Chi ha paura di Patricia Highsmith? Giudizio morale ed omofobia tra le pieghe della biografia

17 luglio 2016

Cosa scriverebbe oggi una biografa chic, o una giornalista d’alto bordo, se esistessero lettere, foto, testimonianze della vita di Saffo? Farebbe notare che la tardona, un tempo silhouette ma ormai sfasciata dagli anni, aveva avuto in passato tante di quelle storie con giovani virgulte da sembrare una killer seriale in amore… si insinuerebbe addirittura, nella lanterna magica della fama, l’ombra della maestra pedofila? Oppure si ipotizzerebbe che il fatto che vivesse su un’isola testimoniasse il suo caparbio rifiuto degli altri?
Magari, anche, si potrebbe sottolineare qualche incontro erotico passeggero con poeti maschi suoi contemporanei, tanto per ribadire che insomma il suo appetito andava, addirittura, scandalosamente, pure se per attimi, oltre il suo proverbiale orientamento sessuale?
Certo, tutto è possibile quando all’interesse dei biografi si apre una marea d’archivio, affrontata magari con metodicità ma senza gli strumenti atti ad impedire lo sfogo della misoginia e, ancor più, di quella particolare forma di omofobia che fa di ogni lesbica una temibile e arcigna zitella da microscopio.
Questi pensieri mi hanno attraversato la mente tempo fa, il 18 agosto 2003, quando Natalia Aspesi, nota critica di costume italiana, sulle pagine del quotidiano la Repubblica, iniziava un lungo articolo in ricordo della scrittrice americana sottolineando come non fosse mai riuscita a trovare l’anima gemella. L’articolo era incorniciato da un sommario che riportava “dopo i sessanta il suo aspetto assunse una devastazione desolata e sul volto si leggeva l’infelicità e il rifiuto”. Se un sacerdote avesse cercato parole più sferzanti per descrivere la punizione “naturale” per il peccato dell’omosessualità (forse la menopausa?) non avrebbe fatto di meglio. Certo è che tutte le donne sono punite dalla società per il fatto di invecchiare, ma nel caso di una lesbica la punizione diventa devastazione.
Queste parole mi colpirono di più dopo la visione di una deliziosa intervista televisiva girata alla Highsmith circa nel 1980, quando ancora viveva in Francia a Montcourt, e passeggiava lungo il Canal du Loing. Accompagnata dal borbottio delle chiatte che sfilano tra i cigli erbosi del canale, la cinepresa la coglie pensierosa, volenterosa, mentre risponde in un buffo francese alle domande sul suo lavoro. Quell’intervista mi torna in mente anche quando leggo, nella biografia di Joan Schenkar, come “Highsmith snobbasse il francese”, cosa fatta notare in foggia punitiva. L’accento spiccatamente americano ma la cura che la scrittrice mette invece per rispondere alle domande dell’intervistatrice, smentiscono. Quello che in più si nota è lo sforzo fatto per mostrarsi, la difficoltà del gesto di chi disdegna le celebrazioni biografiche, un modo di sorridere spontaneo e aperto, una certa ingenuità nel proporsi come lavoratrice metodica, sfatando senza volere tutti i pregiudizi sul nesso tra genio e sregolatezza: “Otto pagine al giorno? ”, dice ammiccante, e poi viene ripresa mentre ripone gelosamente i fogli nella scrivania.
Altro particolare non da poco che mi colpì, invece, nell’articolo di Aspesi, fu il descrivere la casa di Highsmith ad Aurigeno, “una specie di prigione o antro dell’orco”, gettando un sospetto sul fatto che la val di Maggia, come tutte le valli montane del mondo, fosse “senza sole per molti mesi all’anno”. Il teorema anti-lesbica giunge a sfidare Heidi denigrando quella casa, disegnata per lei da Tobias Ammann, silenziosa per scrivere, chiusa da un lato ma dall’altro con una bellissima vista sulla valle.
Confesso di aver ringraziato Iddio, nel quale, come Highsmith, non credo, per l’esistenza di Youtube, nel quale posso vedere gratis il volto aperto della scrittrice smentire questi giudizi estetico-morali.
La sola lettura dell’indice della biografia di Highsmith scritta da Schenkar mi portava a frugare e giudicare la vita della scrittrice come una tragica pantomima: “La mamma” (in italiano, quindi peggiorativo di Edipo) per parlare dei rapporti con sua madre, “Les girls” (in inglese, forse richiamo alla filosofia di Playboy) per parlare delle sue relazioni lesbiche. Che qualcuno possa avere una madre poco materna e molte storie amorose è concesso solo a scrittori maschi etero, forse anche bianchi. In quel caso l’irrequietezza è ricerca della felicità?
Nel caso di noi lesbiche invece i biografi e le biografe si sentono più autorizzati a esercitare una sorta di diritto al giudizio divino, come dovessero fare al nostro posto il bilancio di una vita.
