaio del 1577, la quale così comincia:
Segue un poscritto, lungo quanto la lettera, dove pure troviamo questo periodo che c'interessa:«Tenetevi pur voi la vostra credenza (se pur credete quel che scrivete) ch'a me giova d'attenermi a la mia certezza; anzi non mi giova, ma mi noce, che vorrei, se fosse possibile, non saper tanto a dentro quanto io so di questo particolare.
Per risposta altro non dico, se non che per l'avvenire, mi guarderò molto di darmi così in preda ad alcuno amico che mi sia poi non solo difficile, ma noioso, il ritormigli.
Ora approvo quel detto che altre volte riputai inumano, ch'in guisa si debba amare, che sia facile il disamare».
Appare da queste parole che lo Scalabrino assicurasse il Tasso che tradimento, né letterario né amoroso forse, esisteva, e che il Tasso si acquetasse ben presto. Egli era allora sul principio di quel periodo della sua vita e del suo male, per il quale tosto disvoleva ciò che aveva chiesto con insistenza, ed era cominciato il timore della persecuzione, che doveva procurargli tanti affanni. Era già fuggito da Ferrara la prima volta, e questa lettera è infatti in data di Modena.«Dopo avere scritto ho ricevuto la vostra del 19....
Dell'allievo a me certo pare d'averne piuttosto scienza che opinione, ma se voi credete altramente che posso altro se non passar nella vostra credenza...»
Ecco finalmente, senz'altro, il documento, che abbiamo cercato d'illustrare.
Certo grave doveva essere l'amore che in questa lettera è espresso per ridurre il Tasso a quegli estremi di passione; e non valeva in lui il timore della stampa contro sua volontà della Gerusalemme non finita, per la quale sollecitava la scomunica, a ritenerlo da tornare nel poscritto al favorito argomento./p. 439/ Ho veduta la lettera del Signore, bella certo, ma che? De l'ingegno suo io non dubitai mai, ed ora ne son certissimo e spero di lui ogni gran riuscita.
Ma voi ammirate in lui l'attitudine a l'eloquenza, ed io la disposizione a l'esser cortigiano, perché ha più appreso di quest'arte in pochi mesi ne le scole, ch'io non ho fatto in molti anni ne la corte.
In somma io non m'inganno, e parlo per iscienza, non per sospetto, o per congettura; voi credete quel che vi pare; ma se qui foste o vi trovaste presente ad uno o due de' nostri ragionamenti, vi chiarireste in parte; perciocché egli tratta meco in modo, che non si cura di lasciarmi soddisfatto; gli basta solo ch'io non possa far constar ad altri ch'egli m'offenda.
Io l'amo, e son per amarlo anco qualche mese, perché troppo gagliarda impressione fu quella, che l'amor fece ne l'animo mio, né si può in pochi dì rimovere, per offesa quanto si voglia grave; pure spero che il tempo medicherà l'animo mio di questa infermità amorosa, e 'l renderà intieramente sano.
Che certo io vorrei non amarlo, perché quanto è amabile l'ingegno suo, e la maniera in universale, tanto dee a me parer odioso un suo particolar procedere verso me, cominciato da poco in quà, e nato non so da qual affetto, se non forse da emulazione, o da desiderio di soddisfare altrui, il che più credo.
Chiamo questo mio amore, e non benevolenza perché, in somma, è amore: né prima me n'era accorto e non me n'accorgeva, perché non sentiva destare in me nessuno di quegli appetiti che suol portare l'amore, anche nel letto, ove siamo stati insieme.
Ma ora chiaramente mi avveggio ch'io sono stato e sono non amico, ma onestissimo amante, perché sento dolore grandissimo, non solo ch'egli poco mi corrisponde ne l'amore, ma anche di non poter parlar con esso lui con quella libertà, ch'io soleva, e la sua assenza m'affligge gravissimamente. La notte non mi sveglio mai che la sua immagine non sia la prima ad appresentarmisi, e rivolgendo per l'animo mio quanto io l'abbia amato ed onorato, e quanto egli abbia schernito ed offeso me, e, quel che più mi preme (parendomi troppo indurato ne la risoluzione di non amarmi), me n'afliggo tanto, che due o tre volte ho pianto amarissimamente, e s'io in ciò mento, Iddio non si ricordi di me.
Spererei che se egli fosse certo de l'animo mio, sarebbe costretto ad amarmi, ma come ne può essere egli certo essendo consapevole del suo, e giudicando ex aliorum ingenio.
E se voi, al qual nessuno affetto de l'animo mio fu mai celato, e che 'n tanti anni dovreste aver conosciuto quanto io sappia fingere, ne dubitate, ben è ragione ch'egli, che n'ha minor conoscenza, ne dubiti. Tanto basti intorno a lui; or vengo a noi.
Non posso in alcun modo rimaner soddisfatto che dopo il primo avviso della stampa, indugiaste tanti dì a scrivermi, che s'altro di nuovo non avevate inteso, dovevate almeno scrivere: altro non s'è inteso. Mostrai la seconda vostra lettera alla signora Duchessa, la qual giudica anch'Ella ch'abbiate alquanto mancato, ma questa è di quelle male soddisfazioni, che poco importano. Io son tutto vostro, e son sicuro che m'amate di cuore, né mai per /p. 440/ accidente alcuno dubiterò di questo. Voi, di grazia, non vi fate far bolzorie con queste nove del sig.r P.
Non posso dire il tutto, ma un dì vi parlerò nell'orecchio. Il duca ha scritto al sig.r lacomo per la scomunica, sollecitatela al Teggia, che non sarà vero l'avviso, no.
Io la vorrei fatta in modo, che me ne potessi servire, quando io disegnassi di stampare senza il privilegio di Venezia. Intendetemi, dico quello che altra volta scrissi, se ben credo, che a questo della stampa io non verrò così tosto, che ve ne debba essere bisogno, e vi bacio le mani.
Il 14 di Decembre [1576].Non iscrivete cosa alcuna al signor Alber. che fareste peggio.
Il Signore le dirà un particolare intorno all'allievo, ma siate di grazia muto, che s'egli il farà modestamente, non rimarrò d'amarlo. Ho pescato questa sera il secreto.
Angelo Solerti.