Dunque nella fuga di Highsmith dagli Stati Uniti e dalle grandi città si cerca un movente psichiatrico analizzando carte e carteggi piuttosto che ascoltare dalla sua voce: “preferisco evitare il rumore, e poi…le persone delle grandi città sono disoneste, e questo mi deprime…le persone di campagna sono più oneste”. Invece la ricerca quasi lombrosiana continua, insinuando il dubbio che la scrittrice sia una sorta di Yeti (senza segretaria), visto “che scrive a macchina con solo quattro dita”.
Della sua solitudine Highsmith parla nella preziosa video intervista francese, con molta chiarezza, fermandosi spesso a guardare l’intervistatrice per scorgerne la comprensione: “quando sono sola le idee arrivano…quando sono in mezzo agli altri spesso mi sento tesa e quindi affaticata, è interessante parlare ma le idee arrivano più tardi. …a volte mi chiedo perché sono lì”. L’ansia creativa spesso la sottrae dalla vita mondana, pure se Highsmith viaggiò e mantenne corrispondenza con tante persone: “Ho altre cose da fare nel mio tempo, la vita è limitata e non voglio passarla combattendo”.
Queste parole, mentre abita a Montcourt, in quello che Schenkar definisce “oscuro villaggio suburbano in Francia” (in realtà un posto gradevolissimo, Highsmith aveva un buon intuito per gli habitat silenziosi), e viene ripresa andare a piedi nel negozietto all’angolo. Vediamo una lesbica di mezza età, un po’ curva per la lunga permanenza allo scrittoio, ossuta, ritrosa. La sua casa è semplice, con qualche vaso di fiori qua e là. Forse è quello l’antro della strega lesbica, di quella che ha combattuto per rimanere autonoma e poter scrivere pur senza avere un marito e una famiglia a mantenerla, quella con più di una stanza tutta per sé.
Da questa stanza risponde anche a domande decisamente spinose, cercando di mantenersi in equilibrio pur sapendo di stare per dire cose estremamente scomode pure per la maggior parte dei suoi fan. “Signora Highsmith, lei crede in Dio?”, “No, credo che l’animale uomo abbia bisogno di un’idea, di una buona idea che non è la stessa cosa del buon dio; per poter fare una rivoluzione, per costruire un paese, ci vuole un’idea. ”
Alle domande sulla sua vita privata taglia corto, dicendo che non le interessa il matrimonio perché nel “suo paese” le mogli sono presentate come domestiche. Ovviamente si tratta di un diversivo, come darle torto. Noi certo vogliamo farlo perché sappiamo quanto è duro vivere come lesbica, sia sola che in coppia, e rivendicare la propria individualità in una società etero-normativa. “Scrivere è un piacere, il mio piacere”.
Spesso le donne lesbiche di successo vengono criticate per il loro attaccamento al denaro, anche nel caso di Highsmith sono state fatte illazioni molto pesanti (“morì con a fianco solo il suo commercialista”).
Si tratta di una reazione omofobica verso il punto debole di persone che hanno costruito un’esistenza di libertà economica in un mondo per il quale sapevano di essere una minaccia.
Per questo il genio di Highsmith è peculiare, non si tratta di un “immaginario omicida” come scrivono, ma del riuscito esperimento di far sentire in colpa anche gli etero, di smussare i confini identitari sessuali e morali (Ripley), di rovesciare quindi il delitto della “normalità” in normalità del delitto.
“Scrivo sempre sul tema della colpevolezza. Sento spesso che i miei libri sono fuori moda perché nessuno oggi si interessa alla colpevolezza”, dice Highsmith, erano gli anni ’80, “oggi la vita non vale niente, ed io mi sbaglio a credere importante il senso di colpa, capisco che scrittori come Voltaire abbiano deciso di ricorrere alla satira, perché solo con quella si può dire qualcosa “.
Così, mentre stava per trasferirsi nei pressi di Tegna in Ticino, nei luoghi che anche la filosofa Hannah Arendt (guarda caso autrice di ‘Banalità del male’) visitava per la villeggiatura, la scrittrice inventa personaggi specchio di una società capitalista senza scrupoli, sfacciatamente basata sulla morte e lo sfruttamento altrui… in lotta coi sensi di colpa. Per questo, mentre l’ectoplasmatica omofobia si impossessa delle biografie per ricacciarla nel suo inferno freudiano di pulsioni originanti il lesbismo, lei ci piace senza remore. Ci piace quel suo modo pensoso di investigare, quel suo indagare la colpa, quel suo giudizio verso gli “eterni femminini” (in Piccoli racconti di misoginia), le sue storie di animali alla riscossa (in Delitti Bestiali), il suo sarcasmo politico (la sua “scorretta” ironia sul sionismo e anche sul papa).
Patricia Highsmith ha vissuto la scommessa d’essere lesbica negli anni ‘50; già testimoniata da un romanzo non a caso intitolato “Il prezzo del sale” (Carol), col suo costante successo e il suo importante contributo ad una visione differente del rapporto amoroso, storia originale e senza autocensure che il paragone forzoso con Lolita non riesce comunque a intrappolare nell’arena etero-normativa. E noi la ringraziamo per la sua lucidità, la amiamo virtualmente anche se concretamente non ci avrebbe invitate per il tè.

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